Era una vecchia grande sala.
Da finestre alte, e polverose, filtrava una vecchia luce di tramonto.
Dalle pareti colavano strappi di rivestimenti in finta pelle e spugna; pendevano luci spezzate dal soffitto e il lungo bancone bianco del bar, era annerito dal tempo.
L’uomo si guardava intorno smarrito.
Era entrato in quel luogo solo una volta da ragazzo. Si era seduto su un piccolo divano, accanto all’ingresso, da solo, e aveva guardato nel buio, rotto da luci basse, intermittenti, che sembravano pulsare col ritmo della musica.
Era andato via, quasi subito. Quella musica non gli piaceva. Le persone che erano in quella sala gli risultavano estranee, e lontane. Ombre scure che si muovevano, senza che lui riuscisse ad ascoltare nulla; senza poter connettere quei movimenti al suono che non ascoltava.
Cercava con gli occhi ora, quel piccolo divano, senza ritrovarlo.
E, mentre faceva sempre più buio, iniziò a ballare, sempre da solo, in mezzo alla pista di quella discoteca che non c’era più.
Ballava una sua musica.
Da solo, come un Orfeo che non avesse saputo resistere al desiderio di guardare Euridice.
Ora, con le luci spente, pensava, di scomparire finalmente, in quel buio cadente.
La sua mano, nell’oscurità, cercava la fanciulla rapita nel regno di Ade.
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Stava seduto da una parte, da solo, e guardava il cielo imbrunirsi.
Pensava ai colori, che stava guardando. Mentre enumerava, dentro di sé, il grigio, il celeste, il nero, il rosso, lo prese un pensiero.
Si chiese se il colore che vedeva, grigio, fosse lo stesso grigio che anche altri, vedevano.
Ci insegnano come chiamare i colori, ma può accadere che, quel che ci mostrino, noi lo percepiamo differentemente da altri. Ad esempio, tutti chiamano grigio, quel che uno percepisce blu. Oppure uno chiama giallo, quello che tutti percepiscono come rosso.
Si chiedeva come fosse possibile, dar nome alle cose, e come fosse possibile che poi, le cose, nascessero e morissero con quel nome, da tutte, e da tutti conosciuto.
Ma ingannevole, perché se l’essenza di una cosa permane, nel tempo, il nome che le si può dare, cambia, nel tempo, e anche da persona a persona, e tra i popoli, la stessa cosa, ha un nome diverso.
E ora, guardava il cielo, senza dar nome ai colori, ma cercando solo d’intendere il cielo stesso; nella sua aria, nella sua intangibilità. Nella impossibilità di abbracciarlo, con un solo gesto.
E pensò che poche cose, non hanno colore, ma solo peso.
Ed era seduto da solo, da una parte, lontano da tutto.
E pensava che l’amore non ha colori. Ma solo peso.
Lo stesso peso che ha un respiro.
Un respiro non pesa nulla.
Ma senza respirare, si muore.
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La fermata del bus, era quasi davanti al portone della sua casa.
Ogni mattina, le ragazze, e i ragazzi che andavano a scuola, salivano tutti sul mezzo che passava alle 7,50.
Lui aspettava che passasse il bus delle 8,10, sul quale saliva abitualmente, tutti i giorni, per andare in centro, al suo lavoro.
In genere, a quell’ora, trovava sul bus, solo qualche studente ritardatario, pochi impiegati come lui, e qualcuno che volesse far la spesa presto, tra le bancarelle del mercato, per trovare i prodotti migliori.
Da un po’ di tempo però, aveva preso a prendere il bus degli studenti; alle 7,50.
Aveva scelto di cambiare abitudine, dopo che era salito su quel bus, alle 7,50, un mattino che aveva un impegno importante in ufficio e voleva preparare bene certe carte, e per questo aveva deciso d’essere a lavoro qualche minuto prima, per sistemare tranquillamente e bene, quel che gli serviva.
S’era accorto allora, che, su quel bus, i ragazzi e le ragazze, parlavano tra loro, in attesa d’arrivare alla fermata giusta. E, in quei minuti, aveva visto certi ragazzi, provare ad avvicinarsi ad alcune ragazze. E aveva visto qualcuna di loro, sorridere.
E poi li aveva visti scendere, continuare a parlare, ed andar via.
E avrebbe voluto vedere cosa sarebbe accaduto dopo. Per questo, il giorno dopo, nuovamente, era salito sul bus.
Aveva visto ragazze e ragazzi ridere insieme. E nei giorni dopo, aveva visto qualcuno di loro tenersi per mano. E poi aveva visto qualcuno, guardare insieme, in silenzio, il traffico della città scorrere accanto ai finestrini. E nei giorni dopo ancora, aveva visto qualcuno tra loro, tentando di non farsi notare dagli altri passeggeri, scambiarsi un bacio veloce.
Saliva su quel bus, venti minuti prima, al mattino, perché gli piaceva immaginare di poter essere lui, ad incontrare una donna. Di provare a guardarla; a cercarne lo sguardo, qualche mattina. Immaginava di incrociarne gli occhi, e di accennare un piccolissimo sorriso, veloce, ma lento quanto basti perché lei lo vedesse. Ed immaginava di continuare a guardarla, nei giorni successivi, fin quando non potesse cogliere, sul volto di lei, un involontario cenno di reciproca attesa, che gli occhi si fermassero negli occhi, e quando fosse accaduto, immaginava che, il giorno dopo, sul bus, avrebbe trovato il coraggio d’avvicinarsi, e chiederle come si chiamasse, e, alla sua risposta, presentarsi, ed iniziare a parlare con lei, mentre dal bus tutti scomparivano, e il tempo decideva di fermarsi.
Continuò a salire sul bus, sino alle vacanze di Natale, quando i ragazzi smisero di prendere quell’autobus alle 7,50 del mattino.
Ma lui continuò ad immaginare che una donna sul bus, gli tendesse la mano, mentre le scappava un sorriso divertito.
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Cercava di tenere ordine, tra le sue cose. Per ritrovarle, certo. Ma anche perché gli sembrava una strana forma di rispetto, verso gli oggetti. Tenerli, più o meno, in ordine, gli faceva pensare di onorare nel giusto modo, il valore che dava a ciascuna di quelle cose.
E non aveva alcun senso, per lui, il valore materiale degli oggetti. Lui cercava di rispondere al significato, che le cose avevano nel suo cuore.
Tenere in bella vista, una bottiglietta di grappa slava, che gli era stata regalata, era un modo per onorare, la persona che gliela aveva regalata. Averla sempre sotto gli occhi; sentirla parlare e parlarle.
Molto più importante, di penne stilografiche dorate, o orologi alla moda.
Per questo, non riusciva ad immaginare, come fosse possibile, che non riusciva a trovare un certo quaderno bianco, sul quale voleva scrivere. E lo aveva cercato tantissimo. Perché certe volte, le parole, quando son scritte su una carta particolare, acquistano peso in più. Persino gli errori di scrittura, e le cancellature, sembra acquisiscano maggior rilievo. È come ferire la carta, coi nostri limiti. Con le nostre insufficienze.
E lui voleva scrivere qualcosa che gli permettesse di liberare tutto quello che s’era tenuto dentro, negli ultimi anni. Poi, con quel quaderno, avrebbe acceso un fuoco, nel camino. E avrebbe visto diventar cenere, e poi fumo, le proprie parole, che erano fiamme alle quali nessuno si scaldava, ma che lui immaginava divenute aria da respirare.
Forse il quaderno s’era perduto tra i traslochi degli ultimi tempi.
Forse un fantasma glielo aveva portato via, a notte.
Allora, andò ad un vivaio, e comprò i semi di tanti fiori. Poi cercò una terra che nessuno potesse comprare, nascosta.
E scavò la terra, e seminò i fiori, e innaffiò quella terra, con l’acqua che s’era portata da casa.
Nessuna parola, in fondo, avrebbe potuto essere vita, e colore e amore, quanto un petalo di fiore, che ad ogni stagione, potesse crescere nuovo; anche quando sembrava fosse ridotto in polvere, dall’inverno.
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Correva.
Correva con la sua bicicletta, con tutta la forza che aveva nelle gambe.
La salita era alta, difficile, e piena di automobili ferme nella fila di in traffico nervoso. E lui correva, sfiorandone le fiancate, tagliando la strada ai cofani, sentendone il calore dei motori affannati.
Sopra di lui, le nuvole correvano grigie, sotto un cielo che aveva dimenticato la luna in una tasca bucata. E lui sentiva sulla schiena, il sapore salato delle gocce di sudore, ma correva, oltre la salita, finalmente.
E fu allora, che cadde.
Aveva frenato, per un attimo, su un brecciolino bianco, caduto dal cassone di un camion pieno di pietraglie da cemento.
Era slittato, e caduto, e aveva battuto la testa su un marciapiede.
S’erano anneriti, i fari delle auto e le insegne dei negozi. Una sola donna era accorsa verso di lui riverso. Sull’asfalto.
Correva, ancora, perché non voleva ritardare.
Una donna, sola, lo aspettava nel giardinetto vicino alla stazione, seduta su una panchina. Lui le avrebbe letto le pagine di un libro, che stava scrivendo, e lei le avrebbe criticate, aiutandolo a trovare la chiave giusta di ogni storia.
S’accorse, mentre lo portavano via, che la donna, sola, aveva raccolto il suo quaderno, e leggeva, le pagine che lui, avrebbe letto, ad alta voce, accendendo la luce delle stelle, ritrovando la luna caduta, e il sorriso di lei, che illuminava ogni cielo lui potesse mai immaginare.
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Il bambino guardava la luna, da dietro la finestra della sua cameretta.
La luna era poggiata sulla cima di una collina boscosa, e sembrava vicinissima, leggermente dorata; avvolta in un fuoco leggero.
