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Contro l’omicidio di donne – riflessione di un uomo

Nov 21, 2023 | 2023, Istantanee

Più o meno, durante la mia adolescenza, gli ultimi anni di liceo, iniziarono a diffondersi, in Italia, i primi videogiochi. Erano macchine grosse, che trovavano alloggio in apposite sale, allestite solo per loro, dentro bar, ad esempio, in sostituzione dei vecchi calciobalilla, o dei biliardi col tavolo verde, o, magari, di qualche tavolo da ping pong.

Eri tu, contro la macchina. Non c’erano altri che giocassero con te, o contro di te. Eri solo. E questo era il primo grande cambiamento: nessuno poteva giudicare le tue azioni.

E ogni gioco, in genere, ti dava tre possibilità: avevi “tre vite”; questo era il normale modo di indicare le regole di gioco. Tu infilavi dei soldi dentro una macchinetta, e questa ti catapultava in un mondo avvolgente e coinvolgente, in cui tu, potevi sacrificare una “vita”, ai fini del tuo gioco; tanto, ne avevi almeno altre due a disposizione. Al limite, potendotelo permettere, potevi infilare dentro la macchinetta altri soldi, e ricominciare da capo.

Nello stesso tempo, però, si aveva pochissimo tempo, per decidere tutto. Sin dall’inizio, i giochi elettronici richiedevano una correlazione velocissima, tra situazione che si presentava ai tuoi occhi e decisione. La lentezza era punita con la fine del gioco; con la morte del giocatore.

Praticare quel mondo, che si sarebbe diffuso poi negli anni, sempre più capillarmente, significava quindi, introiettare alcuni messaggi molto forti, sebbene tra loro, anche contraddittori: la vita di ogni singolo giocatore era ripetibile: non si moriva mai, a meno che non finissero i soldi, o si decidesse come reagire alle situazioni di gioco, troppo lentamente.

Più o meno negli stessi anni, 1981, in Italia, smette di costituire, formalmente, circostanza attenuante, il cosiddetto “delitto d’onore”: la possibilità d’ottenere cioè, consistenti sconti di pena se il delitto fosse stato motivato dal desiderio di vendicare “l’onorabilità del proprio nome o della propria famiglia”. E, più o meno negli stessi anni, 1984 in questo caso, viene introdotta la Legge sui Contratti di Formazione-Lavoro, che è il primo vero colpo assestato al sistema del Collocamento Pubblico. Questa Legge consente alle imprese, di assumere nominativamente una persona, e non di vedersela inviare dal Collocamento, appunto; di sceglierla cioè, o di accogliere le raccomandazioni che in varie forme vengono inoltrate, e, dopo due anni, eventualmente, mandarla via senza alcuna conseguenza.

La persona, uomo o donna giovane, che venga assunta, deve dimostrare al datore di lavoro, individualmente, di valere; di essere disponibile. Entra in concorrenza con i suoi compagni di lavoro, per conservare la propria occupazione, in un sistema in cui, l’unico criterio di selezione valido, qualunque sia, è quello del datore di lavoro.

Sempre in quegli anni, 1986, nascono i COBAS: una forma di organizzazione sindacale autonoma, che non ha relazioni con le Confederazioni Sindacali storiche ( CGIL-CISL-UIL ) e che, partendo dalla Scuola, per arrivare poi ai Trasporti, produce una clamorosa rottura nel mondo del lavoro, che si riverbera in ogni parte della società.

I Lavoratori di settori pubblici, protetti secondo Legge dal licenziamento, decidono di agire con scioperi pesanti e prolungati, i cui effetti si scaricano prevalentemente sulle famiglie e sugli utenti ( a partire dal cosiddetto “Blocco degli scrutini”: una forma di lotta, portata avanti per mesi, senza conseguenze economiche per chi la praticava ), e che hanno tutti l’eguale caratteristica di agire ignorando un interesse pubblico, e privilegiando esclusivamente un interesse settoriale e di categorie, in forme anche ricattatorie nei confronti dell’intera società, pur se talvolta mettendo in luce istanze anche legittime.

