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Un completo sconosciuto, come una pietra che rotola

Feb 4, 2025 | 2025, Recensioni

Come un perfetto sconosciuto; come una pietra che rotola.

La pietra che rotola, non ha volto; le sue immagini non sono sulla copertina di un disco, o su un profilo social. La pietra che rotola, somiglia ad un cespuglio senza nome portato via dal vento nel deserto: però, così, una pianta che sembra perduta e abbattuta, in realtà sparge i suoi semi intorno. Somiglia ad un polveroso ragazzo che, di nascosto, salga su un treno merci in corsa, e si faccia portare sino alla prossima stazione, qualunque essa sia.

E essere un perfetto sconosciuto, è quello che, forse, vuole il narcisismo di un artista. Scomparire dietro la propria opera, libera, e poter vivere ogni giorno, magari senza la necessità di tenersi addosso gli occhiali da sole, o di scappare dalle persone che lo riconoscono in strada.

Dovrebbe essere tutto detto con le parole delle canzoni: con la loro musica.

E questa, in fondo, è la scelta del regista del film dedicato al primo periodo della storia di Bob Dylan, autore, cantante, Premio Nobel per la Letteratura.

La storia di Bob Dylan, dal suo primo disco, alla cosiddetta “svolta elettrica”, è la storia delle sue prime canzoni. Secche, taglienti, profondissime e depistanti.

Sembrano arrivare dal nulla, e, d’improvviso, definiscono un paesaggio, una possibilità, una visione, e bastano a sé stesse.

C’è in esse, un uso della parola, raro; una acuta capacità di leggere la realtà e mostrarne il volto più aspro e contraddittorio; una grandissima forza nell’evocare altri mondi possibili.

Mondi dove l’uomo non sia definito dalla misura di quanti altri esseri umani uccide o prevarica, o sfrutta.

E’ una storia raccontata per quadri successivi, senza lasciare spazio alla possibile rappresentazione di una motivazione, o di un pensiero, o di una spiegazione. Il regista pare quasi un vecchio cantastorie siciliano, che, impegnato in un racconto mitologico, ne abbia disegnato le scene principali su grandi teli bianchi, e le illustri poi, passando dall’una all’altra, col progredire del racconto, mentre i suoi spettatori già conoscono la trama, e possono solo restare stupiti del modo in cui la storia è narrata, piuttosto che dei suoi successivi passaggi, delle cui connessioni, è possibile fare anche a meno.

Da dove viene la chitarra di Woody Guthrie, che reca impresso il motto “This machine kills fascists” ? E quale messaggio comunica ? E perché Woody Guthrie è in un letto d’ospedale ? E chi è Pete Seeger ( uno splendido Edward Norton ), che siede accanto a lui ? E perché, entrambe, sono disponibili ad ascoltare un giovanissimo signor Nessuno che si presenta, inaspettato, da loro, e canta i suoi testi ?

Ancora una volta, lo straordinario racconto dell’arte.

Di quella spinta interiore che non si ferma dinanzi al consueto scorrere dei giorni, ma li innerva di sé, totalmente, tanto da costituire, spesso, un vero ostacolo alla vicinanza con chi ne sia posseduto.

Quegli occhi, di Timothee Chalamet, che guardano l’interlocutore, e lo trapassano, cercando di raggiungere qualcosa che solo lui vede, come una febbre che non si placa mai, e desidera tutto bruciare, scandiscono ogni svolta successiva del film.

Chalamet-Dylan sembra non essere mai pago di sé stesso e di quello che ha intorno. E’ continua la sfida a progredire, ad andare oltre, ad inseguire strade di cui gli altri, neppure sospettano l’esistenza.

E quando questa continua tensione si salda con l’egoismo, con l’intransigenza artistica, allora diventa davvero difficile reggere l’urto con la sua personalità.

Ne fanno le spese le donne; ne fanno le spese i suoi sostenitori, che si sentono traditi, se il loro idolo cerca e sperimenta nuove modalità espressive. Se mette in discussione le strade che d’abitudine siano percorse, per entrare in contatto con altri mondi, con altre sensibilità.

Ne fanno le spese i suoi ammiratori, e le sue ammiratrici, da cui si può solo fuggire.