Allora il bambino, di nascosto, indossò un paio di scarponcini da montagna, un giubbotto caldo, e prese uno zainetto che mise subito sulle spalle, infilando le cinghie con le braccia.
Senza far rumore uscì di casa, ed iniziò a camminare verso la luna.
Traversò la città e si diresse verso gli alberi scuri, leggermente mossi da un vento che sembrava parlare, e provare a convincere il bambino a tornare a casa.
Il bimbo invece s’addentrava sempre più per i fianchi della collina, dove non entrava neanche la luce della luna.
Ma il bambino sapeva che era sufficiente continuare a salire e sarebbe arrivato in cima, per toccare la luna, senza sbagliare strada.
Si sentivano le foglie secche frusciare ad ogni passo, come uccelli notturni che, silenziosi, volassero sfiorando i rami, con una musica ombrosa e leggera.
Finalmente, il bimbo arrivò sulla cima della collina, ma luna sembrava essere ancora un po’ più in alto, e il bambino non riusciva a toccarla. Si guardò intorno, allora, e, nella notte, vide un albero davvero grande, di cui non riusciva a scorgere la cima, e decise di arrampicarsi.
Un po’ aveva imparato, a scalare rocce; finte però, in una palestra dove lo portavano i suoi genitori due volte a settimana.
Sotto le mani sentiva la corteccia leggera dell’albero, che gli lasciava sulle dita resina odorosa e polvere di muschio, e sangue, strusciando, sentiva corrergli sulle ginocchia nude dei suoi pantaloncini che aveva indossato corti, perché avevano tante tasche in cui conservare cose.
Arrivò in cima all’albero, infine, sudato, e con le braccia stanche, ma la luna era ancora più in alto, e lui non poteva ancora toccarla.
Si sentì vuoto, e angosciato, per il suo desiderio che pareva impossibile da realizzare.
Forse però, il cielo si chinò un poco, o forse la luna era un po’ più pesante del palloncino che sembrava, appena comprato al…luna park, e, senza che nessuno se ne accorgesse (forse solo un mare lontano che iniziò ad alzare onde altissime, ritorte e schiumose), s’avvicinò alle braccia tese del bambino.
Il bimbo prese un pezzetto, piccolissimo di luna, e lo conservò nel proprio zaino.
Pensava che, per tutto il tempo che sarebbe venuto da vivere, poi, avrebbe potuto raccontare di un desiderio impossibile, invece realizzato, e avrebbe sentito sempre, in sé la forza delle sue braccia aperte.
E dei suoi sogni, capaci di uscire dalla sua stanza di bambino, e vincere la notte.
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Si era svegliato, col viso trasformato in una carta geografica stropicciata.
C’era, sulle guance, un reticolo di fiumi e torrenti, che avevano scavato valli senza direzione, ma profonde. Il monte del naso, aspettava bandierine di conquista.
Sulla fronte, le faglie dei pensieri traversavano pianure fragili. I capelli boscosi, si diradavano, lasciando intravedere sentieri tutti da esplorare.
La bocca era chiusa, dai denti serrati, come certe piccole colline nude di roccia che emergono, come scogli, da mari d’erba.
Gli occhi erano laghi profondi.
Colmi d’acqua e pietre levigate.
Le carte geografiche, disegnano un orientamento, una direzione.
Davanti allo specchio, al mattino, con una penna, disegnò i passi di una gita fuori porta sulla sua faccia.
Poi si fece una foto del volto nello specchio, col cellulare e la inviò ad una sua amica, chiedendole se volesse andare a far colazione da qualche parte, puntando a caso il dito su una carta geografica, e partendo.
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Era al buio, totalmente al buio.
Nessuna luce, nessun fuoco. Nessuna stella in cielo e luna nascosta.
Era più buio che a tenere gli occhi serrati. Con gli occhi aperti, non si riusciva neanche a percepire l’ampiezza dei propri passi.
E non c’era direzione.
Era come se avesse fatto uno di quei suoi giochi da bambino quando, in mezzo ad una piazza grande, chiudeva gli occhi, allargava le braccia, e cominciava a girare su sé stesso, sempre più velocemente. Come una trottola fuori controllo; poi, d’improvviso, si fermava e prendeva a camminare, sempre a occhi chiusi, in direzione opposta rispetto al suo verso di rotazione.
Barcollava allora, rischiando di cadere, e riapriva subito gli occhi e, dopo un istante di nebbia, anche al mezzogiorno di un agosto pieno, il mondo riprendeva le sue forme e i suoi rumori, e lui riacquistava equilibrio e direzione, e sorrideva.
Ora, dentro quel buio che pareva catrame squagliato, non aveva idea alcuna di dove fosse. O di dove potesse dirigersi. E immaginava, era sicuro anzi, d’essere anche totalmente solo, e che a nessuno potesse chiedere, al bisogno, aiuto.
In quella condizione, avrebbe dovuto restare totalmente fermo, in attesa di una qualche luce. Ma, per quanto avrebbe potuto resistere totalmente al buio, totalmente solo, e totalmente immobile ?
Quasi sicuramente non abbastanza da poter rivedere la luce.
Allora decise di lasciarsi uscir fuori ogni paura, e prese a camminare, strisciando i piedi per terra, per esser sicuro d’avere sempre appoggio, e con le mani protese in avanti, per provare ad incontrare eventuali ostacoli, prima di sbatterci dolorosamente contro.
Tratteneva quasi il respiro, nei suoi passi lenti, cercando di registrare qualsiasi sensazione che gli desse qualche punto di riferimento, ma sempre con la percezione vivissima d’essere dentro un vuoto interminato.
Fu così forse, che arrivò fin sul bordo estremo del mondo, ed iniziò a galleggiare, o forse a volare, sempre dentro un buio assoluto, e senza riuscire ad avvertire la presenza di qualcuno, o qualcosa; forse solo la propria strana leggerezza.
Ricordò allora, quando, abbracciato alla donna che amava, volava più in alto del fumo dei camini, d’inverno, e, d’improvviso, gli sembrò di avvertire, nel buio, i diversi colori dei vestiti di lei, e i contorni dolci del suo corpo, le sue mani che s’aprivano all’aria, mentre allacciati, insieme, sembravano nuotare nel fumo dei camini.
Pensò allora che forse era lei, la luce.
E che non c’era più, quel buio vischioso, ma una pioggia di scintille, come un fuoco di legna incandescente nel camino, che festeggi il suo bruciare nell’aria, scaldandola, anche con un solo abbraccio.
E lui poteva, finalmente camminare libero, nel giorno che lei aveva acceso.
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Faceva freddo.
Un freddo di solitudine tagliente e ombrosa, come un albero nudo di foglie. Ed era buio; un buio di tempi senza elettricità ma pieni di favole.
L’uomo si stringeva nel suo manto, ed era stretto, nell’angolo di un muro, per ripararsi dal vento che aveva attraversato i monti gelati.
Il cielo era limpido, e la luna era grandissima, e sospesa nel cielo e pareva talmente vicina, che sembrava quasi d’avvertirne il suo salire, verso il fondo della cupola celeste, ad occhio nudo.
L’uomo s’accuccio’ e cominciò ad alitare dalla bocca, lasciando uscire un fiato blu che non si disperdeva nell’aria, ma anzi sembrava solidificarsi e poggiarsi morbidamente a qualche dito da terra, come un cotone galleggiante che, ad ogni fiato, si spandeva alzandosi, sempre più, da terra.
Ad un certo punto, l’uomo salì sulla piccola nuvola, e vi sedette. E attese che, lentamente, la nuvola si sollevasse, sempre più in alto, da terra, per dirigerla verso quella luna dorata, che pareva aspettarlo.
L’uomo sperava che, sulla luna, fosse custodito il proprio futuro, in una piccola bottiglietta trasparente, col proprio nome scritto sopra, poggiata tra miliardi di altre, dentro un cratere; e voleva andare a prenderla, per scoprire se la sua solitudine dovesse essere ancora la sua unica compagna.
Mentre saliva, proprio sopra un grande ippocastano, si poggio’ sulla sua mano, una farfalla notturna. Lui la guardò, senza scacciarla via, attento a non toccarla, per non arrecare alcun danno alla sua fragilità timida. E lei sembrava voler restare con lui, fino alla luna.
L’uomo, per un istante, ebbe persino l’impressione che la farfalla gli parlasse; che gli raccontasse una storia di rinascita. Come se lei si fosse appena liberata del suo bozzolo di seta protettiva e volesse ora volare, e avesse scelto lui, quella notte.
Arrivarono sulla polvere della luna, e la farfalla si trasformò in una donna bellissima.
L’uomo capì allora, che forse non sarebbe stato più così solo, e che di conoscere il proprio futuro, non gliene importava nulla.
Voleva solo viverlo con lei.
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Era una donna anziana, vestita come se fosse ancora in casa, a spicciare faccende domestiche. Indossava ciabatte aperte, sul calcagno, e, sul vestito, portava un grembiule da cucina che appariva molto usato; sulle spalle, nonostante fosse estate, teneva uno scialle nero.
Camminava, di notte, dentro un buio davvero fondo, su un sentierino di campagna, traversando piccoli ortali coltivati, posti tra abitazioni che distavano tra loro poco più di un centinaio di metri circa. Non c’era illuminazione, e la donna portava con sé un vecchio, tremolante, lume a petrolio.
A intervalli regolari, chiamava, ad alta voce, il nome del nipote, che aveva saltato la cena, e ancora non tornava a casa.
Dopo aver camminato e cercato per un po’, la donna immaginò dove l’avrebbe trovato.
Era nella cucina di un albergo, proprietà della famiglia di un suo amico.
Giocava a poker con altri tre ragazzini.
