Dappertutto nel mondo le periferie, le aree interne e quelle che fanno corona ai grandi centri urbani, volgono il proprio sguardo, per farsi rappresentare politicamente, a chi, dopo aver alimentato paure, pur non provvedendo a dissiparne i fumi, si limita ad indicare i colpevoli; e i colpevoli sono sempre i diversi, i più deboli, chi è, apparentemente, estraneo ai luoghi che vive.
E dappertutto, nel mondo, le periferie, le aree interne e quelle che fanno corona ai grandi centri urbani, mentre sembrano non aver più nulla da offrire ai propri giovani, sentono fortissima l’attrazione per il luccicore dei centri commerciali, o per le grandi strade dove si può passeggiare, o per i luoghi dove si può fare sport, e per tutto quanto, spesso, sostituisce all’idea di libertà, quella di consumo.
E nelle periferie, nelle aree interne, e in quelle che fanno corona ai grandi centri urbani, gli ultimi trenta anni, sono stati anni in cui gli Stati, e i loro governi, hanno tagliato servizi e protezioni; hanno affidato solo al Mercato e al privato profitto, tante funzioni pubbliche, contribuendo, per questa via, ad un progressivo spopolamento dei luoghi; ad un loro progressivo abbandono, ad una progressiva e sempre più penalizzante fatica del vivere e restringimento degli orizzonti.
La retorica dei borghi pieni di aria da respirare, o dove mangiare cibo genuino, e dei luoghi in cui la natura sembra offrire i suoi spettacoli più dolci e solenni, con orsi, cervi, lupi e aquile che continuano, nonostante la sempre più inesorabile pressione umana, a punteggiare i dorsi innevati delle colline, si scontra con l’assenza di un Pronto Soccorso raggiungibile in pochi minuti; con l’assenza di una farmacia, o di un cinema, o di una scuola.
Questi luoghi, che un tempo, sebbene tra molteplici contraddizioni e arretratezze, offrivano uno spazio identitario alle comunità che li abitavano, sembrano essere oggi cristallizzati dentro una bolla di vetro per mostrarsi a turisti di un passaggio, veloce, e senza domande. E chiudono, i propri battenti, alle prime ombre della sera, quando la gita fuori porta si incolonna nuovamente in prossimità degli svincoli autostradali con le grandi città, e si traformano sempre più in puri scenari il cui sipario si apre, e si chiude, nei fine settimana o nei ponti festivi della primavera.
E’ in questi luoghi, del nostro Abruzzo aquilano, che il regista Riccardo Milani costruisce la sua storia di “Un mondo a parte”, visto ieri sera in anteprima, presso la Multisala Movieplex, dopo che i protagonisti del film – un sempre misuratissimo Albanese, e una splendente Virginia Raffaele – hanno salutato il pubblico presente in sala.
Compresi quelli cui sono state riservate le prime e ultime file della sala, perché i loro stipendi di amministratori del territorio, evidentemente, non gli consentono di pagare il biglietto.
Esattamente quelli che, in grande maggioranza, sono stati votati, in quei luoghi, anche nelle ultime elezioni regionali.
Il regista ha potuto beneficiare di un inverno innevato, forse tra gli ultimi della nostra storia territoriale, per camminare dentro il freddo e la carne di una vita sempre più legata a decisioni economiciste. Si stabilisce un parametro, entro il quale diviene quasi accettabile il costo che lo Stato può pagare, per offrire ai suoi cittadini diritti costituzionalmente garantiti, a partire dal diritto all’Istruzione, e se si oltrepassi quel parametro, il diritto, semplicemente, viene meno, o può essere esercitato solo sobbarcandosi spese personali e familiari; e chi resta indietro, semplicemente, resta indietro.
Fosse venuto quest’anno, a girare il suo film, avrebbe dovuto cambiarne, in larga parte la sceneggiatura: in assenza di neve, il nostro, non è più, “un mondo a parte”, i cui tempi sono dettati dal susseguirsi delle stagioni, ma un mondo simile a tanti altri mondi. Senza acqua. Senza copiose fioriture primaverili; senza erba verde per il pascolo degli animali; senza colori o forme che ne hanno modellato la storia. Un mondo rattrappito e grigio, che mostra la sua terra spaccata e dura, e tutti gli sprechi commessi negli anni, rappresentati da edifici smozzicati; iniziati e mai finiti; inaugurati e dimenticati. E’ solo un mondo eguale agli altri mondi; un mondo che tradisce le sue promesse, più desolato e isolato, più incapace di riconoscere sé stesso.
