Franz Kafka scrisse la sua opera forse più importante, “Il processo”, tra il 1915 e il 1917, lasciandola incompiuta. Avrebbe voluto fosse bruciata, dopo la sua morte. Invece, venne conservata e pubblicata.
Si tratta di un racconto cupo e spigoloso.
Il protagonista, che non ha neanche la dignità di un nome completo ( Joseph K. ), viene accusato di un crimine. Ma di questo crimine, non se ne conosce la natura, né essa emerge durante il processo cui egli è sottoposto. Il protagonista è sommerso da una serie di bruschi cambiamenti, nell’ordinarietà del suo vivere, che lo minacciano e lo angosciano sempre più da vicino, allontanando da lui ogni altra figura umana, che, pare invece far parte attiva dello stesso oscuro processo cui è sottoposto, e per il quale, senza potersi difendere, sarà condannato e brutalmente giustiziato.
Vi è chi ha visto in questo racconto, una allegoria della condizione umana; della vita stessa che comunque reca in sé, sin dal suo nascere, una condanna a morte, per la quale non ha alcuna importanza, se si sia, o meno, colpevoli.
Vi è chi ha visto in questo racconto una sorta di profezia di quanto, di lì a vent’anni, si sarebbe scatenato in Europa contro gli Ebrei, che, privati anche del nome, sostituito da un numero, e completamente disumanizzati, senza colpa, ma per il solo fatto di esistere, erano condannati a morire in condizioni atroci.
E vi è chi ha visto nel racconto una cupa prefigurazione del rapporto tra il potere, sempre più senza volto in una società industrializzata, ed un cittadino lasciato senza difese, in balia dell’arbitrio di una macchina incomprensibile ed inespugnabile.
Prima, dell’avvento dei computer e dell’Intelligenza Artificiale.
Di certo, è forse questo romanzo a contribuire, più di altre opere, all’affermarsi nella nostra lingua di un aggettivo: “kafkiano”, che, secondo la Treccani: “richiama l’atmosfera tipica dei racconti di Kafka, e quindi inquieto, angoscioso, desolante o paradossale, allucinante, assurdo”.
Oggi, ad Aquila, ci sono cittadini che, in momenti particolari della loro vita, vivono situazioni kafkiane, nel contatto con la Pubblica Amministrazione, vessati da richieste illegittime, e delusi da continui ritardi nelle risposte.
Si tratta di persone straniere che chiedano, avendo i requisiti, la cittadinanza italiana, o di poter avere in Italia i propri familiari più stretti ( coniuge, genitori, o figli minorenni ), attraverso un ricongiungimento familiare, possibilità riconosciuta dalle nostre Leggi, anche in forza di principi giuridici stabiliti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Queste persone, per presentare le loro istanze, hanno, spesso, un primo limite oggettivo: la scarsa conoscenza della lingua e della normativa italiana e/o la scarsa dimestichezza ( o il mancato possesso di strumenti adatti ), con l’uso della tecnologia, visto che le istanze possono essere presentate solo attraverso procedure telematiche, gestite da piattaforme del Ministero dell’Interno, e presso cui occorre accreditarsi, attraverso complessi passaggi informatici.
Per questo, si rivolgono ad enti di Patronato, oppure a professionisti.
Esiste un florido, e senza regole, mercato, in questo senso, in cui i cittadini stranieri si sentono chiedere anche 500 euro per l’inoltro dell’istanza.
Ma anche prima di poter inoltrare l’istanza, ad esempio per la richiesta di cittadinanza, il cittadino straniero deve dotarsi di un proprio SPID ( Sistema Pubblico di Identità Digitale ), per ottenere il quale occorre scaricare, a pagamento, sul proprio cellulare, una applicazione che consenta l’accesso al sito, e deve poi esibire una importante quantità di documenti, che attestino la sussistenza dei requisiti a porre la propria candidatura, ed allegarli all’istanza elettronica; operazione che richiede, oltre alle necessarie conoscenze informatiche e della lingua, anche la disponibilità di computer e scanner in grado di compiere le operazioni richieste.