E la donna anziana, nonna, sentiva d’essere arrabbiatissima col nipote, cui aveva spesso proibito, quell’estate di fare quel gioco coi suoi amici. Da quando s’era resa conto, nei giorni prima, di quel che accadeva.
Ma la nonna non sapeva perché, il ragazzo giocasse a poker.
Sulla spiaggia, di nascosto, il ragazzo ascoltava le parole di una famiglia cui cercava sempre di stendere vicino il proprio telo.
C’era una ragazzina in quella famiglia e lui aveva sentito esplodergli dentro mille bolle di sapone, la prima volta che l’aveva vista.
Aveva ascoltato, un giorno, la madre della ragazza, rimproverarla, perché aveva regalato una propria bambola ad una bimba che non l’aveva.
E aveva deciso, allora, di recuperare, in ogni modo possibile i soldi necessari a comprare una nuova bambola, per regalarla alla ragazza.
La nonna lo trovò che vinceva. E gli fece restituire tutti i soldi ai suoi amici.
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Nel giardinetto, chiuso dalle strade che lo circondavano, giocava un gruppo di bambine e di bambini.
Poco distante, la chiesa del paese; una pizzeria al taglio, in un angolo tra due grandi edifici, al fianco della strada che portava alla stazione.
Il giardinetto pareva un’isola, di cespugli e alberi, tra strade di breccole bianche e levigate che, ad ogni passo, facevano un rumore d’acqua che si risacca.
I bambini, e le bambine, giocavano a nascondino.
Uno di loro aveva un braccio su un albero, e vi poggiava la testa, con gli occhi chiusi; ad alta voce contava; fino a cinquanta contava, prima di voltarsi, ed iniziare la ricerca.
Tutti sapevano, che non era importante, in fondo, fare tana per primi, o essere scoperti; quello che contava davvero era l’ultimo, o l’ultima, a restare nascosta, o nascosto. Se l’ultimo fosse riuscito, o riuscita, ad arrivare all’albero, prima del bambino che aveva contato, lui avrebbe dovuto contare di nuovo e tutti gli altri, e le altre, avrebbero potuto nascondersi nuovamente dietro le panchine, o negli anfratti, tra le siepi legnose, liberi, e libere.
I bambini erano stati trovati e scoperti tutti; tutti meno uno, era bravo, e veloce, il bambino che aveva contato.
Uno restava nascosto ancora, e non sembrava facile trovarlo. Bambini e bambine, il cui gioco era finito, urlavano il nome dell’ultimo rimasto, tifando perché lui liberasse tutte e tutti.
Il bambino sembrava scomparso.
Nessun albero sembrava nasconderlo, e ogni muretto basso di pietre sotto il quale stendersi, era stato perquisito, senza successo.
Forse era andato a cercarsi un negozio di dolci, senza dirlo a nessuno, o magari s’era dimenticato del gioco e adesso era con altri bambini a correre, da qualche parte.
La verità, era che il bambino rimasto per ultimo, era un bambino diverso dagli altri.
Viveva in una roulotte, coi suoi genitori, in un campo poco fuori dal paese, e, mentre giocava a nascondino con gli altri, aveva visto passare, seduta su un cavallo, aggrappata a sua madre, la bambina che abitava nella roulotte vicina alla sua, e aveva chiesto d’esser riportato a casa.
Ma era solo una scusa, per avvicinarsi a lei. Gli piaceva il suo odore di terra fiorita, e gli piaceva la luce dei suoi occhi, quando sorrideva.
Dopo il viaggio a cavallo e dopo essersi stretto alla bambina, come se fosse stato l’uomo cannone aggrappato al proiettile, e dopo essere tornato alla roulotte però, di corsa, tornò al giardinetto, quando ormai erano accesi i lampioni, e non c’era più nessun bambino.
Liberò tutte, e tutti, toccando l’albero, prima del bambino che aveva contato.
E guardò le stelle alte in cielo.
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Lui, abitava al piano di sotto, della donna che abitava al piano di sopra.
La sentiva camminare, talvolta, anche se lei, secondo lui, indossava sempre scarpe con la suola di gomma, perché è vero, che ne sentiva i passi, ma erano come le vibrazioni del vento su una piccola pozza d’acqua limpida.
E la sentiva parlare, certe volte, attraverso i muri; qualche volta, riusciva a percepirne qualche parola, precisa, ma poi subito si perdeva nel suono della voce di lei, e, anche se non accadeva mai, immaginava che lei parlasse con lui.
Proprio lui, quello che abitava al piano di sotto, della donna che abitava al piano di sopra.
E non era solo il suono della sua voce; quella voce, per lui, aveva anche un profumo: di legno e agrumi, come un inverno caldo e dolce.
Ma lei non parlava mai con lui, e certe volte abbassava lo sguardo, se si incrociavano sul portone del palazzo.
E in quei casi, lui si sentiva invisibile, come se neanche abitasse, al piano di sotto, della donna che abitava al piano di sopra.
Un giorno lui raccolse il coraggio, e decise che avrebbe provato, almeno, a conoscerla, e perciò, andò sul proprio balcone, che era proprio sotto il balcone della donna che abitava al piano di sopra, e lego’ una corda alla propria caviglia, per un capo, e la fissò all’inferriata del balcone, per l’altro capo.
Poi, si sporse dal proprio balcone, ed iniziò a galleggiare, in aria, come un palloncino colorato, innalzandosi verso il balcone della donna che abitava al piano di sopra.
Aveva, tra le mani, due tazze di cioccolata calda, e voleva offrirne una alla donna che abitava al piano di sopra.
La donna che abitava al piano di sopra, era una veterinaria, specializzata in animali selvatici feriti. Qualche volta, quando nel suo piccolo studio non c’era più spazio, era costretta a portare qualche animale con sé, nella propria casa, per poter continuare a controllarlo e curarlo.
Quella sera, sul balcone della donna che abitava al piano di sopra, c’era un’istrice, e l’uomo si punse, bucandosi, e, per questo, volo’ via, come un palloncino colorato, che faccia uscire fuori tutto il proprio fiato.
Non restò però invisibile, perché sul vetro della finestra, che dava sul balcone, della casa della donna che abitava al piano di sopra, aveva fatto in tempo, usando la cioccolata calda come una vernice, a scrivere che lui, l’uomo che abitava al piano di sotto, l’amava.
Lo scrisse al contrario però, perché lei lo potesse leggere per il verso giusto, quando avesse girato lo sguardo verso il vetro della finestra, che dava sul balcone.
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Era davanti al proprio giradischi.
E sceglieva, una canzone per volta, per registrarla, su una vecchia musicassetta che aveva ritrovato in soffitta, insieme ad un apparecchio radio che, al proprio interno, aveva un mangianastri per ascoltare la musica.
Dagli scaffali della propria libreria, prelevava, volta per volta, un disco in vinile, e lo metteva sul piatto, lasciando cadere la puntina su vari solchi, prima di scegliere il brano giusto.
Stava costruendo una selezione di canzoni che raccontassero, tutte, come ci si potesse innamorare dell’impossibile.
Come un bambino, potesse innamorarsi della luna; come un passero timido potesse innamorarsi di una mela rossa; come un acrobata potesse innamorarsi di una luminosa domatrice di fragole; e anche di come un vecchio albero maestro di barca si fosse innamorato del vento, e, persino, di come un ragazzo solo, potesse innamorarsi di una bellissima istrice.
Lavorava attento a non fare sbagli; perché registrando una musicassetta, bisognava essere abili a centrare proprio il brano che s’era scelto, altrimenti poteva accadere che, terminata una canzone, ad esempio, ne partisse subito un’altra che, però, non si voleva registrare, visto che non aveva alzato in tempo il braccio del giradischi e la canzone successiva del vinile, era già iniziata lasciando traccia di se’, sul nastro.
Scendeva sera, mentre la musica riempiva le pareti della sua stanza, e il suo vuoto.
Quando finì tutto lo spazio di registrazione, inserì il nastro dentro la radio che aveva trovato, e lo ascoltò tutto, per verificare che non ci fossero errori.
E quando ebbe constatato d’aver fatto un lavoro preciso, mise il nastro dentro uno strano apparecchio che un mago gli aveva regalato. Ne fece un pacco regalo, con un gran fiocco, e, col favore del buio, senza farsi vedere da nessuno, lasciò la scatola davanti casa della donna che, da tanto tempo guardava da lontano, senza aver mai avuto il coraggio d’avvicinarsi.
Quando la donna aprì il pacco, scoprì una sorta di proiettore che aveva, davanti a sé, un lungo becco conico, in vetro trasparente. Il pacco non aveva biglietti e la donna non sapeva cosa fosse, o cosa farci, quando, l’apparecchio, da solo, s’illumino’, e la donna poté assistere ad un incredibile concerto, solo per lei; e solo per lei, nella sua casa, i cantanti d’ogni canzone scelta, a turno, secondo l’ordine della registrazione, si materializzavano, coi loro strumenti musicali e suonavano, e cantavano, di come fosse possibile, rendere possibile, gli amori impossibili.
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Era la prima volta, che gli capitava di vedere le pozzanghere ghiacciarsi.
Veniva da un canto del mare, lontano, e lì, poteva vedere invece, le pozze d’acqua svanire nel sale bianco, tra gli scogli. Una polvere farinosa e aguzza, che si frangeva, al solo tocco.
Quest’acqua di pozza al contrario, pareva non spaccarsi mai, e vetrificava, lasciandosi sotto bolle d’aria e disegni di vene di marmo, e rifletteva, sopra, il cielo azzurro tagliente dei monti lucenti.
Restavano un attimo attaccate al ghiaccio le dita, a poggiare le mani sopra, come se volessero lasciare la firma delle proprie impronte.
