Certe volte capita d’incontrare una persona, che, in sé sola, riassuma interi mondi.
Giovane, donna, diplomata, disoccupata.
Siamo abituati ad ascoltare chi si occupi di economia, o di politica, mentre descrive la realtà attraverso numeri, come se questo fosse l’unico, e più vero modo di raccontare quel che viviamo. Ma anche i numeri, richiederebbero spiegazioni, per precisare cosa significhino davvero; e, certe volte, i numeri, possono anche essere usati per offrire una rappresentazione della realtà, e non la realtà per come è.
Ad esempio, siamo abituati a considerare occupata una persona che abbia un rapporto di lavoro, almeno per un tempo consistente, e percepisca un giusto salario.
Ma la definizione data dalla scienza economica, che non è neutrale, per individuare chi sia occupato, descrive un soggetto che abbia lavorato almeno un’ora nell’ultima settimana, non importa, se con un contratto: anche un lavoratore irregolare, è considerato occupato.
Trovarsi di fronte ad una donna, giovane, diplomata e disoccupata, non è trovarsi di fronte ad uno stereotipo, anche se si tratti della descrizione dell’aggregato statisticamente più rilevante tra coloro che sono in cerca di lavoro, anche ad Aquila, ma può essere l’occasione per il confronto con una storia individuale, che consenta di comprendere molte delle dinamiche degli ultimi decenni, che hanno interessato, e interessano, il nostro Paese.
La storia di E. è un esempio, e consente di uscire da una logica di numeri astratti per arrivare ad esplorare una umana e rappresentativa individualità, che su di sé, sperimenta e soffre gli effetti più generali degli andamenti economici e politici di una società.
E. ha ventisette anni, è diplomata, è madre, convive con un uomo, e, da poco, ha perso un lavoro che credeva le potesse dare più stabilità. Il suo primo rapporto di lavoro regolare, risale al 2017, quando di anni, ne aveva venti.
Viene subito in mente la retorica di certi economisti, e di certi politici, che sparlano di “bamboccioni”, di persone cioè, che non vorrebbero allontanarsi da casa, e preferirebbero invece continuare ad essere accuditi e finanziati da mamma e papà.
Invece, accade esattamente l’opposto.
E., come tante altre persone della sua età, aspira ad un propria autonomia, a costruirsi una propria strada di vita.
Ma i lavori che subito s’incontrano sul proprio cammino, sono lavori irregolari, “in nero”, e, quando arriva il primo impiego regolare, questo è un contratto interinale. Un contratto cioè in cui una persona viene, “affittata”, da una agenzia di collocamento privato ad una azienda, che la fa lavorare, senza che s’instauri con essa un rapporto di lavoro dipendente. Naturalmente, per un tempo breve, brevissimo.
La nostra protagonista è madre, e diviene madre molto giovane, e, all’inizio, non può distaccarsi dal proprio nucleo familiare. Una famiglia “normale”, composta da due persone che lavorano, con un impiego sufficientemente stabile. Ma questo significa che tutte le facilitazioni ( bonus ), che le spetterebbero secondo le leggi dell’epoca, in quanto madre, e disoccupata, in realtà, non le possono essere concesse, perché facendo parte ancora del nucleo familiare dei genitori, il suo ISEE ( Indicatore Sostitutivo della Situazione Economica ), è quello della famiglia d’origine, relativamente troppo alto, rispetto ai limiti fissati, per aver diritto a qualcosa.
Ed ecco qui, un primo punto di riflessione, per tutti quelli, e per tutte quelle che s’occupano di politica.
La politica dei “bonus”, è una politica di elemosine, che non interviene sulla condizione materiale della persona, per migliorarla, come farebbero invece concrete misure di Stato Sociale ( asili nido, servizi, assegni familiari, esenzioni fiscali e facilitazioni sul piano sanitario etc. ), ma si limita ad elargire una mancia, per una volta sola, e poi, che ognuno s’arrangi come può.
