Kung Fu Panda, è, ormai, un marchio.
Grazie alla sua capacità di costruire, e rappresentare, contemporaneamente, un immaginario collettivo, è divenuto un classico, a partire già dalla sua prima uscita, sedici anni fa.
Il Panda si è trasformato in un elemento caratterizzante del nostro paesaggio. I suoi segni, i suoi rimandi, le sue allusioni, le sue immagini, grazie alla loro larghissima diffusione, ci accompagnano quotidianamente nel nostro vivere.
Il Panda racchiude in sé una pluralità di significati, e di linguaggi, e abita in quella difficile area di confine, dove un prodotto industriale di un mercato milionario, dimostra una sua capacità di produrre narrazione, magari anche involontariamente, ma che incontra i pensieri e il vivere di quantità assolutamente rilevanti di persone.
Da un certo punto di vista, il Panda, non è solo un famoso “attore”, le cui storie sono capaci di rivolgersi ad un pubblico universale, per età, aree geografiche, trasversalità di classe sociale; ma un fenomeno “culturale”, prodotto sì dall’industria dell’intrattenimento, ma capace di svolgere una sua autonoma vita, nell’immaginario delle persone.
Il Panda, innanzitutto, rappresenta la possibilità che chi non sia, soprattutto fisicamente, dotato, raggiunga altissime vette nelle sfide del vivere, a partire da un progressivo, e mai concluso, processo di autoconsapevolezza e crescita.
Ma rappresenta anche una antica civiltà del combattimento, che è, prima di tutto, un combattimento contro sé stessi: le proprie paure, le proprie insicurezze, le proprie autolimitazioni; la propria difficoltà a incontrare il cambiamento e a convivere con esso.
Rappresenta anche la tensione continua, che viviamo in noi stessi, tra quel che dovremmo essere ( anche perché magari il mondo chiede a noi qualcosa di particolare ), e quel che invece siamo, o vorremmo essere: e il Panda risolve questa tensione, sempre, in ognuno dei quattro episodi sin qui usciti nelle sale cinematografiche, decidendo, nonostante tutto il proprio atteggiamento sfiduciato verso sé stesso, di superarsi, ma senza credersi mai del tutto.
Il Panda, è la nostra “sindrome dell’impostore” che contraddice sé stessa.
Ma, naturalmente, il Panda è anche il frutto di attentissimi lavori di marketing e di sceneggiatura; di studi preliminari sulla possibilità che un certo personaggio, e un certo modo di raccontare una storia, possa produrre empatia, identificazione, divertimento, e quindi mercato e denaro. Gli investimenti, in questo senso, sono sempre ingentissimi, anche nella scelta di dotare i disegni animati, delle voci di grandi attori, famosi per le loro interpretazioni sul grande schermo, e capaci, perciò, a loro volta, di generare rimandi, messaggi simbolici; interi mondi narrativi.
Dustin Hoffman che interpreta il Maestro Shifu, da solo, racconta, con la propria voce, decine di film iconici e potentissimi, che si “aggiungono”, alla narrazione del Panda e la fanno funzionare come una eco capace di propagare lontanissimo la propria voce.
Non ho le necessarie competenze tecniche, ma immagino che, accanto ai conoscitori della saggezza orientale, a far da consulenti a chi ha scritto l’ultimo film, e anche gli altri della serie, vi sia anche chi abbia compiuto approfonditi studi di psicologia e sappia disegnare, con grande attenzione, il percorso di crescita che, ogni volta, il Panda compie.
Lo schema, che accompagna le storie del Panda, è sostanzialmente, lo stesso dei film che raccontano la vita dei supereroi del fumetto.
C’è un soggetto di cui, inizialmente, si evidenziano i difetti, i limiti, le deficienze fisiche che, per avvenimenti più o meno inattesi, acquisisce una consapevolezza delle proprie potenzialità, attraverso un percorso che somigli ad una iniziazione. Questo soggetto esercita poi le proprie capacità, riuscendo in imprese, o in situazioni, in cui, il proprio svantaggio iniziale, prevedibilmente, lo avrebbe condotto ad una sconfitta certa.
Ma mentre egli acquisisce sicurezza di sé, si palesa al suo orizzonte, un antagonista apparentemente invincibile che, inizialmente, fa sentire tutta la propria superiorità, mettendo alle corde il soggetto protagonista che, però, non s’arrende e, magari, con il controcanto, o con l’aiuto di un compagno di viaggio, dotato sì di qualità ma inferiori a quelle dell’eroe, finisce col prevalere, e, con egli, il Bene.
Su questa struttura narrativa, consolidata, seriale, è possibile inserire infinite variazioni sul tema, che saranno poi quelle caratterizzanti la storia, volta per volta rappresentata, e i suoi protagonisti.
Esiste, per questo, il rischio della ripetitività, dell’assottigliarsi delle capacità e possibilità creative, per quanto ormai, siamo nell’epoca della serialità, che sembra essere la nuova frontiera dello spettacolo: le serie televisive dominano il palinsesto delle piattaforme e, evidentemente, incontrano un bisogno profondo, dei loro fruitori.