E c’era, poco prima del paese, un intero affioramento, che disegnava un piccolo lago d’acqua ghiacciata, e che pareva una bolla di sapone, entro la quale erano sospese erbe, e fiori tardivi.
Una finestra, sulla quale bussare, per avere accesso ad ogni mondo sognato.
Provò a mettere un solo piede, sulla lastra di vetro, per saggiarne la resistenza, e s’accorse che la notte aveva duramente lavorato, nel creare quello specchio di luce, che appariva solido, più del peso di un uomo curioso.
Gli pareva quasi di sentire tra gli alberi, una musica arrotondata, di fisarmonica e violini, che lo invitava a danzare; ad immaginare una dama, di fronte a cui chinarsi, e cui chiedere l’onore di un ballo.
Arrivò al centro del piccolo specchio d’acqua, avendo provato a camminare senza graffiarne mai la superficie, e sedette, sul ghiaccio. Col calore di un dito, scrisse un nome di donna sul cuore del vetro. E stette lì, in silenzio, a guardarlo.
Tra poco sarebbe sceso il buio, e forse anche lei sarebbe apparsa, d’incanto, insieme alla luna.
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Era nel suo studio. Da solo e al buio.
E, d’un tratto, si sentì scomparire da sé stesso. Era diventato una parola; una parola che traversava le pagine di infiniti libri della sua libreria.
Allora, non era più, nel suo studio, ma su una mongolfiera che fuggiva dall’India.
E dall’India, tornava sulla nave di un pirata. E prendeva un treno; un treno finalmente e senza finirci sotto.
Ed era una parola, che si ritrovava, anche se non pronunciata mai, durante il campionato mondiale di pallastrada. E persino dentro l’orribile mondo dove due più due, fa cinque, c’era quella parola, parlata in segreto, quando la vita conservava angoli di cielo.
Era una parola per la quale valeva la pena battersi coi moschettieri del re, e questa parola lo portava via, su e giù, tra gli scaffali, senza tregua.
Gli sembrava di fare tanto rumore, per nulla.
O forse, per l’unico nulla che dà respiro al vivere.
Quella parola, dentro milioni di altre parole e di pagine scritte, e immaginate, era l’unica, che valeva la pena leggere.
E aprì gli occhi allora, nel suo studio, da solo, al buio.
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Dentro il mattino nebbioso, che abbassava il cielo e l’orizzonte avvicinava fin quasi alle dita, c’era un uomo su un balcone.
Vestito di tutti i colori immaginati da un bambino.
Suonava una melodia col suo violino. La spezzava e la riprendeva, frammentandola come uno specchio rotto che riflettesse mille raggi di sole.
Intorno a lui le serrande s’alzavano, per guardare ed ascoltare.
E lui voleva solo che il vento portasse musica per le persone che amano, e che, dentro, hanno fortissimi, e urgenti motivi, per svegliarsi ed essere vive ancora.
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Il ragazzo, dopo una lunga camminata in salita, entro la strada che le automobili non potevano percorrere, per la quantità di neve fresca caduta, senza che nessun mezzo passasse a spostarla, arrivò finalmente sulla Piana.
Le nuvole nebbiose, cariche d’acqua, s’erano leggermente spostate sulle cime dei monti che circondavano, come un abbraccio protettivo, tutta la Piana; e avevano lasciato un pozzo di cielo aperto, talmente blu, che non se ne poteva misurare la profondità, per le vertigini indaco degli occhi.
La neve, riverberava di acuminati raggi scintillanti, che parevano un gioco natalizio di luci intermittenti, e, a camminarci sopra con gli scarponi, si squagliozzava, trasformandosi in trasparenti pozze fragili.
Da lontano, appena fuori dagli alberi del bosco, il ragazzo la vide, e non seppe, se ascoltare la propria paura, o il proprio desiderio d’avvicinarsi e carezzarla.
C’era una lupa, che agitava nervosa la coda possente.
Il ragazzo ricordò un fumetto che aveva letto, poco tempo prima, e che illustrava una danza, di nativi americani. Una celebrazione rivolta ad un Dio Lupo, perché vegliasse, benevolo, sulla loro caccia.
E immaginando una musica, iniziò a muoversi come ricordava d’aver visto nel fumetto. Danzava ad occhi chiusi come se fosse vicino ad un fuoco alto, che spargeva scintille rossastre, e avvertendo nel cuore, il battito ritmico di tamburi sacri.
La lupa, lentamente, s’avvicinava, fiutando l’aria, e il ragazzo non cessava il suo ballo.
Quando il ragazzo si fermò ed aprì gli occhi, la lupa era davanti a lui, accucciata, e si lasciava guardare.
Il ragazzo immaginò la sensazione delle proprie mani affondate nella pelliccia della lupa, ma non si avvicinò. Sentiva che non gli era stato permesso avvicinarsi, e allora sedette, di fronte alla lupa, cercandone lo sguardo coi propri occhi.
E restò lì, in silenzio, aspettando che la lupa s’avvicinasse, mentre il sole riscaldava il mondo.
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Davanti ad una tela bianca, l’uomo, coi pennelli, provò ad esprimere la sua rabbia, dipingendo livide strisce di colore verde acido e blu scuro. E poi, cercò di raccontare il suo dolore, giallo, e arancio, come un sole bruciante, continuo, sulla pelle, negli occhi, precipitato sul cuore, senza notte mai. Voleva dare un colore, ed una forma, ai suoi tentativi di resistenza, e sulla tela dipinse, lontani, decine e decine di tronchi marrone e legno contorto. E poi voleva dipingere il vuoto, il suo vuoto, fatto di tutto quello che avrebbe potuto essere e non era; di tutto quello che desiderava, e non era, e il suo vuoto era grigio; grigio come un’assenza, come certi asfalti che non portano in nessun luogo.
In un angolo della tela, mise una serie di macchie viola, schiacciando il pennello carico di colore, e torcendolo, girandolo, fino a fargli lasciare una spirale sprofondante, come sentiva ogni suo passo.
Si chiese, fermandosi, come, avrebbe potuto dipingere la speranza; il suo desiderio di essere, ed amare, ed andare oltre l’orizzonte. Come avrebbe potuto dipingere tutto il bello che voleva dare.
Si chiese come poteva, colorare quello che dentro di sé aveva, di più segreto e dolce, e arreso, e vulnerabile.
Guardò quello che aveva sino ad allora dipinto, e gli parve bruttissimo. Un orrendo pozzo di ulcerato tempo buttato via.
Prese la tela, la mise accanto al proprio volto, davanti ad uno specchio, ed ebbe pena, di sé.
Aprì la finestra, e buttò via quella tela; c’era vento forte, quel giorno, e la tela volò via, oltre il suo sguardo, sperdendosi, certamente, tra le nuvole nere e basse di quel giorno.
L’uomo, non sapeva dipingere, ma sapeva di voler cercare, solo i colori belli.
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Il bambino sapeva, che nel salone delle poltrone di velluto rosso e oro, non si poteva entrare.
Non si poteva entrare mai, per non disordinare la stanza riservata ad accogliere gli ospiti; anche se poi, in realtà, il bambino non vedeva mai arrivare nessuno, che non fosse appartenente alla sua famiglia. Ma, dopo l’Immacolata, era ancor più proibito, entrare nel salone.
Sul grande tavolo di marmo del salone, erano poggiati tutti i dolci che la nonna, con l’aiuto delle sue figlie, le zie del bambino, aveva preparato per le Feste. E i dolci, potevano essere mangiati solo quando venivano portati in tavola, dagli adulti, nonostante il loro profumo, riempisse il corridoio antistante la sala, e facesse venir voglia di aprire quella porta sempre chiusa.
La nonna aveva preparato i taralli dolci, grandi, ricoperti di una glassa di zucchero bianco sulla superficie. E aveva preparato le cozze; certi ravioloni dolci, ripieni di marmellata d’uva e mosto cotto. E poi aveva preparato gli scagliozzi: biscotti grossolanamente romboidali, di cacao e pinoli e cannella, immersi poi nella cioccolata calda e liquida che li ricopriva interamente, solidificandosi, per lasciare tracce dolci sulle dita e proteggere l’interno morbido. E poi c’erano i porceddhuzzi, che erano piccoli gnocchetti di pasta fatta con olio d’oliva e succo d’arancia spremuta; fritti e poi ripassati nel miele caldo, e poi ammassati su grandi piatti, dove venivano cosparsi di mandorle, pinoli, qualche pezzetto di cioccolata nera, fondentissima, riportata dai figli, gli zii del bambino, tornati dalle caserme dell’Esercito, o impiegati nelle Ferrovie.
Ma il bambino sapeva anche, che se fosse riuscito a svegliarsi tanto presto, al mattino, prima che qualcuno fosse pronto per uscire e prendere la barca e andare a pesca – certe volte a dicembre, il mare permetteva d’uscire, perché era piatto come d’estate, ma più scuro e fondo e denso – avrebbe potuto, al buio e in silenzio, riuscire ad entrare, non visto, nel salone, e prendere un paio di dolci, e poi nascondersi negli sgabuzzini in cima alle scale che davano sul terrazzo e, finalmente, mangiarseli, di nascosto, lentamente, come se tutto quel dolce, permettesse di rubare carezze alla nonna, alle zie, al tempo piovoso, e al sole che calava già a primo pomeriggio.
E mentre mangiava, al buio, dietro una porta chiusa, il bambino cercava di spiegare, alla Befana, e a Babbo Natale, e ai Re Magi, e a Gesù Bambino, che, in fondo, non stava comportandosi poi così male.
I dolci, erano fatti per esser mangiati, ed erano buonissimi, e prenderli, era un modo per dire alla nonna, e alle zie, che erano bravissime, a fare i dolci. E le ringraziava sempre, quando finiva di leccarsi le dita, sorridendo, convinto d’aver rabbonito Babbo Natale, e la Befana, e Gesù Bambino e i Re Magi, di cui non ricordava mai bene tutti i nomi.