L’Italia consente l’acquisizione della cittadinanza, sostanzialmente, sulla base di tre requisiti importanti: la permanenza legale nel nostro Paese da almeno dieci anni; un reddito congruo conseguito negli ultimi tre anni; l’assenza di carichi penali, certificata dal Paese d’origine del richiedente.
Si tratta, in tutta evidenza, di una scelta politica deresponsabilizzante e tutta centrata su criteri burocratici, e non di merito. Negli ultimissimi anni, alla pletora di documentazione richiesta ( la cui veridicità sarà comunque controllata dagli organi preposti, per cui poco si comprende l’utilità di spendere ingenti risorse economiche per esibire pezzi di carta e timbri che comunque non saranno ritenuti affidabili – altrimenti non sarebbero necessarie procedure di controllo, e qui l’ombra di Kafka inizia a disegnarsi – ), si sono aggiunte tre pagine di domande in un Questionario, cui il richiedente deve rispondere.
Tali domande, riguardano il grado di conoscenza ( autodichiarata dal richiedente ) del nostro sistema giuridico e amministrativo, oltre a domande che, all’apparenza, paiono essere laterali e svagate, ma che, in realtà, alludono ad un tentativo velato di assumere informazioni sensibili per una presunta tutela dell’ordine pubblico, rivolte a cittadini stranieri, per saggiarne, forse il grado di integrazione, o, magari, di attivismo.
Del “peso”, dato alle risposte fornite al Questionario, nel decidere da parte degli organi preposti, se accettare o meno l’istanza, non è dato in alcun modo sapere. Sembra kafkiano, chiedere a qualcuno, informazioni su sé stesso, da parte del potere pubblico, senza che lo stesso potere ne spieghi gli scopi e l’uso.
L’Italia, quindi, nel concedere la cittadinanza a chi ne faccia richiesta ( discorso a parte per i discendenti da italiani ), ritiene di gran lunga più importante essere stati in Italia con residenza legale negli ultimi dieci anni, piuttosto che certificare una conoscenza della Costituzione della Repubblica Italiana, e del suo ordinamento; né l’Italia ritiene importante porre questioni di carattere culturale, e neanche di opportunità, pur se questi temi per essere trattati equamente, e nel pieno rispetto del Diritto Internazionale, richiederebbero dibattiti approfonditi, equilibrati e non strumentali, anche perché è del futuro dell’Italia, che si parla, e, francamente, non si capisce perché, ad esempio, uno sportivo bravo, o brava, ottenga spesso la cittadinanza italiana, molto più celermente di un Ricercatore o di una Ricercatrice.
La Legge fissa in 24 mesi il tempo entro il quale l’autorità preposta debba rispondere all’istanza presentata; ma, spesso e volentieri, il tempo d’attesa è prorogato di altri dodici mesi ( talora anche di più ). Al richiedente viene inviata una comunicazione via mail, che annuncia la decisione, senza spiegarne nessuna motivazione. Perchè il potere, nei racconti di Kafka ( e sempre più anche nella realtà ), non deve alcuna spiegazione dei propri comportamenti e delle proprie scelte.
E qui si manifesta appieno, attraverso l’uso freddamente burocratico della tecnologia, il carattere kafkiano della procedura di richiesta della cittadinanza.
Quando un cittadino straniero si rivolga ad un professionista o ad un Patronato, per vedersi inoltrata una istanza di cittadinanza italiana, lo deve fare utilizzando però la propria identità elettronica (SPID), poiché né il professionista, nè il Patronato, secondo l’attuale prassi, possono essere accreditati dal sito del Ministero per la presentazione delle domande.
Tuttavia, quasi sempre, all’istanza è associato un indirizzo di Posta Elettronica Certificata del professionista o del Patronato ( poiché è difficile che il cittadino straniero si sia dotato di un proprio indirizzo di Posta Elettronica Certificata ), e perciò accade che, alcune decisive comunicazioni ufficiali, siano inviate dal Ministero dell’Interno, proprio a quell’indirizzo di Posta Elettronica Certificata.
Pur se il Ministero conosce l’indirizzo di residenza del richiedente; il suo numero di telefono cellulare, e il suo indirizzo di Posta Elettronica, tutti contenuti all’interno della domanda.
