Secondo la definizione della Enciclopedia Treccani, reperibile su internet, la città è :
“ … uno degli elementi umani dello spazio geografico: in particolare un elemento insediativo e un elemento economico; è, o può essere, anche un elemento politico ( perché sempre vi si concentrano almeno alcune attività di governo, da quelle locali, a quelle nazionali o internazionali ), e, ancora, un elemento culturale, sia in quanto luogo elettivo della produzione di cultura, sia in quanto sede di beni culturali accumulatisi nel tempo… “
In questa foto, Aquila, è una città diversa, da come viene usualmente descritta e rappresentata, dai suoi abitanti, e dai suoi governanti.
Il cavalcavia, che appare come una parete ischeletrita, chiude il cielo, visibile solo sullo sfondo, dietro ad un albero sopravvissuto come puro elemento decorativo del capannone commerciale.
Questo spazio geografico è denso di interventi umani.
Funzionali.
Una strada verso un centro commerciale. Il passaggio della Ferrovia, tra liquami erbacce e immondizia, che è protetto da mura e sbarre. Uno spazio pavimentato, che riempie un vuoto tra una recinzione e la strada di servizio.
Decorativi.
Un rozzo disegno di genitale maschile pronto alla penetrazione, stereotipo elementare, realizzato presumibilmente da un onanista compulsivo, come tentativo compensativo delle proprie penose facoltà.
E poi questo tocco geniale.
Un divano diroccato, al cui fianco è posta una sedia scolastica, che non fa cultura… ma forse, è solo destinata ad attendere un ragazzo, o una ragazza, o forse sarà utilizzata come tavolino di fortuna, sul quale appoggiare un liquore, o i cioccolatini dorati che porterà Ambrogio, il maggiordomo, appena sarà chiamato, in una riedizione onirica di una vecchia pubblicità televisiva.
Su quel divano ci si può sedere comodamente, e guardare, leggermente alla propria destra, di fronte, le superfici di terreno brado, ricolme di materiali di risulta, risalenti già alla prima era industriale, quella della Cassa per il Mezzogiorno.
Oppure, da lì, valutare il traffico in entrata, verso questa zona morta aquilana: qui il movimento delle auto non transita, ma vi si dirige, magari solo perché si stia cercando qualcosa che, in realtà, è altrove.
Quel divano può anche essere l’estroflessione di un salotto per ricevere ospiti, di una delle tante temporanee abitazioni di fortuna realizzate intorno, con bandoni di lamiera e materassi in decomposizione, nascosti entro carcasse di vecchi edifici industriali o commerciali abbandonati e chiusi.
Coperte mimetiche color asfalto sterrato, servizi igienici all’aperto.
Ma può anche essere il luogo alieno ove degustare lentamente un liquore pregiato, portato da casa, mentre s’ascolta sulla propria testa il continuo pesantirsi delle automobili dirette ai consumi vari: come una eco lontana di transumanze veloci alle quali restare invisibili. Un tempio di meditazione vicino, eppure distaccato dalla volubilità transeunte dei clienti che non vedono nulla, intorno a loro, se non il felice approdo al parcheggio gratuito.
La città, qui, sperimenta modalità insediative altre, destinate probabilmente ad una regolarizzazione nei prossimi decenni, quando vi sarà interesse a far ordine sotto il tappeto dove nascondiamo la nostra incapacità ad armonizzare funzionalità necessarie, con la natura intorno. Dove accumuliamo il nostro espanderci costantemente in ogni spazio libero, senza procedere mai a riuso e rimodellamento, ma solo alla digestione e alla successiva defecazione di ogni residuo non immediatamente monetizzabile.
In questa parte di città non vi sono preesistenze di beni culturali, e nemmeno produzione di cultura contemporanea.
A meno di non considerare il cazzorazzo una premessa di Basquiat.
Non c’è economia, ma residuati, in questa parte di territorio che può dirsi, tecnicamente, città, senza esserlo e, soprattutto, non c’è politica. Una politica che da tempo ha rinunciato a programmare e urbanizzare secondo un disegno armonico, razionale e rispettoso.
Seduto a quel divano, c’è l’egoismo proprietario che costruisce e poi chiede di sanare. E basta.
L’uomo interviene sullo spazio geografico, producendo estraneità da sé. Relitti di mondi temporanei, immediatamente rimossi dalla propria memoria e dalla propria consapevolezza, per colonizzare oltre, lasciandosi dietro una discarica generalizzata refrattaria persino a future indagini archeologiche.
I margini della città non hanno più mura alle cui porte pagare il dazio per essere ammessi alla bellezza, all’economia e all’incontro, ma solo una consistenza gelatinosa di mozzoni di sigaretta e catrami incistati tra cespugli di cementi e plastiche che insozzano tutto, e ci lasciano addosso una traccia melmosa, anche quando percorriamo le vetrine del corso centrale.
Su quel divano ci si può sedere in prima fila per assistere allo spettacolo d’arte varia del disfacimento di una antica idea di città, caratterizzante la civiltà italiana dei Comuni, oltrepassata da tempo ormai, dall’escrescere incontrollato di un’entità ameboide che qualcuno si ostina a voler rappresentare in depliant turistici, divenuti essi stessi pura irrealtà atemporale, che cancella da sé ogni tratto infotografabile.
Eppure, da quel divano, si dovrebbe invece partire per recuperare alla vita, i residui inorganici del nostro consumo di suolo, di piante, di aria. Non ci sarà mai un momento astratto dal quale ripartire per rendere tutto meno brutto e inabitabile; ma ogni momento può essere importante per iniziare questa bonifica delle moderne paludi della nostra quotidianità che pensiamo superflua, buttata dal finestrino di un’auto in corsa, o scaricata dentro sacchi neri sul ciglio di strade secondarie, o lasciata ammuffire nel cemento precompresso dei capannoni abbandonati.
Una politica che voglia dare un segno di futuro al proprio governo, si misura da qui; dal recupero di senso di quel divano. Non da quanti nastri d’inaugurazione inutile, taglia.