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Voleva sentire freddo.
Per questo, la sera, uscì sul balcone di casa, con indosso solo un pigiama.
La luna era, per metà illuminata, ma senza calore; dalla bocca, il fiato gli usciva, in piccoli sbuffi di vapore grigiastro. Le mani s’erano ingelidite, e sentiva vuoto nello stomaco.
Sulla strada, vide due gatti che camminavano fianco a fianco, sfiorandosi; le loro code, erano intrecciate, simili ai viticci di un’uva, e parevano parlarsi e sussultare insieme, come le mani di due diversi pianisti, nel medesimo tempo sulla tastiera, per suonare un’unica melodia.
Allora, iniziò a sentirsi meglio, nel freddo. Più sveglio, più lucido; sentiva il proprio respiro battere, regolare, e forte.
I due gatti scomparvero, dietro un angolo. Per lui però i due gatti s’erano arrampicati sui tetti di qualche palazzo, perché, ovunque guardasse, la luna proiettava, sulla strade e sulle pareti degli edifici, un’ombra di code intrecciate, fino a formare, talora, un cuore stilizzato.
Voleva sentire freddo, quella sera, ma era bastato che due creature mostrassero che il vero freddo si sente da soli, per fargli venir voglia di cercare qualche mano da tenere, camminando.
E andò a vestirsi per uscire, e sognare d’essere al fianco della donna cui pensava sempre.
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Uscì di casa, a notte fitta ancora. In cielo non c’erano comete da inseguire, e neppure stelle a guidare un cammino.
Ma a lui, bastava andare. Lasciarsi indietro il sonno e i sogni.
Di notte, il mondo, in larga parte, dimentica gli umani, e lui era tra i dimenticati e per questo, andava a prendersi le luci che gli altri, a quell’ora, non vedevano.
Le luci di negozi e luminarie, rimaste sole, a notte. Ma per quanta luce rubasse, non riusciva, a ricordarsi di sé. A illuminare qualcosa di sé.
E allora, decise di lasciarsi perdere. Si stese su una panchina vuota, raggomitolandosi per non far fuggire il calore, e decise di aspettare che una fata lo portasse via, dalle inutili luci rubate e dal buio.
Che una fata lo portasse via.
Come se potesse chiedere al mattino, di arrivare subito, a notte fitta ancora; come se lui potesse ancora chiedere qualcosa e qualcuno lo ascoltasse.
Era bello, ascoltare il proprio respiro al buio, con le mani chiuse, per non far fuggire le luci rubate, sveglio, per non esser più ingannato dai sogni.
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Certe volte, nevicava fitto; talmente fitto che i fiocchi di neve, sembravano portar luce loro, dentro la notte, e turbinavano, veloci e brevi, per posarsi poi, sul terreno, verde, d’erba falsa.
Dentro la bufera, un omino vestito poveramente, di stracci rattoppati, e grosse scarpe di cuoio slabbrate, sembrava attendere qualcuno, e si guardava nervosamente intorno, come se, da un momento all’altro, placato il furore della neve, qualcuno potesse comparire ai suoi occhi.
Apparve, finalmente, una damina bionda, col suo ombrellino aperto, che pareva guardarsi intorno, come se fosse la prima volta nel mondo, che i suoi occhi aspettassero d’incontrare altri occhi.
L’omino si strinse nel suo cappottino liso, ed iniziò a camminare verso la damina; teneva con sé, in una bisaccia, due pani dolci, che avrebbe voluto insieme a lei consumare. Ma non riusciva, ad avvicinarsi a lei, che, da lontano gli sorrideva.
Sembrava che un vetro trasparente gli impedisse di andare avanti, come se fosse prigioniero di una bolla di sapone.
In casa, la palla di vetro, dov’era l’omino, venne posta sul risvolto di un camino, e quella dov’era la damina, sul crinale di una credenza.
Da lontano, l’omino vedeva la damina, senza mai poterla raggiungere.
La damina, aveva smesso di sorridere, e, in un momento in cui, forse i fari d’un auto, illuminavano, da oltre le finestre, la stanza buia, s’accorse che l’omino, per farle l’unico regalo possibile, aveva preso i due pani, ed improvvisato per lei, una danza gitana.
Forse, la notte di Natale, le due palle di vetro, sarebbero davvero diventate bolle di sapone, che s’incontrano volando, più leggere dell’aria, ad un dito dal soffitto, e le loro pareti evaporate, come un soffio di neve ghiacciata e polverosa.
E forse, la damina, e l’omino, insieme avrebbero ballato, coi loro pani dolci.
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Costruiva una capanna, da bambino.
Due, tre, cinque coperte stese tra due sedie, che, poi, finivano con lo sprofondare, piano, al centro, come un tetto affossato.
E lui, sotto, se le ritrovava tutte sulla testa, e l’unico modo di respirare, era alzare un braccio, come fosse un palo di centro, e formare una piccola cupola d’aria.
Finiva sempre col mettere la testa fuori dalle coperte, per non sentirsi oppresso e soffocato.
Allora, bisognava cambiare sogno, e immaginare di dormire in una pianura fredda e spazzata dal vento. Allo scoperto e senza protezioni. Coi sensi tesi, per avvertire qualunque rumore sospetto, ed essere pronto a lottare per salvarsi.
Ma sapeva, che l’unica salvezza arrivava dal mattino, dalla luce che lo accarezzava, dai sogni che diventavano veri.
E allora iniziava a contare il tempo che lo separava dall’alba.
I numeri, infiniti, che lo separavano dall’alba. E ricontava, sempre, da capo. Avvolto nelle coperte, pieno di paura, e di certezza, che il sole sarebbe tornato, a vincere la notte.
Uno, due, tre, quattro, cinquantaquattro…
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S’era sempre chiesto, come potesse nascere l’Amore.
Aveva sempre immaginato che l’Amore avesse una forza sua. Incontrare gli occhi di una persona, poteva essere la stessa scintilla che rompeva, con le gemme, le scorze d’albero a Primavera. Possono le mani, che si tengono lontane, fermare la Primavera ?
Non v’è forza razionale o scudo.
La linfa corre nelle vene, e la vita risorge. Nonostante Inverno, o bruciare di roghi di streghe.
Una speciale abilità occorre, per accorgersi degli occhi che ci guardano, anche quando facciamo finta di non guardarli. Ma se, per ventura, ci si accorga, allora Amore si spande come un mare di marea, e oltrepassa tutti gli orizzonti prima conosciuti. E ci culla con le sue onde. Non ricordavamo più, come fosse essere cullati e avvolti di braccia e volti e petto. E lo riscopriamo, come se fosse la prima volta, però. La prima volta di milioni di prime volte.
Gli amanti blu di Chagall, volano, con le ali leggere del loro amore che vince ogni peso, e li solleva oltre il cielo, fin dove si può toccare il celeste.
Quanto può essere forte, Amore, che vince la gravità e vince le cose gravi, perché si può pensare all’amata, anche mentre si vuole solo restare vivi.
Quando Amore nasce, non chiede nulla, mentre vuole tutto. Il solo limite dell’Amore, è l’Amore dell’altro. Il limite che solo accetta Amore, è il limite che insieme si sceglie, e dentro quella scelta, cresce tutto l’Amore del mondo, e cresce libero, e s’arrampica sugli alberi e vola con le farfalle, perché è fragile, anche quando è fortissimo.
Amore nasce da una mancanza; da una mancanza profonda e nascosta. Succede quando ci neghiamo sempre la debolezza e la voglia d’arrenderci e trovare accoglienza senza giudizio. Pensiamo d’essere forti e tutto sostenere, e in verità più di tutti, d’Amore abbiamo bisogno. Pure quando ce lo neghiamo.
Nasce tra le difficoltà, l’Amore, e non dà pace. Ma solo una corsa continua, senza fatica mai, in direzione dell’altro. È la felicità dell’altro, il desiderio unico dell’Amore.
Perché la felicità dell’altro, è la propria.
Aveva finito col capire, dopo tanto chiedersi, che non sarebbe riuscito mai, a raccontare Amore con le parole.
Amore, avrebbe trovato le parole per nascere.
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S’era trovato un rifugio.
Aveva visto una grotta, la cui entrata era nascosta dietro un grande cespuglio di ginepro che la notte fredda aveva coperto di gocce di gelo pallido, trasparente.
Era scivolato all’interno della grotta, sfiorando le pietre bagnate che contornavano l’entrata, stretta e bassa.
L’odore, all’interno, sapeva di terra bagnata e funghi notturni e di vuoto.
Vide un angolo libero, tra le rocce, dove forse avrebbe potuto riscaldarsi un po’, e andò a stendersi lì.
Guardava dritto verso l’ingresso della grotta, per potersi subito accorgere d’essere stato scoperto, e prepararsi a difendersi, e respirava piano, comunque, per non farsi sentire dall’esterno.
Avrebbe voluto rotolarsi nella terra, per assumerne le stesso odore, e sviare la caccia, forse.
Ma non riusciva a muoversi bene.
Gli facevano male i muscoli, per la lunga corsa, e la sua ferita, sanguinava, senza riuscire a rimarginarsi.
Il sangue era rosso, profondo, e usciva dalla ferita a piccoli intervalli regolari; ad ogni battito del suo cuore.
Il lupo la leccava, per provare a fermarne il flusso, senza riuscirci, e sentiva in gola il sapore ferroso del proprio sangue.
Forse stavolta non sarebbe riuscito a tornare nel branco; forse stavolta, la sua compagna, una lupa grigia bellissima, avrebbe invano chiamato la luna, per ritrovarlo.