Questa politica, negli ultimi dieci-quindici anni, ha inquinato la coscienza delle persone ( oggi tutti, s’aspettano un qualche bonus, come fossero le briciole che cadono dal tavolo dei signori ), e contribuito a smantellare l’idea stessa di uno Stato Sociale, offendendo anche la dignità, spesso, delle persone cui è stata destinata.
La sua famiglia d’origine, però, le consente anche di godere di una rete di relazioni.
E. infatti, trova lavoro, sia regolare che irregolare, solo grazie alle “conoscenze”, della sua famiglia. Le informazioni sulla possibilità di un lavoro, o l’influenza che può essere esercitata per favorire una assunzione, sono la vera politica attiva del lavoro presente nel nostro Paese. Noi abbiamo un sistema di collocamento pubblico, che serve solo ad adempiere ad alcuni compiti burocratici, e non ha nessuna influenza seria sull’andamento del Mercato del Lavoro.
Quando, il Legislatore prenderà atto di questa realtà, e deciderà di dotare lo Stato, di un efficiente strumento che aiuti le persone in cerca di occupazione, ad impiegarsi davvero, tutta la società ne trarrà un reale beneficio. Se invece si continuerà a conservare la situazione che viviamo oggi, le persone, e la loro ricerca di lavoro, saranno condizionate dal sistema delle “conoscenze”, che talvolta produce “raccomandazione”. Un lavoratore, o una lavoratrice che trovi un lavoro in questo modo, non sarà una persona libera. Dovrà rispondere di un favore che le è stato fatto.
Se la politica non interviene su questo sistema, e la politica negli ultimi trenta e più anni non è mai intervenuta seriamente su questo sistema, è perché ha interesse a limitare la libertà delle persone nei luoghi di lavoro. Una persona che debba ringraziare per essere stata assunta, non rifiuterà di fare orario straordinario, o di essere assunta ad un livello contrattuale più basso di quello che le spetterebbe; non si iscriverà al Sindacato, e non si rifiuterà di compiere lavori pericolosi.
Magari sarà anche costretta a subire ricatti d’altra natura.
Costruire una politica attiva del lavoro, affidata alla Pubblica Amministrazione, significa intervenire positivamente sulla libertà delle persone. Al contrario, significa voler mettere le persone in condizione di minorità.
E., ne ha concreta esperienza, passando di lavoro in lavoro, senza mai riuscire ad arrivare ad un salario che tocchi i mille euro al mese.
La casa dove vive col suo compagno, costa 600 euro al mese di affitto, e una quota così rilevante di risorse, rispetto a quanto due giovani possano disporre, significa in realtà che, ancora una volta, è la famiglia d’origine, a dover intervenire, se il figlio voglia fare uno sport, o per pagare i buoni mensa a scuola. Con questa condizione di lavoro, nessuno concederebbe loro un mutuo, per acquistare casa.
Si dovrebbe trarre una conclusione da questi ultimi decenni di politiche economiche e finanziarie.
Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, i figli, non hanno prospettiva di migliorare la propria condizione materiale, rispetto ai genitori.
Il vero ammortizzatore sociale che sino ad ora, ma in condizioni di crescente difficoltà, ha consentito di sopportare la durezza dell’abbandono di politiche mirate a promuovere miglioramenti della condizione delle persone, di cui anzi si è favorita la solitudine di fronte al Mercato, è stata la famiglia.
Questo processo che ha visto lo Stato progressivamente rinunciare a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” ( art. 3 della Costituzione della Repubblica italiana ), è avvenuto nel quadro di un pesante trasferimento di ricchezza, dalle classi medio basse, ma dalle condizioni economiche stabili, verso le classi del lavoro autonomo e professionale e verso i ceti più ricchi, in assenza di una qualsiasi politica di riequilibrio fiscale.
Sono state le famiglie a farsi carico della precarietà del lavoro dei propri figli, e del lavoro povero cui sono stati comunque destinati.