Arriva quindi al professionista o al Patronato, magari due anni dopo l’inoltro dell’istanza ( rendendo anche per questa via quasi impossibile rintracciare l’effettivo destinatario della comunicazione ), un avviso del Ministero, generato centralmente da Roma, magari tramite Intelligenza Artificiale, che in nessuna parte del messaggio indica il destinatario di quella comunicazione ( nome, cognome, codice fiscale… ), ma che contiene solo il numero identificativo dell’istanza ( che viene rilasciato dal sistema 24 ore dopo che la domanda sia stata materialmente inviata ), e l’invito a recarsi sul sito del Ministero per visionare il contenuto.
L’operatore del Patronato, o il professionista, non possono conoscere il numero identificativo di una istanza, perché non hanno a disposizione lo SPID del titolare della richiesta per visionarlo 24 ore dopo l’inoltro; e non possono di conseguenza avvisare nessuno dell’esistenza di una comunicazione perché non viene indicato il vero destinatario delle notizie.
E questo può significare l’impossibilità a produrre eventuale documentazione integrativa richiesta, ma, soprattutto, può significare che arrivi l’avviso di concessione della cittadinanza, e nessuno ne sappia nulla, e se trascorrano più di sei mesi da questo avviso, senza che l’interessato presti il giuramento presso il comune di residenza, si perde il diritto acquisito alla cittadinanza, e bisogna ricominciare l’iter da zero.
La richiesta di cittadinanza italiana, trasformata in un gioco di pazienza, di astuzia; in un gioco di dadi in cui, se si tira male, si perde tutto, pur avendone diritto.
E in questo gioco, può accadere che una cittadinanza sia rifiutata perché nella trasposizione elettronica di un documento, i suoi timbri risultino non pienamente leggibili; oppure può capitare che il ritardo di approvazione della domanda, oltre i termini di Legge, faccia divenire maggiorenne un figlio o una figlia del richiedente, con la conseguenza che si può avere un padre italiano, di figli stranieri che non sono potuti diventare cittadini italiani, come sarebbe stato loro diritto se i tempi di Legge fossero stati rispettati, e che invece, a loro volta, dovranno intraprendere un nuovo iter completo di istanza, ricorrendone i requisiti.
Inquietante, e perciò anch’essa kafkiana, è la situazione di chi desideri ricongiungere a sé i propri familiari più stretti.
Egli deve produrre una mole di documentazione anche più ampia, per certi versi, di quella richiesta per la cittadinanza, e che coinvolge soggetti terzi che, ad esempio, possono rifiutare di fare quanto la procedura richiede loro.
Un cittadino straniero che viva in affitto, deve ottenere il consenso del proprietario dell’abitazione a far abitare nella casa in cui vive in affitto, le persone che potrebbero essere ricongiunte: il proprietario dell’immobile deve certificarlo con una propria dichiarazione corredata da copia del proprio documento d’identità.
In più, non è sufficiente all’amministrazione la certificazione fornita dal Centro per l’Impiego ( Ente Pubblico ), che attesta l’esistenza e la tipologia di un rapporto di lavoro subordinato; ma tale esistenza deve essere anche autocertificata dal datore di lavoro che anch’egli deve fornire copia del proprio documento d’identità.
E’ proprio di una amministrazione che eserciti il proprio ruolo e potere con una oscurità kafkiana, richiedere le stesse cose più volte, senza che ve ne sia un qualche motivo logico. Una specie di dispetto autorizzato.
Ma il più grande, e incomprensibile, problema del cittadino che voglia ricongiungere a sé i propri familiari, consiste nel fatto che all’Amministrazione, di regola, non è sufficiente che il richiedente possieda tutti i requisiti, certificati, per poter avere diritto al ricongiungimento familiare, nel momento in cui presenta la domanda, come la Legge prevede; l’Amministrazione pretende invece che, non solo i requisiti debbano essere presenti anche nel momento in cui debba concedere il cosiddetto “Nulla Osta”, ma che il richiedente debba magari fornire ulteriore documentazione, non prevista dalla Legge, oppure già fornita in sede di presentazione dell’istanza.
E qui, la fantasia kafkiana, si scatena senza freni.