Dentro la grotta, dal soffitto, parevano essersi staccati migliaia di insetti luminosi, che volavano, spargendo scintille dorate.
Il lupo guardava quella nuvola che si muoveva incerta, e gli pareva di vederci dentro un lupetto che giocava con gli altri cuccioli del branco, e poi, un lupo giovane, che correva sul fianco verde di una collina, insieme ad una lupa grigia, più bella di una fonte limpida e fresca.
E poi gli insetti sparirono, e tornò buio entro la grotta.
Il lupo sentiva ululati lontani, e chiuse gli occhi, poggiando il muso tra le proprie zampe anteriori.
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C’era un treno fermo, in una vecchia stazione, su un binario morto.
Uno di quei treni con i sedili di legno lucido, levigato da decenni di sudore, sigarette, e storie che, per un attimo s’incrociano, per poi perdersi nel mattino.
Nel treno, un uomo, avvolto nelle coperte, aspettava l’alba.
Immaginava d’essere in partenza, per una località lontana, magari all’estero. Immaginava di scendere ad una stazione lontana, magari in una città di mare. Immaginava che ci fosse qualcuno, ad aspettarlo.
Respirava piano, per non consumare tutto il freddo che aveva intorno e il suo fiato, era una nuvoletta di vapore breve, che subito si sperdeva nel buio, lasciandolo ancora più solo.
Ogni tanto, dagli occhi, gli scendevano lacrime bruciate, mentre si sforzava di sorridere, perché ancora aveva in bocca il dolce di una caramella, che qualcuno aveva dimenticato sul bancone di in bar.
Non era sicuro, di quel che stava sentendo, ma il treno pareva scuotersi, e staccarsi dal suo riposo, all’inizio con difficoltà, sobbalzi, e partire poi.
Fuori dal finestrino gli alberi si muovevano, sempre piu velocemente, persino dei palazzi intorno, e i sedili facevano il rumore di una folla festante.
L’uomo cercò di capire cosa stesse accadendo; il treno si muoveva, ma aveva smesso, d’improvviso, di far rumore; sembrava essersi staccato dalle rotaie, e volare, tra le stelle rimaste a sfidare il mattino, e l’orizzonte che iniziava a diventare rosa.
Guardava fuori dal finestrino senza capire bene cosa stesse succedendo.
Una mano, sembrava portarlo via, dal mondo conosciuto, per buttarlo in cielo, come un tiro di dadi senza fortuna.
Avrebbe voluto scendere dal treno. Ma sembrava impossibile; era troppo in alto, troppo velocemente correva.
Non aveva paura.
Il treno avrebbe potuto svoltare verso la notte, e farlo sprofondare in un buio senza tregua, o poggiarlo delicatamente sotto un vischio.
L’uomo chiuse gli occhi, e si strinse nelle coperte, irrigidite dal freddo.
Nessuno lo guardava e nessuno gli avrebbe portato un biglietto d’auguri per il Natale, ed il treno sarebbe arrivato comunque alla sua destinazione finale.
Perciò l’uomo continuava ad immaginare, che avrebbe trovato qualcuno, ad aspettarlo, e sentiva più caldo.
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I ragazzi giocavano a pallone nel piccolo campetto. Si davano la voce. Chiedevano di passare la palla. Esultavano, al momento del gol, quando la palla gonfiava la rete delle porte.
Certe volte, la palla usciva dal campo, e urtava rumorosamente le pareti del prefabbricato, entro cui era stata trasferita la chiesa, in attesa di riparare l’edificio a fianco, dai danni del sisma.
Si celebrava, proprio in quel momento, una funzione religiosa in chiesa: un funerale.
Dall’interno, nei silenzi della funzione, s’ascoltavano le grida gioiose dei ragazzi, e veniva alla mente la bellezza del vivere, che contrastava il dolore della perdita.
S’onora la perdita, proprio celebrando il vivere, e l’amore, nel vivere.
Altrimenti è uno spreco vivere.
Quando uscì il feretro, seguito dalla folla dei partecipante all’officio funebre, il sacerdote guardò i ragazzi con un occhio di benevolo rimprovero.
Un uomo, uscito dalla chiesa, entrò nel campetto. I ragazzi lo guardavano, col lieve timore che fosse arrabbiato.
L’uomo, in silenzio, arrivò alla palla, la tolse dai piedi d’un centravanti biondo, e prese a correre, palla al piede, fino quasi ad una porta e calciò, con forza.
La palla s’infilò proprio all’incrocio dei pali.
Allora l’uomo guardò il cielo.
E, sorridendo, salutò.
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Al polso, portava un orologio meccanico molto particolare, ritrovato per caso nella soffitta polverosa della sua abitazione, dentro una vecchia bottiglia vuota, di grappa balcanica.
Sembrava funzionare bene, ed essere puntuale, in un primo momento.
Poi invece, aveva preso ad essere sempre fermo.
Nonostante avesse sempre cura di dargli la carica; nonostante più volte l’avesse portato a riparare, da orologiai sempre più bravi…e costosi.
Una mattina, al mercato, vide un piccolo chiosco mobile, in legno, sulle cui pareti, s’avvisava, che lì si riparavano orologi.
All’interno, c’era un vecchino magro, dai lunghi e disordinati capelli bianchi; portava, poggiati sulla punta del naso, leggermente aquilino, occhiali dalle lenti molto spesse.
Consegnò a lui, il suo orologio fermo, con la speranza che potesse aggiustarlo e farlo ripartire.
Il vecchino passò una intera giornata a guardare l’orologio; a smontarlo e rimontarlo.
Il mattino dopo, il vecchino era riuscito a comprendere il problema.
Si trattava di un orologio molto raro, che, se indossato da una persona perdutamente innamorata, decideva di segnare il tempo, solo nei momenti in cui il suo amore trovava risposta.
Per questo, l’orologio restava fermo; perché il tempo senza amore corrisposto, semplicemente, non esiste.
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Il bambino aprì la finestra sul buio del mattino. Aveva leggermente nevicato e i tetti delle case sembravano grandi fette di torta, la cui superficie era cosparsa di zucchero a velo.
Fu preso allora il bimbo, da una forte euforia, e il battito del suo cuore, prese a rimbombargli nelle orecchie. A piedi nudi, attento a non fare nessun rumore e senza accendere nessuna luce, per non svegliare i genitori, il bambino si diresse verso la cucina della propria casa; lì, a fianco al camino, la mamma aveva posto l’albero di Natale, decorato con palle di vetro, tutte rosse, dalle forme tutte diverse, l’una dall’altra, e festoni d’argento antico.
S’aspettava di trovare i regali che aveva sognato. Una bicicletta, per correre fino a casa della sua amichetta dagli occhi scuri scuri e sorridenti; e un pallone di cuoio, per giocare a calcio con gli amici, nel campetto sterrato dietro la scuola.
Ma, sotto l’albero, non vedeva nessuna ombra diversa dal solito. Chiuse allora la porta della cucina, ed accese la luce e, davvero, sotto l’albero non c’era nulla. Andò ad infilare la testa dentro il camino spento, e cercò di guardare dentro la canna fumaria; magari Babbo Natale aveva voluto lasciar cadere lì, dal tetto, i regali, ma questi erano troppo grandi ed erano rimasti incastrati senza poter scendere.
Nel camino, c’era solo odore di cenere legnosa e mattoni anneriti.
Al bimbo sembrò che tutto il mondo avesse perso ogni colore e musica. E sentì una lacrima affacciarsi da un angolo degli occhi.
Poi però, il suo sguardo cadde su un calendario appeso al muro, e, pensandoci un momento, s’accorse che ancora non era trascorsa la notte di Natale; era ancora il mattino del 24 dicembre.
C’era ancora un giorno da trascorrere, prima di vedere se Babbo Natale avesse esaudito i suoi desideri.
Si sentì sollevato, e più leggero. Ma, allo stesso tempo, comprese che poteva pensare ai propri giorni, senza i regali che desiderava ed aspettava, e allora si sentì anche triste.
Era cresciuto un po’, quel mattino sbagliato: non aveva ricevuto i regali che s’aspettava, ed aveva iniziato a pensare che, dalla sua amichetta, poteva anche correre a piedi, e coi suoi amici avrebbe potuto giocare anche con un pallone di plastica.
E però, aveva un giorno ancora, per immaginare e sperare che Babbo Natale si fosse ricordato di lui, e di tutte le lettere che gli aveva scritto, lungo quell’ultimo anno, cercando sempre, d’essere più buono e migliore.
Gli venne fame.
Prese un biscotto, e, prima di metterlo in bocca, aprì di nuovo la finestra sul buio del mattino non ancora arrivato, e ne sbriciolò un po’ sul davanzale.
Forse qualche passero, o un pettirosso, avrebbe potuto far colazione con lui.
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Anche quel mattino era andato, qualche minuto prima delle 8, alla fermata del bus, che prendeva abitualmente, anche se non era giornata di scuola, ma uno dei giorni di mezzo, alle festività di fine anno.
Sperava di vederla arrivare, col suo zaino nero e gli occhiali; proprio come la vedeva ogni mattino di scuola. E se fosse arrivata, ora che il cielo era azzurro profondo e le montagne imbiancate, di certo, lui avrebbe avuto il coraggio di fermarla, e chiederle se volesse ascoltare un po’ della musica che aveva scaricato sul proprio cellulare.
Così, per iniziare a parlare; per immaginare che certamente avrebbero avuto molto da dirsi, come se, dentro una folla infinita di una grande piazza di mercato, in una città straniera, solo loro due parlassero la stessa lingua e potessero capirsi.
E lei arrivò.
E lui non fu capace di avvicinarsi.