Alla politica, dopo la sconfitta sindacale alla FIAT del 1980, non pare vero di poter rompere ed indebolire, dopo l’impresa privata, anche nel Pubblico Impiego, il fronte sindacale che tanta influenza aveva avuto nei due decenni precedenti, e quindi vengono fatte importanti concessioni agli scioperanti, legittimando l’idea che, sull’interesse pubblico, possono prevalere gli interessi privati, senza bisogno di cercare alcuna giusta mediazione.

Ed è sempre di quegli anni, 1985, il primo Condono Edilizio, che contribuisce alla distruzione del profilo identitario delle nostre coste e delle nostre città, spalmando in ogni dove abitazioni e quartieri, spesso isolati e senza alcun servizio pubblico o relazioni di comunità.

Il clima che si afferma è quello della assenza di responsabilità. Da posizioni di forza, non serve più tener conto del complesso degli equilibri di tutta la società, bensì, ognuno privilegia il proprio esclusivo interesse, individuale, o di gruppo, e questo è considerato legittimo. Anche quando questo significhi prevaricare altri componenti della società.

Non esiste alcuna correlazione meccanica ( deterministica, verrebbe da dire ), tra un clima sociale generale, e un comportamento individuale.

Ma, sicuramente, il comportamento individuale si muove più agevolmente, dentro correnti di fondo che animano la società.

Una velocità estremizzata nella risposta, che non richieda processi cognitivi complessivi; l’affermarsi di un egoismo sociale e competitivo, percepito come motore del nuovo e del moderno; il soddisfacimento di propri bisogni e pulsioni, senza grosse remore morali, il permanere di retaggi del passato ( solo nel 1996, la violenza sessuale cessa di essere un “reato contro la morale” e diviene “reato contro la persona” ); la frammentazione del tessuto collettivo, in innumerevoli egoismi corporativi ed individuali, sono alcuni tra i segni profondi che, ancora oggi, sembrano definire il vivere sociale.

A questi elementi, presto s’aggiunge, caratterizzando il nostro tempo in modo pervasivo, una totale rivoluzione nelle comunicazioni, che oggi ci immerge in un flusso continuo e personalizzato di informazioni e relazioni, entro il quale viene meno, immediatamente, un principio di autorevolezza, ma anche, di nuovo, un principio di responsabilità; poiché si può far sentire la propria individuale voce, in una piazza potenzialmente globale, anche in modo del tutto anonimo e magari persino irrintracciabile. E tale pervasiva rivoluzione è segnata dall’esaltazione del narcisismo individuale, che trova espressione anche nelle personali fotografie poste continuamente alla visione di tutti; dalla ricerca di un consenso spesso solo istintivo ( la logica dei “likes” ); dalla legittimazione di ogni forma di brutale assenza di regole nella manifestazione del dissenso, fino ad arrivare a vere e proprie forme di persecuzione personale.

Quella che sto cercando, brevemente, di descrivere è una “egemonia culturale”, che nell’arco di un quarantennio, grosso modo, in cui vi sono state fondamentali innovazioni tecnologiche; in cui il potere economico ha rafforzato pesantemente la propria presa sulla società, anche grazie a processi di finanziarizzazione dell’economia; di globalizzazione colonialista dei processi produttivi; di riduzione degli spazi di democrazia e partecipazione, ha ridefinito totalmente le società del cosiddetto “mondo occidentale” ( non solo ), e, quindi, anche del nostro Paese.

Una “egemonia culturale”, che fonda sulla irresponsabilità sociale e sull’egoismo classificato come sana competizione, la sua capacità di attrazione; una “egemonia culturale” che richiede tempi velocissimi di risposta, ad ogni stimolo e, di conseguenza, declassa la complessità a complicazione ed impaccio; una “egemonia culturale”, che considera merce, la persona, tanto nei processi produttivi, tendenzialmente sempre più affrancati dal lavoro concreto dell’uomo e della donna ( e quindi l’apporto umano diviene facilmente sostituibile, o, addirittura, superfluo ), quanto nelle relazioni interpersonali, segnate da utilitarismo in genere, e da processi autoritari ( tanto nei luoghi di lavoro, quanto in famiglia spesso ); una “egemonia culturale”, segnata infine dal permanere di retaggi ideologici, cui affidarsi in un tempo che travolge ogni identità collettiva ed individuale.