E’ tutto nelle canzoni, sembra voler dire questo racconto.

E’ tutto nell’opera; la vita dell’artista è solo uno strumento che serve a immaginare una creazione. Il mondo poetico di Dylan è complesso, e cerca sempre un modo per andare contro la corrente che sembrerebbe più favorevole.

Ma forse, è solo andando contro tutto quello che tutti si aspettano da noi, che si possono trarre i migliori frutti dal proprio impegno e dalla propria aspirazione.

Gli anni raccontati dal film, sono anni, invece, in cui tutto portava a far coincidere, l’opera dell’artista con la sua vita, e grandissime erano le tensioni ad oltrepassare ogni limite, forse anche perché l’urgenza di raccontare, di scoprire nuovi mondi, di contrastare il mondo nel quale si viveva, premeva fortissimo, e, talora, poteva non esserci più equilibrio.

E il racconto sembra suggerire anche una progressiva acquisizione di consapevolezza, e di distanza. Chalamet-Dylan, cresce, dinanzi ai nostri occhi, ma, mentre cresce, sente lo stridore del suo impatto con la realtà, e cerca di tenersene lontano, perché la realtà gli chiede comunque profitti; gli chiede di adeguarsi ad una serie di regole, che non sono sue.

Pur se chi lo chieda faccia parte di un gruppo di persone affini, per aspirazioni politiche ed artistiche.

Non riesco ad avere simpatia per i tanti che, nel mondo della musica, e soprattutto in quegli anni, non riuscirono a contrastare una terribile tendenza all’autodistruzione, che ci ha privato di grandi voci e grandi talenti; non riesco ad ascoltarne le canzoni, anche quando grandissime.

Anche Dylan, ha sfiorato questa possibilità, forse quando, poco dopo gli eventi narrati nel film , ebbe un grave incidente di moto, che lo tenne lontano ( o forse fu la scusa giusta per farlo ), per anni, dai palcoscenici, pur se continuò ad incidere dischi.

La barriera della lingua impedisce, almeno in parte, di comprendere appieno i testi delle canzoni di Bob Dylan – anche se la scelta di sottotitolarle aiuta davvero – e il film ne ricostruisce i contesti, pur scegliendo un punto di vista “dylaniano”, si direbbe: laterale, cioè, apparentemente casuale, ma in realtà, frutto di confronti continui, con le persone; frutto di una realtà in cui il dibattito pubblico ed il contatto diretto tra persone era una scoperta nuova e preziosa, che cominciava a camminare nelle manifestazioni di piazza e nelle assemblee pubbliche e universitarie .

Ma Bob Dylan, non voleva essere un portavoce.

E’ una scelta diversa, la sua, da quelle di Joan Baez o di Pete Seeger.

Forse per Dylan, scegliere di non volersi porre in testa ad un movimento, era una scelta di tutela della propria indipendenza e libertà artistica, e questo, dovrebbe poterci consentire di intervenire, altrettanto liberamente e criticamente, sulle sue successive evoluzioni musicali e artistiche, che comunque non intaccano in alcun modo l’impatto che la sua figura, la sua musica, e la sua poesia ebbero per tutti gli anni ‘60 -’70 dello scorso secolo.

Di certo, il film restituisce una figura che, pur tra contraddizioni personali, segna di sé l’intero panorama della cultura mondiale, mentre chiede di restare in ombra, ed ha il pregio di farcene vivere lo sbocciare, esattamente dal punto di vista del suo protagonista riottoso.

E lascia addosso il desiderio di approfondire, pur se  non incontrata, nel momento del suo massimo splendore per ragioni anagrafiche, quella temperie musicale e culturale ; profonda, ma altrettanto fragile, perché se era figlia, di una situazione economica, sociale, culturale e politica di quel periodo, con il mutare delle condizioni, quella musica, se non universalizzata nel suo senso, non riesce più a parlare, in un contesto profondamente mutato.

Va detto, che la figura di Chalamet, al momento, sembra in grado d’essere capace di togliere dall’ombra qualsiasi storia che voglia essere raccontata.

Un attore che si lasci crescere, e sporcare le unghie, per poter suonare la chitarra mostra una passione non comune, ma che però è davvero capace di comunicare.

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