La vide arrivare, sicura di sé, come sempre, e come sempre salire sul bus senza cercarlo con gli occhi, immersa forse in pensieri suoi, cui lui non poteva bussare.
Lui restò a terra, a guardarla andar via, e a sognare che un giorno lei s’accorgesse, dei suoi occhi che la pregavano.
Dal lunotto posteriore del bus, gli parve di vederla, rivolta a guardare indietro, verso di lui; gli parve addirittura che il suo braccio destro accennasse ad un movimento di saluto.
Se il traffico di quasi fine anno,lo avesse aiutato, poteva correre, e riuscire ad arrivare alla fermata successiva del bus, e salirci sopra.
Anche se aveva dimenticato il proprio abbonamento a casa.
E corse, senza inciampare.
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Aveva una tradizione tutta sua, per i giorni di fine anno.
Non importava, se fosse caldo, o freddo; se piovesse o fosse burrasca.
Lui arrivava fino al mare, appena dopo il grande Lido chiuso, e iniziava a camminare, a piedi nudi, dove le onde arrivate dal mare, si immergevano dentro la sabbia e le conchiglie.
Certi passi, camminavano poco oltre il confine dell’acqua; altri, affondavano dentro la risacca, e, per un istante, s’empivano di schiuma.
Camminava per un tratto molto lungo di costa, perché cercava un giocattolo perduto da bambino. Una barchetta di legno dipinto, rosso porpora e bianca, con una vela latina. L’aveva lasciata, un giorno d’estate, proprio sul confine, tra terra e mare, come fosse un oggetto ordinario del vivere; qualcosa che potesse essere sostituito con un qualunque altro materiale.
Ed era scomparsa. Forse portata via dalla voglia di raggiungere l’orizzonte.
E s’era accorto, solo dopo averla smarrita, quante rotte con lei aveva percorso, e quanti tesori avrebbe potuto inseguire ancora, guidato dalle stelle amiche e dalla luna paziente.
E, da allora; da lunghi e lunghi anni anni, ogni fine dicembre trovava un giorno, per andare a camminare sulla riva del mare, a piedi nudi, coi pantaloni un po’ alzati sui polpacci, e le scarpe infilate in uno zainetto legato alle spalle.
E ogni anno, cercava davvero. Come se davvero fosse possibile ritrovare quel che aveva perduto.
Non si sarebbe stancato mai, di cercare la sua barchetta. Non avrebbe smesso mai, d’immaginare di poter ancora giocare con lei e oltrepassare l’isola del faro e il golfo, e arrivare al mare aperto, dove finalmente farsi portare via dalla corrente, fino al mare oceano, magari.
Sentiva freddo, e i piedi gli facevano male. Ma andava avanti.
E andò avanti sino quasi al buio. Senza trovare nulla.
E mentre sull’asfalto rimetteva le calze e le scarpe, pensava però, che la sua barca, ovunque fosse, potesse sentire, con quanta devozione la cercasse.
E fu sicuro che l’avrebbe ritrovata, un giorno vicino, di fine dicembre.
Solo allora, il sole avrebbe avuto il permesso di tramontare.
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Dapprima, comparve una palla, che non sapeva dove rotolare.
Poi, in un cielo azzurrissimo, comparve un aquilone, con la sua lunga coda colorata, volante. Sembrava non avere fili, che da terra lo governassero.
E vicino ad un albero, s’intrecciarono alcune corde, per formare un’altalena.
E sotto l’albero, apparve un prato verde, di fiori gialli e rossi e blu, e di tutte le sfumature di tutti i colori pensato nel mondo.
E farfalle, con le ali più colorate di un arcobaleno.
E, finalmente, apparve una bambina bionda, che giocava, ridendo.
Il bambino, terminò così, il suo disegno, realizzato sul muro esterno di un edificio quasi distrutto e pericolante.
Si allontanò qualche passo, per guardare tutto insieme il disegno grande che aveva fatto, e poi sedette in terra, incrociando le gambe.
Ed iniziò ad aspettare che la bimba arrivasse.
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Era sera inoltrata, buio ormai, e l’uomo era seduto sulla sabbia, a gambe incrociate, da solo, e guardava il mare davanti a sé.
Era difficile, distinguere la linea d’orizzonte. Il cielo senza luna, sembrava sfiorare, ed abbracciarsi al mare scuro come il vino, senza lasciar distinguere l’aria dall’acqua libera e senza coste intorno. Ed in più, potevano intravedersi, ed immaginarsi, grandi nuvole nere, colme d’umido e pioggia, che poggiavano esattamente sul confine del mondo, scurendolo, come un infinito tunnel di dolore, senza mai luce in fondo.
L’uomo guardava l’acqua quasi immobile, di una bonaccia inattesa d’inizio anno. I pescatori erano sicuri poter partire, a notte, col mare buono, fin dove le terre potevano solo ricordarsi, o immaginarsi.
E sull’acqua, galleggiavano scintille delle lontane luci di terra, e parevano un fuoco di parole innamorate, da percorrere per arrivare fino alle labbra di un’amata inventata.
L’uomo s’era allontanato da tutte le feste del Capodanno, sicuro che nessuno avrebbe lamentato la sua assenza.
Ed era ora dinanzi al mare, solo per respirarne qualche storia capace di fargli immaginare d’esistere.
Nel buio, gli sembrò di vedere, lontano, l’emergere di un dorso marino leggero e veloce; un delfino sotto costa, forse.
O magari una sirena che cantava felicità irraggiungibili.
L’uomo disegnò una candela sulla sabbia, e poi soffiò sulla fiamma, cancellandola.
Ringraziò il dio del mare Scuotiterra, per poter ancora sognare tesori nascosti nei suoi fondali, e andò via.
Un refolo di vento, cancellò dalla sabbia ogni sua impronta.
Nessuno, era stato lì.
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Era nel mezzo di una radura, in un bosco.
La luce filtrava tra i rami, e le foglie, portata dal vento, polveroso, e poteva contare i raggi di sole, tra gli alberi.
Si muoveva lentamente, e allargava le braccia, e roteava su sé stesso, e provava ad alzare l’aria verso l’alto, e ai suoi lati. Sembrava voler allargare lo spazio intorno a sé, come se si sentisse oppresso dal vuoto, e chiuso, e cercasse aria; aria di cui aveva disperato bisogno.
Si fermò, un istante, e riaprì gli occhi, e guardò verso il cielo.
Sotto le nuvole, e tra le nuvole, c’era uno squarcio d’arcobaleno; una pietra d’angolo che serrava il cielo, coi colori di un sogno delicato.
Allora tese un braccio, verso l’arcobaleno, ed iniziò una pioggia leggerissima; impalpabili coriandoli d’acqua rossa, e indaco, e gialla, che gli illuminavano la mano, aperta ora, come per raccogliere un dono.
Sentiva nelle orecchie un rumore sordo, e profondo, di cielo che si apriva.
Respirava, e piangeva, e rideva.
Sentiva d’essere il buffone di corte del cielo; quello di cui si ride per dimenticare la notte, e allora riprese a muoversi, velocemente ora, come in un ballo meccanico, sgraziato, spezzettato.
Ridicolo.
Come un appuntamento mai dato.
E immaginava che anche gli alberi ridessero di lui, nel vento, polveroso.
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Il bambino guardava fuori dalla finestra della sua stanza.
La città era lontana; il parco giochi non si vedeva; il cavallino della sua giostra, forse correva libero tra i prati morbidi dell’inverno.
Allora, il bambino, immaginò che la neve cadesse. E immaginò le strisce bianche e grigie che avrebbe visto, per il vento oblique, oltre il vetro. E le immaginava talmente fitte, da oscurare ogni cosa intorno, e farla scomparire, piano, nel bianco del ghiaccio e della nebbia.
Di fronte al grigio della sua stanza solitaria,
il bambino, per un attimo, si sentì addosso una carezza calda.
Aveva scoperto come, anche solo per un istante, con la propria fantasia, potesse cambiare il mondo.
Sorrise, e strinse i denti
Perché voleva proprio cambiarlo il mondo.
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Dentro la sua stanza, il bambino aveva tra le mani dei carboncini, neri neri. Tutti neri.
Era solo.
Ed iniziò a disegnare ombre sulle pareti.
E disegnò un drago, e poi disegnò un cavallo, neri, tutti neri.
E fuori dalla sua stanza, in cielo, si disegnò un drago coloratissimo, e oltre la sua finestra, sui fianchi della collina, appena fuori dal bosco, vide un bellissimo cavallo bianco che correva, libero.
E non avevano ombra.
La loro ombra era sulle pareti della stanza del bambino.
Allora il bambino disegnò, sulle pareti della stanza, la propria ombra, e la sua ombra nera, saliva sul cavallo nero e correva con lui, e poi volava tra le case della città, in groppa al drago nero.
Il bambino guardava la propria ombra sulle pareti, e s’accorse di qualcosa che mancava.
I colori, gli mancavano i colori, pensò, guardando le proprie mani nere di carboncino.
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Il bambino prese della terra, rossa e argillosa, un pugno per volta, e la buttò nel grande secchio di metallo, col quale il nonno mungeva le mucche, quand’era il loro tempo.
Sul fondo del secchio, aveva posto, prima, un po’ d’acqua, e, ad ogni manata di terra, con un bastone trovato nei campi, rimestava nel secchio, per sciogliere la terra in un fango, progressivamente sempre più duro.
E con quella terra, voleva poi costruirsi in guscio, che lo proteggesse.
Dal buio vuoto e dalla paura piena; dai ganci di ferro e dai sassi che sbucciavano le ginocchia; dai rimproveri e dalle delusioni.
Dalle bugie.
Il bambino voleva essere una lumaca disarmata, ma capace di difendersi; d’avere scudo contro chi avrebbe potuto schiacciarlo.