Il retaggio ideologico di essere maschio, e quindi superiore alla femmina: nel ruolo sociale e nelle relazioni di coppia; il retaggio ideologico che non assegna una propria dinamica individuale alla donna, ma che la definisce solo in relazione all’uomo; il retaggio ideologico, secondo il quale, pur se la donna ha acquisito, nel tempo, maggiori diritti, essi sono in realtà una forma di usurpazione, poiché la donna è destinata essenzialmente ad essere madre; ad essere preda; ad essere vicaria delle conoscenze e del potere maschile, cui è possibile accostarsi, solo assumendone i caratteri prevaricatori e privi di solidarietà ( e vi sono donne che si conformano a questo schema ).

Infine, l’ultimo retaggio ideologico, quello forse più subdolo e sotterraneo, legato alla “indicibilità” pubblica di una serie di tratti della propria intimità: quella sessuale, innanzitutto, ma anche quella emozionale e relazionale, proprio mentre, invece, il mercato del sesso è totalmente sdoganato e senza limite alcuno, purché se ne abbiano almeno le competenze tecnologiche ed economiche, e proprio mentre il corpo della donna è il maggior veicolo pubblicitario per qualsiasi tipo di prodotto.

Ancora una volta, tuttavia, e va scritto, non esiste alcuna correlazione immediata ed inevitabile tra una egemonia culturale presente nel Paese ed un comportamento individuale.

Clima generale, ed egemonia culturale, non costituiscono giustificazione alcuna, per un comportamento aberrante, e neanche una attenuante, per quel comportamento. Forse, contribuiscono a spiegarne in parte l’origine, tanto a livello conscio, quanto a livello inconscio.

Quando però, i contorni di un fenomeno, come il ripetersi, continuo e devastante di omicidi, in cui la vittima è una donna, e l’assassino un uomo che abbia, o abbia avuto o abbia desiderato avere con lei una relazione sentimentale e/o sessuale, con onestà, dovremmo dire che la spiegazione di un clima, o di una egemonia culturale, non sono sufficienti, ad inquadrare il fenomeno, per poterne trovare spiegazioni convincenti, che consentano di approntare efficaci strumenti preventivi a contrasto di questa ignobile coazione a ripetere.

Dobbiamo evidentemente interrogarci su uno “specifico maschile”, anch’esso all’origine del problema, visto che è il maschio, con assoluta prevalenza anche se non esclusività, ad uccidere; e dovremmo farlo senza infingimenti.

Mi viene da chiedermi, come io possa definire una “identità maschile”.

Prima di tutto, devo riconoscere che, al di là delle specificità legate alla differenziazione morfologica, rispetto al femminile, l’identità maschile è un costrutto culturale.

Il comportamento del maschio, è segnato dal suo ruolo nella società che abita, e dalla educazione che, nel complesso, il sistema gli fornisce, oltre che, ovviamente, dalle proprie scelte individuali, pur fortemente influenzate dal contesto nel quale vive.

Nel nostro Paese, le forze più retrive della politica e della società: le destre, e la Chiesa, da anni impediscono ogni seria discussione che introduca l’educazione sessuale nelle scuole. Perchè hanno paura a confrontarsi con un tema ineludibile. Se cioè sia corretto, sin dall’infanzia, proporre a bambini e bambine un modello di comportamento, e quindi di identità, in una certa misura, eguale per tutti, cui conformarsi.

Il modello di comportamento cui queste forze ritengono debba conformarsi ogni famiglia ed ogni individuo, prevede una coppia, e, nello specifico, un uomo e una donna, che abbiano l’obiettivo di costruire una unione stabile, possibilmente per tutta la vita e finalizzata alla procreazione. Nell’ambito della coppia, all’uomo spettano compiti “da uomo”: lavoro, decisioni, uso della forza, magari a fin di bene; alla donna, spettano lavori “da donna”: cura, ed educazione della prole, lavoro, solo se compatibile con la procreazione. Questa impostazione viene considerata “naturale”, e per questo, non sottoposta a vera discussione. Qualunque deviazione che entri all’interno delle scuole, rispetto a questo schema, viene bollata come prevaricazione; come una imposizione inaccettabile, perché “innaturale”.