Allora, al cittadino straniero, si chiede di esibire, ad esempio, copia di tutte le pagine del proprio passaporto, comprese quelle non ancora utilizzate ( circa trenta pagine di documento da tradurre in formato elettronico ed inviare ): richiesta incomprensibile, poiché il cittadino straniero, per Legge, non deve certificare nulla, a proposito dei suoi eventuali viaggi all’estero, o ritorni nella nazione d’origine.
Oppure si chiedono, non solo le copie di tutte le buste paga di un intero anno, ma anche la certificazione, avvenuta sul Libretto Unico del Lavoro a cura dell’azienda di cui si è dipendenti, o tramite copia dei bonifici bancari, che il salario sia stato effettivamente erogato: ma questa è una certificazione che, di norma, è l’azienda a dover esibire, per certificare i propri adempimenti contrattuali e di Legge, a fini antimafia, o di confermata regolarità negli adempimenti contributivi e retributivi per ottenere il cosiddetto DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva), per la partecipazione ad esempio a gare d’appalto.
Così come accade, che, in sede di presentazione dell’istanza, si faccia riferimento, per il raggiungimento del requisito reddituale, anche al reddito di un familiare ( figlio, figlia, marito, moglie ) del richiedente; ma l’Amministrazione preannuncia il rigetto dell’istanza, poiché il reddito presunto del richiedente, nell’anno successivo a quello in cui si è presentata la domanda ( e che non dovrebbe essere certificato ), risulti insufficiente al raggiungimento dei requisiti, facendo finta di ignorare che già in sede di prima istanza, al reddito del richiedente si doveva sommare anche il reddito del familiare, e quindi senza chiederne nuova certificazione, dando per scontato che, in questo modo, l’istanza possa essere respinta.
Particolarmente grave poi, è la situazione di chi abbia un permesso di soggiorno per Asilo.
Il permesso di soggiorno per Asilo, ottenuto dopo anni di attesa, in forza della pronuncia di una apposita commissione di giudizio, certifica che la persona, nel proprio Paese d’origine, possa subire, o abbia subito, arbitrarie persecuzioni per la sua appartenenza etnica, o per motivi religiosi o politici, e quindi è necessario sia protetta. Per Legge, il titolare di un permesso di soggiorno per Asilo, in caso di richiesta di ricongiungimento familiare, non deve certificare la percezione di alcun reddito, e nemmeno la disponibilità di una particolare abitazione atta ad accogliere i suoi familiari, nel presupposto, che anche la sua famiglia, possa essere oggetto di persecuzione nel Paese d’origine: ma anch’egli, dall’Amministrazione, è intimato ad esibire certificazioni reddituali e documentazione relativa alla propria abitazione, in modo del tutto arbitrario.
E riguardo l’abitazione, della quale, per Legge, si debba certificare l’Idoneità Alloggiativa ( il rispetto cioè delle prescrizioni sanitarie in materia ), talvolta, il cittadino straniero, si sente richiedere dall’Amministrazione, persino le particelle catastali dell’abitazione presso la quale è in affitto, e senza che nessuna Legge indichi che una simile richiesta sia legittima.
Così come accade, regolarmente, che, dopo che, dopo aver autocertificato, come prevede la Legge, su modulistica ministeriale, il proprio “Stato di Famiglia”, ci si senta richiedere il certificato di matrimonio, proveniente dal Paese d’origine, tradotto e legalizzato in italiano: documento che la Legge non chiede di esibire, al momento della richiesta di ricongiungimento familiare.
Nel nostro mercato del lavoro, accade che ci siano tipologie d’impiego spesso a termine, o comunque legate alle specificità del settore: pensiamo ad esempio ad un muratore, che magari viene licenziato periodicamente sulla base di motivazioni legate al clima, o anche ad impieghi tipicamente stagionali. I cittadini stranieri che siano in queste condizioni, presentano istanza di ricongiungimento familiare quando soddisfino i requisiti previsti dalla Legge, ad esempio quelli reddituali, e di rapporto di lavoro in corso. Ma può accadere che, al momento della concessione del Nulla Osta, l’Amministrazione richieda un nuovo modello UNILAV ( attestazione della sussistenza di un contratto di lavoro in corso, rilasciata dal Centro per l’Impiego ), proprio mentre magari egli si trova in un periodo di disoccupazione involontaria, e che quindi non può produrre, rischiando così di vedersi rifiutare il ricongiungimento familiare pur se egli ne aveva pieno diritto, soddisfacendo tutti i requisiti di legge al momento della presentazione dell’istanza.