E famiglie, e figli, si ritrovano oggi, privi di una prospettiva di avanzamento sociale o di miglioramento delle condizioni, anzi, come racconta E., si ritrovano a non avere più speranza, o addirittura, a pensare d’accendere una assicurazione sulla propria vita, in modo tale che la propria morte, consenta, col premio pagato dalla polizza, una possibilità di futuro al proprio figlio.
In questa società impoverita c’è tutto il buon gioco di quanti, invece di costruire soluzioni, indicano colpevoli, e tutta l’irrilevanza di quanti hanno sostituito il tentativo di cambiare i poteri nella società, con l’adesione all’idea che un mutamento economico positivo che redistribuisca ricchezza sia impossibile, e possibile è solo attenuare, in modo sempre più affannoso, gli effetti terribili che un Mercato senza regole, dove vige solo la legge del più forte, sta producendo nella società, massacrando intere generazioni di italiane e di italiani.
E., finalmente, aveva trovato lavoro inviando un curriculum, senza avvalersi cioè di “conoscenze”, tramite un sito nazionale che, on line, offre informazione sulle occasioni di lavoro. Un sito che pubblicizzava un’azienda, presente anche ad Aquila, dove le donne, a loro dire, avevano posizioni decisionali di preminenza, e che prometteva attenzione nel regolare i rapporti di lavoro.
Naturalmente, il contratto a termine che era stato stipulato, è scaduto senza essere rinnovato. Ad E. è rimasta la vaga promessa d’essere richiamata al lavoro, trascorso ovviamente il tempo necessario perché una successione di contratti a termine non debba, per legge, trasformarsi in un contratto a tempo indeterminato.
Magari le offriranno un altro contratto a tempo determinato. O un tirocinio formativo. O un contratto di apprendistato. Varie gradazioni di contratti finti, che serviranno solo a pagarle un salario basso, e a farla restare ricattabile.
Chi, dinanzi alla possibilità di un contratto a tempo indeterminato, rifiuterebbe di perpetuare la propria precarietà o, si tirerebbe indietro, quando gli vengano chiesti straordinari o turni di lavoro faticosi ?
Quando E, ha finito il suo rapporto di lavoro, ha ascoltato le sue dirigenti aziendali promettere ad una sua collega che entrava in maternità, che in azienda non avrebbe più messo piede. Perchè è così che funziona davvero il lavoro in Italia. Di fronte alla possibilità che si riducano i margini di profitto, ogni diritto sociale andrebbe abolito.
Di questo, dovrebbero parlare le aziende che fanno finta di essere “socialmente responsabili”; di questo dovrebbe occuparsi il cosiddetto Ministero della Natalità, che invece elargisce bonus alle donne che abbiano almeno tre figli, facendo pagare meno contributi alle aziende che le sopportano.
E. pensa, che in campagna elettorale, tutti sono capaci di promettere qualsiasi cosa. Una volta al governo, le loro scelte però, sino ad oggi, hanno solo peggiorato le condizioni di persone come lei. Lei ha votato sempre, da quando aveva diciotto anni, e ha votato un po’ tutti. A Destra, come a Sinistra
E nessuno l’ha rappresentata.
La condizione di E. non rappresenta la condizione di tutte le giovani, donne, diplomate, madri.
Ma la sua è una storia estremamente indicativa e chiara. Oltre che sicuramente simile a quella di tantissime altre donne.
E’ una storia che indica gli errori sin qui commessi. Indica che, continuando su quelle strade, per lei, e per le tantissime persone come lei, non ci sarà alcuna prospettiva vera, ma solo un possibile galleggiamento sempre più senza respiro.
In Italia, è urgente cambiare radicalmente strada.
Altrimenti perderemo tutto il buono che persone come E., possono darci. Lei, ha sempre lavorato dando il massimo, aiutando i colleghi, senza mai tirarsi indietro. E lo ha fatto, da madre, giovanissima.
E’ questo, che la politica, e il Sindacato italiano, non dovrebbero tradire.