Si tratta esattamente dello stesso schema che il fascismo, o il nazismo, o il comunismo staliniano imponevano alle loro società di riferimento. Uno schema che presupponeva la superiorità dell’uomo, e l’inferiorità della donna. Sul piano economico, dei poteri, della legittimità sociale.

A questo schema, in Italia, negli ultimi decenni, si è venuto a contrapporre una evoluzione di ibrida derivazione, per la quale, i ruoli familiari, dei singoli individui, e nella società sono stati posti in discussione dal Mercato, innanzitutto: sia sul piano della necessità di manodopera femminile nei luoghi di lavoro; sia sul piano dell’allargamento dei consumi possibili per le donne ( che magari ora potevano permetterseli individualmente ), e di conseguenza, sul piano di un allargamento delle libertà femminili esclusivamente però sotto un profilo quantitativo, e non sul piano di una reale redistribuzione del potere, delle opportunità e del ruolo sociale.

Su questo mutamento, prodotto dal Mercato, è intervenuto un Movimento di Liberazione della donna, e di allargamento dei diritti civili, politici ed economici, complesso e dalle diverse origini, che, se ha consentito fondamentali progressi nella condizione femminile, anche autocostruiti, non ha ancora sedimentato nella società una complessiva consapevolezza e condivisione delle nuove acquisizioni, anche per le fortissime resistenze opposte dagli uomini, non disponibili a rinunciare a posizioni di privilegio e di preminenza.

Così, mentre la democrazia liberale ha, forse sin troppo lentamente, comunque costruito una serie di strumenti giuridici, pure fondamentali, incentrati sulla parità tra uomini e donne, sul piano sostanziale, essa non è stata in grado di produrre tutti i rivolgimenti necessari ad un salto di qualità culturale complessivo della società e della coscienza delle persone, oltre che delle concrete condizioni materiali.

Faccio un esempio, illuminante, credo, di come il Mercato prevalga sulle acquisizioni formali della democrazia liberale.

La Legge 125/1991 stabiliva una serie di azioni tese a favorire l’occupazione femminile e l’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne. Una disposizione di quella Legge, prevedeva l’obbligo, per tutte le imprese, di compilare delle tabelle informative da consegnare periodicamente alle Organizzazioni Sindacali; tra queste informazioni da fornire, vi era uno specifico richiamo al “monte salari reali” tra uomini e donne. Vale a dire che l’impresa, avrebbe dovuto dire al Sindacato, sia pure in termini complessivi, quanto pagava, realmente, gli uomini, e quanto pagava, realmente, le donne, al di là cioè dei salari contrattuali.

Confindustria per prima e tutte le Associazioni datoriali subito dopo, si sono immediatamente opposte a questo dettato di legge, boicottandolo. I Sindacati non sono stati sufficientemente rigorosi nel richiedere il rispetto della Legge, successivamente rimaneggiata e infine caduta nel dimenticatoio, anche per coloro ai quali questa Legge sarebbe stata utilissima.

Quanto concretamente vengono pagati, uomini e donne, che magari svolgano le stesse mansioni, in una qualsiasi azienda, resta una disponibilità piena ed arbitraria dell’azienda stessa, sottratta ad ogni controllo sociale.

Per questo, quando ascoltate un imprenditore parlare di parità tra uomini e donne, dovreste sapere che egli sta lucidamente e scientemente mentendo, ed è complice di un mondo in cui le donne devono restare inferiori.

Tenere sotto silenzio pubblico le questioni che hanno a che vedere col sesso, con l’identità sessuale e col ruolo delle persone nella società, significa puntare al controllo coatto delle coscienze.

E non è un compito del Mercato, interessato semmai a quanti accessi ci sono quotidianamente sulle piattaforme che condividono contenuti pornografici, liberare le individualità dal peso culturale della repressione sessuale, che i poteri della destra economica e ideologica intendono mantenere pienamente operante. Il Mercato anzi, lucra, dalle necessità indotte dalle identità sessuali che sempre più chiedono spazio e accoglienza, mistificando che la possibilità di rappresentare l’omosessualità nei mass media, ad esempio, si traduca immediatamente con la sua concreta vivibilità quotidiana nella società.

