A partire dalla seconda metà degli anni ‘50 dello scorso secolo, ma, soprattutto, durante tutto il decennio degli anni ‘60, ebbero grande successo in Italia, i film “a episodi”; film cioè che mettevano insieme storie diverse tra loro, ciascuna con una propria conclusione; talvolta legate dalla presenza degli stessi interpreti, talaltra tenute insieme magari da una medesima ambientazione, spesso balneare.
Alcuni di questi film erano veri e propri capolavori: basti pensare a “I mostri” di Dino Risi, o a “Ieri,oggi,domani”, di Vittorio De Sica, vincitore di un Premio Oscar.
Un vero e proprio genere, quello del film a episodi, spesso virato nei toni della commedia, e nel quale si è cimentato il miglior cinema italiano: attori, registi, sceneggiatori etc.
“I peggiori giorni” si presenta, quasi programmaticamente, esattamente con questa veste, e con questa ambizione. Un gruppo tra i migliori attori italiani di oggi, diretto da Edoardo Leo e Massimiliano Bruno, interpreti essi stessi e registi del film, come anche del film che lo ha preceduto: “I migliori giorni”, uscito nei mesi scorsi al cinema, e con il quale costituisce un “dittico”.
Mi permetto di raccontare una mia sensazione, di carattere generale.
L’Italia ha vissuto una meravigliosa stagione cinematografica, direi collocabile, temporalmente, tra il 1946 e la prima metà degli anni ‘70 dello scorso secolo. A quella stagione è seguito un cinema capace spesso di raggiungere assoluti livelli di qualità e anche grandi successi commerciali, talvolta coincidenti tra loro, in un quadro però di crisi generale del prodotto cinematografico. Messo sotto scacco prima, dal diffondersi dell’intrattenimento televisivo, e, oggi, dall’invasione nelle nostre vite di internet, dei social, ma anche delle piattaforme che possono offrire, a qualunque ora del giorno e della notte, e secondo una programmazione autonomamente decisa dall’utente, centinaia e centinaia di forme di intrattenimento diverse, anche di carattere cinematografico.
Lo specifico del prodotto cinematografico italiano, nei suoi anni migliori, era la sintesi magnifica di una straordinaria fioritura non solo di talenti artistici, tra attori, registi, sceneggiatori, autori delle musiche, ma anche sul piano puramente tecnico ( montaggio, fotografia, costumi, scenografie ), tipico di una cultura artigiana tutta nostra, oltre che di qualche produttore cinematografico, dotato di coraggio, fantasia e capacità di investimento. Ma tutto questo, era caratterizzato anche da una straordinaria contaminazione di idee e suggestioni, e ambizioni e relazioni. Quelle persone, tra loro, comunicavano e indagavano a fondo la realtà. I toni apparentemente leggeri della nostra “commedia all’italiana”, nascondevano una grandissima profondità d’indagine e di sguardo sulla realtà politica, sociale, di costume, ed economica del Paese, scandagliata senza infingimenti, ed in conflitto perenne con la censura e con la cultura cattolica, reazionaria e codina del nostro Paese.
Il film di Leo e Bruno, generoso nei suoi intendimenti e nel coraggio a mettere le mani dentro nodi irrisolti della nostra contemporaneità, risente, esattamente, a mio modestissimo parere, delle mutate condizioni e del tempo trascorso tra quella stagione e oggi.
A me pare che gli artisti oggi, molto più faticosamente facciano comunità e costruiscano tra loro relazioni e conflitti, ed in questo “I peggiori giorni” si trova ad oscillare tra alcune prove d’attore assolutamente rilevanti ( Claudia Pandolfi e Renato Carpentieri su tutti, con menzione speciale per Ricky Memphis, credibilissimo ); la difficoltà a schierarsi, perché se è vero che, spesso, tutti hanno buone motivazioni, non è altrettanto vero che ogni motivazione pesa come le altre ( e questo è particolarmente evidente nell’episodio dedicato al Primo Maggio ), e il continuo rischio d’essere didascalici.
Il rischio cioè di aver colto, un nodo vero della realtà in cui affondare l’occhio dell’indagine, o magari anche quello dello sberleffo, o dello schiaffo, o persino un occhio comprensivo e capace di comprendere le umane contraddizioni, ma di non riuscire a rappresentarlo se non in termini troppo simili ad un dibattito televisivo tra opposti schieramenti, o, correndo il rischio di rappresentare “favole”, in cui cercare, magari per un riflesso inconscio, una “morale”.
E questa debolezza, se così vogliamo chiamarla, è, essenzialmente, una debolezza di scrittura, derivante sia dalla disabitudine, in particolare negli ultimi trenta anni, a guardare davvero la realtà che abbiamo intorno, sia dall’abdicazione degli intellettuali italiani, a schierarsi, a scegliere; a fornire chiavi interpretative del reale, lasciando così, soli, quelli che provano a raccontare l’Italia.