Gli esempi potrebbero continuare, ma tutti sono caratterizzati da richieste che non sono previste nel dettato legislativo, ma cui si deve sottostare pena il rifiuto di quanto richiesto. L’arbitrarietà insindacabile del potere, è angosciosa e kafkiana, e pone in discussione il principio della certezza del diritto.
Per alcune categorie di persone, è lecito che la Pubblica Amministrazione richieda ben più di quanto il dettato legislativo preveda, e non si capisce in base a quali principi questo avvenga.
Senza contare che, una volta ottenuto il Nulla Osta, il richiedente dovrà penare mesi, perché i suoi familiari ottengano un appuntamento presso l’Ambasciata italiana nel loro paese d’origine, per il rilascio del Visto d’ingresso in Italia. E spesso, purtroppo, l’appuntamento in Ambasciata richiede il pagamento di somme in nero a mediatori e traffichini d’ogni genere.
Ci sono persone che sono riuscite a far arrivare in Italia i loro familiari, solo dopo un anno e mezzo dal rilascio del Nulla Osta.
Questo sistema, complessivamente, si caratterizza quindi per un alto grado di incertezza del diritto; per una pratica troppo spesso legata ad umori del momento, o a disposizioni che travalicano le previsioni di Legge. Questo sistema sancisce che alcuni cittadini siano meno eguali di altri, di fronte alla Legge.
Credo che ciascuno debba considerare con estrema attenzione questa situazione, perché se non si difendono i diritti dei più deboli, dei più fragili, dei più “scomodi”, ad essere messi in questione, poi, sono i diritti di tutti. Il potere è avido, e cerca di fagocitare sempre più i limiti e i controlli cui gli si chiede di conformarsi, finendo con il rendere la vita di tutti sotto costante ricatto dell’ingiustizia e dell’abuso.
Ma credo anche che, invece di aprire una discussione seria, e vera, sul rapporto che gli stranieri dovrebbero avere col nostro Paese, anche quando ne vivano la vita da decenni, oggi sia la tecnica amministrativa a rivelare con desolante chiarezza l’ostilità pregiudiziale nostra, alla relazione con lo straniero.
Non si discute, qui, di flussi migratori e di come debbano essere governati ( e grande esigenza di governo, ci sarebbe ), ma proprio delle fondamenta del Diritto in un Paese come il nostro, a partire dall’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: un principio costituzionale, che dovrebbe essere inderogabile, e che invece è surrettiziamente posto in discussione attraverso concreti comportamenti amministrativi, la cui fondatezza è, quanto meno, tutta da dimostrare.
Il cittadino straniero, riceve un preciso messaggio, da questo modo di amministrare la Legge: che in Italia, nonostante siano scritte certe cose, se ne possono praticare delle altre. E non è un buon messaggio educativo; e non può certo essere questo il modo in cui si chiede rispetto agli altri della nostra Cultura, dei nostri Costumi, delle nostre Regole.
Quando ad un cittadino straniero, coinvolto in questi processi, si prova a spiegare questo stato di cose, si è guardati con profonda perplessità, e con una domanda inespressa: “ perché, si scrivono le Leggi, se poi i primi a non rispettarle, sono quelli chiamati a garantirne l’applicazione ? “
Se si fosse capaci di rispondere concretamente a questa domanda, non si farebbe un buon servizio ai soli cittadini stranieri, bensì a tutto il Paese.
Quando si entra in un porto, il navigante, sa di dover rispettare certe regole, e sa che tutti gli altri naviganti, si sforzeranno di rispettare le stesse regole, per la propria e l’altrui sicurezza in un ambiente potenzialmente ostile.
Bisognerebbe costruire, e ricostruire, una fiducia reciproca, simile a quella praticata dalle migliori persone di mare.