Mentre può esservi la pubblicità televisiva di due uomini che, al mattino, nella stessa casa insieme decidano che colazione fare, a quei due stessi uomini giammai può essere consentito di baciarsi pubblicamente nella metropolitana.

Ed in questo quadro, la repressione della sessualità, e del discorso pubblico su di essa, confina gli uomini, ancora, alla conoscenza dell’altro, e delle donne in special modo, attraverso il passaparola, spesso osceno e umiliante, stereotipato; alla pornografia, che propone esclusivamente un modello di maschio che esprime nel sesso, come sul mercato, solo le proprie capacità performative e vincenti, relegando nell’indicibile, i pudori, le timidezze e le tenerezze, gli imbarazzi ed i fallimenti, sul piano sessuale, che sono spesso tipici dell’apprendistato relazionale di un giovane ( e non solo ), che, quando poi poco dotato, sul piano fisico, è pronto ad entrare, o ad essere buttato a forza, negli schemi della patologia, della frustrazione, della ricerca di un capro espiatorio.

La pornografia, unica porta d’accesso al “sapere materiale sul sesso”, struttura una idea di competizione, di prevalenza, nella relazione: confina l’autoaffermazione delle identità, all’orgasmo condiviso e rumoroso che, se non raggiunto, genera complessi, senso di inadeguatezza e, per converso, una cieca rabbia nei confronti dell’universo femminile che non corrisponda all’unica rappresentazione/educazione cui si è avuto sin lì accesso.

Se poi, nella concreta condizione umana, una donna decida di lasciare un uomo, non è messa in discussione, in questo quadro, una relazione o un sentimento; ma una identità, e le risposte diventano imprevedibili. Imprevedibili, tanto quanto il silenzio pubblico abbia tenuto sottaciute domande, interrogativi, traumi, questioni irrisolte.

Un uomo lasciato da una donna, ha perso, sul mercato dell’affermazione della propria identità. Quella stessa identità che alimenta a suon di “likes” sui social network, o di beni materiali che gli conferiscano status. Quasi mai alimentata, quell’identità, di riflessione, condivisione, educazione, confronto, studio, accettazione dell’altro, o comunque, conflitto regolato.

Se posso permettermi una semplificazione, per diminuire o, annullare, nel tempo, gli omicidi commessi dagli uomini, su donne, comunque incolpevoli, perché hanno semplicemente esercitato la propria libertà, qualunque essa sia, compresa quella del “tradimento”, è necessario cambiare le basi culturali e materiali della nostra società. Inquinate dal Mercato e da ideologie retrive e repressive.

Da decenni di silenzio; da una memoria storica di caserme, postriboli e barbieri dove leggere fumetti porno. Da confessionali dove l’esperienza sessuale è, invariabilmente, peccato.

In sostanza, occorrerebbe discutere, pubblicamente ed apertamente, un modello pedagogico complessivo del Paese, che assuma in sé, pienamente, il dettato della nostra Costituzione, non solo, nel campo della tutela delle libertà individuali, ma anche nel campo della promozione di una eguaglianza sostanziale tra cittadini e cittadine.

Non serve un manualetto di definizioni o di buone pratiche ( forse ), da distribuire nelle scuole, ma una concreta e rigorosa pratica quotidiana che affronti i nodi irrisolti dell’identità maschile, innanzitutto, ma anche di un clima generale che privilegia l’irresponsabilità, e una egemonia culturale che si fonda sulla competizione, e sull’autoritarismo in tema di relazioni interpersonali e sessuali.

Io non ho bacchette magiche, e, magari, tutte queste mie parole sono anche inutili.

Però, sento che questo è un tema fondante, per una società diversa da quella che viviamo, e che autorizza persone potenti ad aprire bocca in modo, non solo sguaiato ed irresponsabile, ma pericoloso.

L’autobus di puttane, a disposizione dei giocatori vincenti del Monza, promesso da Silvio Berlusconi, è l’esatta cifra della considerazione della donna che una larga parte del Paese considera sana e legittima.

Questo schifo, e lo dico da uomo, va sconfitto.

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