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Quasi Cento Ancora

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Storia della ragazza che ha dentro di sè le memorie della bisnonna

Feb 13, 2024 | 2024, Quasi cento ancora

Viola fermò l’auto, dopo la salita lunga e ripida, di curve strette, dentro il buio della notte d’ottobre, calda ancora, di scirocco opaco, che pareva soffocare, nella piana di Campo Imperatore, ogni filo d’erba, giallito e secco, come se ogni linfa vitale gli fosse stata succhiata via da dentro, lasciando solo una buccia fragile, a piegarsi lievemente, senza più forza, al soffio del vento d’Africa, arrivato sin lì a portare sabbia scura di deserto e sete.

Il piccolo largo dinanzi all’albergo, sterrato, in parte, era buio.

C’era solo qualche luce di lampione accesa, ai margini, che mandava una luce gialla acuminata ma breve, incapace di schiarire altro che pochi metri, oscurando però le stelle, nel cielo comunque velato, da una sottile caligine quasi trasparente, come un fumo stanco, di fuoco che si stesse spegnendo. Viola spense il motore dell’auto e staccò la cintura di sicurezza, togliendola dal petto, e sentendosi libera, portò le mani dietro la nuca, chiudendo gli occhi, inarcando la schiena, e respirando profondamente. Mentre tratteneva il fiato, sentiva la propria testa galleggiare, quasi, priva di controllo, ed attese un istante, prima di respirare nuovamente e riprendere il controllo di sé stessa.

Guidare nella notte, da Filetto all’albergo di Campo Imperatore, aveva significato, per lei, tenere i sensi sempre accesi, e procedere con cura, al centro della strada, per evitare d’investire animali selvatici che le passassero improvvisi dinanzi. Fidava, guidando così, in eventuali luci che sarebbero venute di fronte e, viste per tempo da lontano, le avrebbero permesso di tornare dal proprio lato della carreggiata, quando avesse incrociato altre automobili.

Durante il percorso, s’era sentita addosso le fronde degli alberi sui margini della strada, che le facevano da tetto, prima del cielo, quasi a volerla proteggere dai pensieri cupi che le pesavano addosso, per fugare i quali, s’era portata Berardo, con sé; il suo ragazzo.

Aveva percorso tutta la strada in silenzio, sfiorandogli soltanto la mano, qualche volta, quando doveva cambiare marcia, e staccava la destra dal volante. Come se volesse rispettare quel tacere sacro intorno, dei boschi tagliati dalla strada, che lei turbava col rumore della sua auto, e la puzza dei gas di scarico.

Dentro il nero della notte, che rendeva possibile guardarsi intorno solo per i brevi istanti dei fari che illuminavano il percorso,  ricordava tutti gli alberi posti sul margine di curve a gomito, pur senza vederli appieno, e certi sentieri che s’inerpicavano per le colline lontane, e i depositi di pietre in bilico che, talvolta, lasciavano cadere qualche sasso entro la strada. Passava di fianco a grandi valli punteggiate di affioramenti d’acqua, sempre più esigui e stenti, e ai ruderi di costruzioni insolenti, lasciate incompiute, e scrostate, come pensieri che sapessero, sin dall’inizio, d’essere sbagliati.

In quel viaggio muto, l’arrivo alla piana di Campo Imperatore, di cui intuiva il vasto respiro protetto dalla notte, significava per lei, essere arrivata incontro ai racconti che la sua bisnonna Lucia gli aveva fatto, poco prima d’andar via sempre.

L’aeroplano tedesco, atterrato in qualche largo appiattito lì intorno, che arrivava a portar via il prigioniero già liberato dai soldati, che, sotto, avevano sparato ed ucciso italiani di cui nessuno voleva ricordare il nome; mentre, col nome del prigioniero, ci vendevano ancora calendari e persino bottiglie di vino triste.

Le foto di quell’episodio della Seconda Guerra Mondiale, che aveva visto, piena di vergogna, dei soldati italiani e tedeschi insieme, a festeggiare una missione portata a compimento dai nazisti, senza grossi danni, e senza resistenza, da parte di chi, invece, avrebbe dovuto impedirla.

Viola pensava, amara, che a tanti italiani piace essere sudditi, e non avere responsabilità, ma solo obbedire, a chi fa la voce più grossa, e provare a trovarci la propria convenienza. A tanti italiani piace pensare che ci sia qualcuno ad ascoltare le loro preghiere, facendo finta di farli sentire protagonisti.

La sua bisnonna le aveva raccontato di un giovane che aveva aiutato, e che poi era morto, forse coinvolto negli scontri brevi, avvenuti alla base della strada che portava a Campo Imperatore, tra il commando tedesco inviato a liberare Mussolini, e i pochi carabinieri e guardie campestri, che erano a sorvegliare la strada. I soldati italiani su all’albergo, invece, avevano familiarizzato col nemico.