I ragazzini, da grandi, vogliono fare gli “Youtuber”, la “rassegnazione, si mangia a morsi, come la scamorza”. E quando un ragazzo vuole restare sul suo territorio, e vuole coltivare la terra, deve scontrarsi con l’idea che, in quel territorio, ogni intrapresa può durare per un massimo di due anni, prima di tramontare definitivamente, consentendo a tutti di non invidiare nulla, di non avere davanti a sé esempi di possibile riscatto, ma solo la rassegnata devozione ad un destino triste e già segnato.
Quel ragazzo prova a riparare un vecchio trattore, magari appartenuto a suo nonno, ed è un trattore che ha ancora un marchio FIAT, prima che la multinazionale torinese decidesse di concentrarsi sull’unica attività che davvero la interessa: l’attività finanziaria, quella che consente di fare soldi con i soldi, e non producendo qualcosa. Seguendo, in questo, il percorso di tantissimi altri marchi industriali, che chiudono gli stabilimenti italiani ed europei, e portano le produzioni dove il costo del lavoro è minimo, e il Sindacato non esiste, o è solo di emanazione statale, e, quindi, padronale.
La frizione, tra tutti questi mondi diversi, s’incontra solo nei luoghi pubblici; negli spazi pubblici, dove le persone, diverse tra loro, si mischiano e si confrontano e si scontrano, magari, ma, insieme, costruiscono una idea di comunità; insieme, apprendono valori e saperi comuni. A partire dalla Scuola.
Gli insegnanti di Milani, Albanese – in fuga dalle contraddizioni ormai ingestibili della grande città, dove da trenta anni, né genitori, né alunni, sanno chi sia Alberto Moravia, cui la scuola è dedicata – e Virginia Raffaele – meravigliosa nella sua mimesi di accento abruzzese, cui regala la rotondità della sua pronuncia, dove l’abruzzese invece spesso chiude le parole – vivono consapevolmente il processo di decadenza del luogo, e consapevolmente vi si oppongono, con le armi della “commedia all’italiana”, che spesso, meglio di ogni altro genere cinematografico, ha raccontato il nostro popolo, a sé stesso e al mondo.
Riccardo Milani, con leggerezza, ci squaderna l’intero ventaglio delle inquietudini della nostra società, e indica una strada possibile di convivenza, se non di conciliazione.
L’omofobia delle famiglie nei confronti dei loro stessi componenti, colpevoli di un diverso orientamento sessuale; il rapporto con la tecnologia; la guerra, che porta fino da noi, profughi provenienti da migliaia di chilometri di distanza; le seconde e terze generazioni di migranti, che non parlano l’italiano, ma il dialetto del luogo nel quale sono cresciuti e vivono; la solitudine priva di servizi pubblici delle aree interne; la politica, trasformata in pura ancella parassita del potere economico e commerciale.
Ma anche la pretesa intellettualistica di comprendere, e spiegare persino alle persone direttamente coinvolte, la loro stessa vita secondo però il metro di chi è lontano dal problema, ma ha certamente una soluzione per risolverlo.
Tutto questo è frullato nella apparente naturalezza di una piccola comunità che, nonostante sé stessa, e le proprie spesso artificiose divisioni, continua a conservare una idea di futuro possibile: autodeterminato ma non ignorante del mondo e dei suoi sviluppi.
Forse perché solo dal basso, si possono ricostruire quei legami sociali che questa modernità ha eletto come propri nemici da abbattere per primi.
Il film fa ridere e sorridere, e ha inventato un tormentone che agiterà i nostri luoghi per tanto tempo. Non lo racconto, perché c’è troppo gusto, ad incontrarlo, e ci sarà gusto, nell’usarlo ogni volta che l’ordinaria distruzione della nostra migliore umanità, sarà fermata, o deviata verso sviluppi inaspettatamente positivi.
E’ lunga la strada per un Abruzzo che costruisca una sua nuova identità di luogo capace di autodeterminarsi e di far diventare valore sostenibile il proprio specifico modo d’essere. E’ lunga la strada perché l’Abruzzo non perda i suoi giovani migliori, ma anzi sia capace di offrire loro ottimi motivi per immaginare il proprio futuro.
Ma si può fare.
Ci sono patrimoni che abbiamo che consentono di immaginarlo, e di farlo, a partire dalla montagna, e dal rispetto che le dobbiamo.