La morte sembra sempre una assenza.
Massimo guardava il suo cane, Ringo, steso in terra davanti casa, morto avvelenato. Si capiva, che era stato avvelenato: per le mascelle serrate, e la bava che ancora schiumava, e la pipì sui mattoni, rappresa, e le zampe irrigidite, quasi fosse fossilizzato dentro un fango vulcanico.
Era come se, una mano amara fosse passata davanti al muso del suo cane, e gli avesse tolto il respiro, con la forza; per interminabili istanti di violenta asfissia, e Ringo aveva smesso di essere: anzi, non era mai esistito. Era andato via, senza mai essere stato lì, prima.
Massimo non riconosceva, in quel corpo asciugato, il cane che aveva accarezzato sino alla sera avanti.
Si era rotto qualcosa; più e più volte, oltre la propria vista, e persino oltre l’orizzonte, e Massimo lo sentiva cadere, come una goccia; come una corda che penzolasse su un confine, da qualche parte. Ringo non correva più e un martello aveva spezzato quella pietra viva, sbriciolandola, in minute ossa senza più muscoli che le tenessero insieme e senza saliva in bocca.
Massimo tratteneva la mano, appena sopra il torace freddo dell’animale, senza riuscire a toccarlo, e senza sentire più calore, e il ritmo del petto, ma solo il vuoto terroso dello zerbino scuro, leggermente sghimbescio, davanti alla soglia d’ingresso della propria casa.
Non sentiva più la sua voce fonda, di cane cresciuto in fretta e felice. S’erano smorzati, i colori del suo manto, come se gli fosse restata appiccicata indosso un’ombra vecchia, non sua.
Mancava sangue, in quella morte. S’era fermato, dentro il suo corpo, e cristallizzato in aghi dolorosi e rattrappiti.
Massimo, immaginava, piegato sulle ginocchia, davanti al suo cane morto. Immaginava senza sapere, e senza aver visto, o sentito. Era stato un soffio di vento attorcigliato; una mano ingioiellata e grinzosa, che nessun profumo avrebbe potuto addolcire. Non gli importava nemmeno, sapere qualcosa che già sapeva.
Non lo avrebbe più accarezzato. Non si sarebbe seduto più, con lui, su un prato, a guardare le nuvole e le creste dei monti intorno.
Monticchio, in quel mattino di febbraio, era annerita, e fredda, esattamente come il campanile, posto davanti alla chiesa stretta dentro un container basso, e costruito con i tubi di ferro di un ponteggio nudo, avvolti alla base, da uno straccio di plastica verde; sui ferri della cima, era stata poggiato il basculante in legno della vecchia campana, dal cui battente, pendeva una cordicella azzurra, fino a terra. Silenziosa ora: nessuno la muoveva per suonare i rintocchi di un funerale. Le auto, circospette, s’infilavano nel tunnel stretto e squadrato che puntellava, perché non cedessero, gli angoli di Via Beato Timoteo e via delle Aie, verso Fossa, o verso Aquila, a senso unico alternato, da ormai quasi quattordici anni.
Massimo prese una decisione, improvvisa, come un rigurgito di lacrime a denti stretti di notte, poco prima di restare senza fiato.
Aveva raccolto il suo cane dentro un cassonetto, abbandonato che ancora aveva bisogno del latte materno.
E lo prese in braccio, ora, tenendolo sugli avambracci e richiudendo le mani sui suoi peli irrigiditi dall’elettricità ultima, come se lo dovesse mostrare a qualcuno. Restò sorpreso, del suo peso ora, e che s’ammorbidisse tra le sue braccia, e tentasse di scivolar via, come un sacco vuoto, e, per questo, Massimo lo strinse di più a sé, portandoselo quasi al petto. Ora, aveva odore solo di mattino tagliente.
Uscì dal cancello della propria abitazione e percorse la strada che arrivava a quel cassonetto dell’immondizia, dove lo aveva trovato oltre un anno prima.
Forse voleva punire sé stesso, per non esser stato capace di proteggerlo. O forse gli sembrava che fosse giusto riportarlo lì, come se tutta la vita che aveva vissuto, la breve vita che aveva vissuto accanto a lui, fosse stata solo una parentesi rubata ad un foglio già scritto. O forse, Massimo voleva ferirsi e ricordare a sé stesso la propria inutilità; la propria impotenza a cambiare cose già accadute, prima ancora d’esser vissute.
Massimo pensava anche che fosse un omaggio a Ringo: lo strano omaggio di lasciarlo dentro un cassonetto dell’immondizia, perché la sua presenza lì, tra oggetti scartati ed usati, e buttati via, fosse un modo per sottolineare la umana ferocia di chi gli aveva tolto la vita, e spenta, esattamente come se il suo cane fosse stato una cosa inutile e fastidiosa.
Premette col piede sulla leva del cassonetto, ed introdusse Ringo in quella bara di ruggine puzzolente. E lo lasciò andare.
Massimo immaginò il cielo notturno, come se fosse stata un’acqua nera e ferma che s’apriva luccicando leggermente alle stelle lontane e, senza rumore, abbracciasse il corpo del suo cane, accogliendolo nelle sue profondità di velluto silenzioso.
Prese uno spazzolone, uno straccio e della candeggina, ed iniziò a lavare i mattoni chiari dinanzi alla propria abitazione. Il guinzaglio e la pettorina, li pose dentro un baule, insieme alla coperta su cui Ringo si stendeva in casa.
E quando ebbe finito, s’accorse che non aveva aperto nessuna finestra. Teneva accese le luci dei lampadari, come se il sole non fosse ancora arrivato.
Telefonò in negozio, ed avvisò che, quella mattina non sarebbe andato a lavoro.
Poi, spense tutte le luci di casa, e restò al buio, seduto su un divano, con gli occhi aperti, ad ascoltare i rumori intorno.
Non pianse, Massimo.
Ma si sentì addosso tutta l’indifferenza noncurante di chi aveva ucciso il suo cane, e la sua casa gli appariva estranea.
Colonna sonora: ” Over theirs ” – Wire