Innanzi tutto, un bisogno di rassicurazione.
Ci sentiamo tranquilli, quando abbiamo a che fare con un personaggio che, sappiamo, potrà anche attraversare vicissitudini estreme, ma ne uscirà comunque integro, vincitore probabilmente. Il processo di identificazione con l’eroe, ci racconta che noi possiamo essere coinvolti in situazioni difficili, ma anche che noi possiamo confrontarci con esse e raggiungere i nostri obiettivi: questo schema funziona anche come meccanismo consolatorio; possiamo cioè registrare delle sconfitte, ma se continuiamo a provarci, dando di noi stessi il meglio, possiamo farcela.
E poi, un bisogno di ordine.
Il protagonista è chiamato a far cessare il peso di elementi perturbatori: la salvezza della comunità è affidata a chi è in grado di combattere, e vincere, gli elementi devianti, in cui noi riconosciamo immediatamente, i tratti del Male: la violenza; l’arroganza; la prevaricazione; i comportamenti ingiustificati ed ingiusti.
La realtà, ovviamente, è altrove.
La realtà ha troppe contraddizioni e troppe sfumature, per poter consentire una tranquilla e netta divisione tra Bene e Male.
Una narrazione a cartoni animati, si presta benissimo, a distinguere questa fissità antagonistica, perché la sua totale distanza dalla realtà, consente ai narratori un controllo pieno della materia, e semplificare e rendere riconoscibili immediatamente i caratteri e l’evolvere delle loro storie, in questo caso, è esso stesso un elemento di rassicurazione e di ordine.
Ma non è una rappresentazione neutrale. Anzi, il suo comprimere la realtà quasi ai suoi archetipi, compie una doppia operazione di nascondimento e di indottrinamento.
Non è un caso, che sui cartoni animati del passato, in particolare, si sia esercitato un livello di censura, che, mentre lo si definisce dettato dal cosiddetto “politicamente corretto”, in realtà, mira a ristabilire un ordine che cancelli le contraddizioni e la storia passata ( il nascondimento ), e tende a controllare il modo di pensare di chi a quelle storie si accosti, ed è quindi un processo profondamente reazionario ( l’indottrinamento ).
E non è un caso che tutto questo si eserciti in particolare sui cartoni animati, e anche su molti classici della letteratura, perché sono le forme di narrazione che più facilmente possono essere incontrate dai bambini.
Ai bambini, il reazionario, vuol presentare una realtà che non abbia asperità alcuna, che non stimoli domande o pensieri critici, ma solo un sorriso plastificato, come di quelle persone che, per far apparire in ordine e pulita la propria casa, si limitino a nascondere la polvere sotto i tappeti. E vuole presentare delle storie in cui sia chiarissimo che il Male è chi, o cosa, perturbi un ordine costituito; mentre il Bene è chi quell’ordine difende e mantiene.
Naturalmente, tutto questo, viene in mente una volta usciti dal cinema.
Ma mentre si sta sulle poltrone, si gode un cartone animato dai colori vivissimi e stordenti; pieno di ironia e bonaria giocosità. Un cartone animato che spinge ad accogliere il cambiamento e a governarlo come processo di crescita, e di passaggio a superiori livelli di consapevolezza. Un cartone animato che pesca a piene mani nelle comiche mute delle torte in faccia e delle risse in cui ci si picchia senza esclusione alcuna di colpi, ma nessuno si fa male: al massimo approda nel regno degli spiriti e qui, forse, compie addirittura un proprio percorso di redenzione.
Singolare, tuttavia, che il Bene, sia rappresentato, in questo quarto film, solo da personaggi maschili: il Panda; i suoi due padri ( ma che nulla hanno a che vedere con dinamiche omosessuali ); i Maestri. E il Male sia essenzialmente femminile: la Camaleonte, innanzi tutto, ma anche il nuovo personaggio della Volpe, che è l’unico ad avere una evoluzione e a riconoscere dove sia il Bene, e quindi a cambiare verso di esso. Credo che questo carattere della narrazione abbia a che fare, essenzialmente con la narrazione tradizionale cinese, e con il suo assetto sociale.
Tutto discutibile, ma laterale, credo, rispetto al film in sé. Che, in un’altra forma, dà voce all’orientale teatro delle ombre, in cui i personaggi, visibili allo spettatore appunto come pure ombre, devono avere una loro fissità e riconoscibilità: una “maschera”, che consenta immediatamente di individuarne il ruolo e il destino. E di questa “maschera”, il disegno animato può accentuarne i caratteri, esaltando l’abilità dei suoi disegnatori.
Ovviamente, l’elemento sorprendente del primo Panda di sedici anni fa, oggi, è largamente introiettato dalla platea, ma consente ancora qualche scatto di sano divertimento.
Magari, nei prossimi film, il Panda dovrà combattere contro la propria parte oscura. E noi ci aspettiamo una mossa kungfuica sufficientemente mitica da farci immaginare di poterla riprodurre, ogni volta che, nella vita, dobbiamo scegliere tra Bene e Male.