E lei era lì, quella notte, anniversario della marcia su Roma, perché voleva guardare in faccia un pezzo di quel fascismo rimasto ad Aquila, e che sembrava spandersi, come un contagio sotterraneo che marciva gli alberi dall’interno.

In quell’albergo, un noto finanziatore di formazioni politiche di estrema destra, aveva allestito una specie di spettacolo; un balletto, recitato esattamente in quelle stanze dove il dittatore era stato prigioniero. E a quella messa in scena avevano partecipato aquilane ed aquilani plaudenti. Come se si trovassero dinanzi al saggio di fine anno dei propri bimbi a scuola, e non invece alla celebrazione di una avventura politica, di cui si cercava di nascondere, costantemente, la viltà, la violenza, l’approssimazione, la ciarlataneria, la ferocia, e la corruzione, oltre che le centinaia di migliaia di italiani, civili e militari, morti in guerra o deportati. E le vittime, spesso innocenti, che avevamo causato.

Una specie di sagra macabra, in abito da sera, di cui immaginava gli spettatori annoiati e presenti solo per riconoscersi, gli uni con gli altri e ammiccare tra loro, per la loro capacità di tener vivo un legame torvo con un passato della cui impunità avevano nostalgia. Le mani leggermente unte dai buffet.

Tra loro, magari, qualcuno neanche consapevole del senso profondo di quella adunata, ma lì presente, solo per trarne un proprio vantaggio senz’essere schizzinoso. Un posto di lavoro, un incarico, una consulenza, un appalto, una cena gratis. Se non subito, appena possibile. Bastava fiutare bene l’aria, degli articoli dei giornali locali, che recensivano tutto, come fosse normale, come avesse parvenza d’arte. Con la gratitudine dovuta a chi, venendo dalla capitale, arrivava a mostrare ai provinciali aquilani, la direzione da intraprendere, portando il lustro, per di più, degli avanspettacoli di certi teatri da cui usciva solo odore di chiuso. Di case, chiuse.

Dalla nebbia, emergeva l’albergo color terra cotta, transennato tutto, in attesa che si concretizzasse il progetto di ristrutturazione, milionario, destinato a farne una tappa di turismo reducista; e già nel piazzale trovava posto un camion adibito a rivendita di panini alla porchetta, che avrebbero allietato i visitatori, golosi di crosta croccante.

Le finestre alte, erano incorniciate dall’intonaco crepato, che lasciava nudo cemento e pietre: tutta la struttura pareva un piccolo carcere sperso tra monti che dovevano essere accessibili solo a dorso di mulo.

Viola restava in silenzio, mentre si guardava intorno, e Berardo non capiva, perché fossero lì, fin quando Viola, non le raccontò la propria paura.

La paura della violenza. La paura della condiscendenza delle persone che giravano il volto da un’altra parte, facendo finta che nulla fosse grave, spostando, anzi, la soglia dell’accettazione sempre più in avanti, sempre più vicino a consentire che fosse possibile chiudere la bocca alle persone, picchiarle, ucciderle, togliere loro le libertà personali, quelle individuali e quelle collettive, e farle marciare insieme in un nulla pieno di merci da comprare e consumare. A Viola sembrava come se, quando quella struttura fosse stata riadattata, sarebbe stato il tempo in cui, liberamente, sarebbe potuta iniziare la repressione della propria vita.

Berardo la guardava.

E provava a rassicurarla che la storia non avrebbe compiuto sempre gli stessi passi: provava a spiegarle che oggi era tutto diverso e più nuovo, più libero, rispetto ad allora. Che oggi non si sarebbe accettato nulla di quei tempi trascorsi, e che certe manifestazioni, erano solo nostalgia ignorante e esibizionismo facile.

Viola accarezzò Berardo.

In città, sui muri, c’erano scritte che inneggiavano a persone che predicavano d’uccidere in mezzo agli indifesi. E nessuno le cancellava.

Era solo questione di tempo, prima che ogni speranza fosse chiusa dentro recinti coi muri alti, da non poter far più vedere la luce.

Dalla parte di Vado di Sole, il cielo iniziava a diventare blu e a schiarire la notte lacerando nebbia e nuvole. Viola provava a riconoscere i prati intorno, ed in essi a trovare la bellezza necessaria a non arrendersi.

Rimise in moto l’auto e iniziò a tornare verso la chiesetta dei santi Crisante e Daria, a Filetto.

Voleva salutare il ricordo di un giovane carabiniere morto, di cui nessuno conosceva il nome.

Colonna sonora: ” Personal Jesus ” – Depeche Mode – 

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