Quella stagione cinematografica italiana meravigliosa, aveva alle spalle il dibattito intellettuale e le polemiche di Pasolini, di Sciascia, di Calvino, di Moravia; la cultura dell’Einaudi; i caffè di Roma; Flaiano e Gadda; un fiorire di riviste e quotidiani, e persino Guareschi, per guardare a destra, e questo è solo un elenco parzialissimo del mare in cui si muovevano De Sica, o Risi, o Monicelli e persino Camillo Mastrocinque e Steno.
Oggi, su cosa Leo e Bruno, possono contare ?
La sguaiatezza oscena e corrutrice di Berlusconi, che ha legittimato i peggiori istinti autoritaristi e razzisti del paese, ha travolto e ridotto pressochè al silenzio gli intellettuali italiani, che, tranne rare eccezioni, hanno paura a schierarsi e ad esprimersi sui fatti di maggior rilievo, per non parlare dell’afasia che prende quando si tratti d’indagare le tendenze profonde del corpo del Paese.
Tutti sorpresi dall’avvento di Bossi, e poi di Berlusconi e poi di Fini, e poi di Grillo, e ora della Meloni, autorizzando il sospetto che, gran parte della cultura italiana guardi più al proprio ombelico, che alla Società nella quale vive.
Per questo, va lodato il tentativo di Leo e Bruno, di riportarci a certi nodi mai davvero sciolti del nostro italico modo d’essere, ma che hanno solo mutato forma.
Il rapporto tra uomo e donna; il rapporto tra capitale e lavoro; i rapporti interni alle famiglie; la dinamica tra ricco e povero; la relazione tra cultura e assenza di cultura.
Lo sguardo dei registi è partecipe, per quanto forse timido, sgomento, verrebbe da dire, di fronte a quel che vedono e che non riescono a comprendere fino in fondo, proprio perché si trovano di fronte a fenomeni durissimi, dei quali è totalmente sfuggita la genesi e lo sviluppo, e rispetto ai quali sembra non potervi essere speranza di redenzione.
Credo però che la direzione che hanno intrapreso possa portare ad esiti più forti e potenti, in futuro, proprio per il coraggio dimostrato a non voler fuggire davanti alla mostruosità sociale che ogni giorno incontriamo sulle pagine dei giornali o che viene raccontata, molto parzialmente dal televisore, e che sembra servirci solo per farne argomento di schieramento sui social; senza che i mezzi d’informazione consentano, in genere, alcun approfondimento reale, ma solo spettacolarizzazione.
Ecco allora la ragazza che, di fronte alla violazione brutale della propria personalità, non riesce a trovare alcun ascolto vero; né nella sua famiglia, e nemmeno in quella dei ragazzi che hanno compiuto il loro sfregio; nonostante sia proprio la loro madre, l’unica, a mostrare empatia, mentre invece la madre della ragazza ferita pensa solo ad usare anch’essa, un mezzo d’informazione di massa, per vendicare la figlia, o forse il proprio onore oltraggiato di madre perfetta.
Mentre i padri sono del tutto assenti: presi soltanto dalla propria smania a mantenere intatto il proprio castello di personali soddisfazioni costruito: a prescindere dalla “presentabilità” sociale dei propri comportamenti e dei propri “segni” distintivi, i maschi hanno l’unica funzione di preservare il proprio castello intatto, nascondendo, e affossando la violenza avvenuta.
Ecco che, dinanzi al dramma del lavoro, la prima preoccupazione dell’imprenditore, aspirante suicida forse, è quella di inviare una mail ai mezzi d’informazione, per divenire caso eclatante; stesso percorso compiuto dall’operaio, suo ex dipendente, che intende prenderlo prigioniero, fin quando non gli sarà pagata la liquidazione dovuta.
Come se i gesti di ciascuno, acquisissero senso e valore, solo se “socializzati”, visti, guardati, da una infinita pletora di voyeurs indifferenti.
E dentro le famiglie arriva lo sconvolgente tarlo dell’individualismo portato alle conseguenze più estreme, in cui all’egoismo di ciascuno dei personaggi rappresentati, fa da contraltare la promessa di un egoismo ancora più radicale della bambina che chiede se, alla morte di tutti, la casa delle vacanze, finalmente diventerà di sua proprietà.
Il film sceglie un finale che apre alla possibilità di cambiare, la propria condizione individuale, se non sociale, proprio mentre invece resta nella testa la chiusura dell’episodio precedente che racconta il Ferragosto, e nel quale la nonna, ferma e seduta nell’ombra, invalida e forse fuori di testa, spera che, finalmente, arrivi un meteorite, a cancellare questa nostra umanità incapace di sentimenti umani.