Sarebbe stato solo, nel suo guscio di terra cruda e seccata da un sole che sarebbe arrivato, ma almeno, nessuno lo avrebbe ferito.
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Quella sera, aveva deciso d’andare al cinema, da solo.
Veniva eccezionalmente proiettata, una delle tante versioni della tragedia di Shakespeare “Romeo e Giulietta”.
In sala non c’erano altri spettatori.
La vecchia pellicola in bianco e nero, ad un certo punto, gli sembrò, fosse leggermente fuori sincrono. Giulietta infatti, prima di rispondere a Romeo, sembrava sempre avere una sorta di indecisione, come se s’aspettasse che Romeo avesse altro da dirgli, e, poi, la voce di Romeo, sembrava scomparire in un brusio indistinto, come se, in realtà, le parole della tragedia non fossero più sufficienti.
Allora, lui, in sala, iniziò a parlare ad alta voce, quando sarebbe toccato a Romeo, dire i versi che raccontavano il suo amore per Giulietta, e Giulietta pareva rispondergli davvero, senza più esitazioni.
E allora lui cercò di raccontarle di ogni suo pensiero che le dedicava, sin dal giorno in cui era nato e anche senza conoscerla; e dei suoi sogni notturni, che lei colorava; e del dialogo muto, e costante, con lei, quand’erano lontani, e del tempo, che quando senza lei scorreva, pareva scavargli dentro una fossa così profonda e buia, che mai, ne sarebbe risalito.
Ma mentre il film procedeva, lui, in sala, decise di cambiarne trama e di dirle perciò che il loro amore, poteva sopravvivere: all’odio dei parenti, e persino alla morte non voluta del cugino di Rosalina (Giulietta) Tebaldo, pur se per sua stessa mano, e infine al veleno, il loro amore avrebbe potuto sopravvivere, se solo avessero avuto pazienza, nell’aspettare l’uno il risveglio dell’altra.
Avrebbero potuto ancora esserci giorni di meravigliosa bellezza e abbandono, perché si stavano parlando, e ascoltando, e soprattutto, stavano comprendendo l’innocenza del loro amore, nonostante tutto il mondo fuori sembrasse volerli cancellare.
La vecchia pellicola terminava, mostrando Romeo e Giulietta che, mano nella mano, uscivano insieme dalla cripta, mai più sepolti, ma vivi e innamorati, immersi in un’alba luminosa e potente.
Lui, uscì dal cinema, felice, per quell’amore non finito.
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Era all’interno dell’Orangerie, a Parigi.
E dai legni sottili delle cornici, gli pareva di sentire odore di agrume antico.
Camminava per le sale, dove erano esposte le grandi opere regalate alla Francia da Monet.
Camminava senza fermarsi, ma percorrendo continuamente il perimetro delle mura di ciascuna stanza, e da una stanza all’altra, a fianco sempre delle opere del pittore.
Camminando, gli pareva di sentire il rumore placido dell’acqua, e il vento, che accarezzava dolcemente le foglie, e le abbracciava, in un ballo breve, ed intenso, e subito ripetuto, e ancora.
E gli pareva di respirare il profumo dei fiori impudichi, e dell’erba libera, e del laghetto bagnato di ninfee.
E ai suoi occhi, i colori, e le forme, e la luce, continuamente mutavano e mai poteva dirsi d’aver visto, nello stesso luogo, la stessa impressione. Come se il mondo continuamente si rinnovasse; come un amore saziato mai.
E lì, nella dolcezza inquieta di quelle tele, ne comprendeva la ricerca di pace, e il tentativo di ristoro, dopo la tempesta della Prima Guerra, che il pittore aveva offerto ai sopravvissuti e alle sopravvissute, alla violenza.
E lui, capì, perché era lì: per cercare pace.
Solo pace.
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Nuotava in una piccola piscina naturale.
Un grande scoglio lasciava aperti solo due piccoli corridoi d’acqua che, dal mare aperto, entravano nella minuscola insenatura, quasi del tutto chiusa e riparata, dove il mare in burrasca fuori, era solo leggermente increspato dentro.
Nuotava al fianco di lei, e non poteva fare a meno di guardarla, quando aveva la testa sott’acqua. Il suo corpo pareva scavare le onde e dargli forma di donna e di luna, e scaldava, l’acqua che, dietro le sue bracciate, lasciava una scia d’aria e schiuma bianche, profumate di dolcissima sirena.
Era così bello esserle a fianco, che lui si convinse, in un istante, che in alcun modo il suo cuore avrebbe potuto battere più felice.
E allora, decise di curvare, e risalire il corridoio d’acqua, verso il mare in tempesta.
Perché nessuna forza di mare, o di terra, o di cielo, avrebbe mai potuto fargli male, mentre era così completo, e innamorato.
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Camminava nel bosco, senza una direzione precisa. Ascoltava le foglie secche sotto i piedi, e guardava il muschio verde sui faggi, e le pietre, nude, emergere dalla terra come resti di antiche città popolate da giganti.
Lasciava vagare i propri pensieri.
Era troppo tempo, che non le diceva quanto l’amasse, e camminare solo, sperdendosi, lo aiutava a cercare parole, nuove, per dirlo.
Ma non riusciva, ad afferrare quel filo che, sentiva, galleggiare invisibile nell’aria, proprio davanti a sé. Come se, d’improvviso, ogni battito del suo cuore, fosse incerto del prossimo.
Poi, s’accorse che certi pezzetti di cielo, erano celesti come un’acqua riflessa nel suo sorriso. E, fermandosi, vide le foglie degli alberi muoversi, e gli uccelli cantare, e sotto certi rami, vedeva la corteccia accennare ad aprirsi, per lasciar passare il sole. E s’accorse poi che le gocce di pioggia, rade, profumavano di vento e nuvole d’oriente e di sabbia e seta.
Sentiva respirare il mondo, e comprese allora che non avrebbe trovato parole nuove, ma avrebbe dovuto trovare il modo per farle comprendere che lui poteva respirare, solo amandola.
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Era seduto su uno scalino d’ingresso alla sua casa, liscio, consumato ormai da oltre cento anni di passi. Guardava la strada di fronte a sé, e contava il numero delle auto che passavano.
Dieci, di dieci, di dieci.
Aveva voglia di stare un po’ solo, a pensare alle luci viste sul mare, con lei, la notte prima, dall’alto delle mura della città vecchia.
S’accorse che, a poca distanza dal portone, sul marciapiede, c’era un gatto, seduto, che lo guardava, attento.
Pareva cercare il suo sguardo, e quando lo incontrava, per un istante, girava immediatamente il capo, e dava cenno di muoversi, come per invitarlo ad essere seguito.
Allora s’alzò, e con lui il gatto, che prese a camminare, voltandosi, ogni tanto, e miagolando, per assicurarsi che lui lo seguisse.
Arrivò fino agli scogli, appena sotto il vecchio ospedale, ormai in disuso, e al buio da tanto tempo.
Il gatto di fermò sul bordo delle onde, e, proprio sotto il felino, lui vide galleggiare le stesse luci ch’erano sul mare la notte prima, con lei; blu, e rosse, lattiginose, delicate come ali di farfalla, pur se tutto intorno era buio, e tra le luci, come una musica di polvere che volteggiasse nell’acqua, gli sembrò di scorgere il volto di lei, che gli chiedeva di seguirlo.
Si tuffò, dentro il buio, senza esitare un istante.
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Ascoltava quella voce, nel vento.
Quella voce che proprio a lui, parlava, e gli raccontava della dolcezza passata, e del futuro che ancor più dolce, sarebbe stato, insieme.
Sembrava che quella voce, come una musica potente, entrata dalle orecchie, fosse ascoltata dal sangue tutto, che la faceva correre lungo il corpo e lo sfrenava, lo torceva di tremiti e di tentativi d’inseguirla, nell’aria.
Era come un sogno cattivo, in cui sembrava di cadere in un profondissimo pozzo d’acqua nera, senza luna, e s’aveva, a pochissima distanza, un appiglio solido cui aggrapparsi, ma non lo si riuscisse a raggiungere, per quanti sforzi si facessero, mentre ci si sentiva trascinare giù.
S’accorse, allora, d’essere legato, con cordame marinaro e nodi stretti e invincibili, ad un alto palo di legno solido, che non poteva esser piegato o divelto e, nella nebbia, intravedeva altre figure umane, chine, ed immerse in uno sforzo fisico pesante, che non comprendeva, e da cui si sentiva lontano.
Quella voce, era capace d’evocare il profumo della pelle, e la sensazione fresca di poterla sfiorare, e carezzare, e baciare, e non era possibile, resisterle.
Tutto il corpo si sfibrava e feriva, nel tentativo d’uscire dalle corde, e il sangue si mischiava col sudore salato dello sforzo.
Non poteva combattere Ulisse, la sirena, e l’avrebbe seguita sin oltre il confine del mare.
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Era strano, il sogno che aveva fatto.
Si trovava all’interno di una cioccolateria, ed era solo. Il negozio era illuminato pur se non si scorgevano lampadari o altre fonti di luce elettrica. Sembrava che la luce scaturisse da ogni oggetto posto all’interno del negozio, sui cui scaffali, erano esposte centinaia di diverse praline, ciascuna dai gusti più profondi e buoni.
E tra tutte quelle possibilità di dolcezza non riusciva a decidere quella cui avvicinarsi. Il tempo che scorreva nell’incertezza, nel sogno – dove poteva durare anche un infinitesimo di secondo – lo allontanava però dai cioccolatini; conosciuto il gusto di ciascuno, immediatamente immaginava che potesse essercene un altro più stimolante e cercava ancora, sempre più disilluso però, di poter trovare il cioccolatino perfetto che immaginava lo aspettasse.
L’incertezza e l’attesa durarono finché, nel sogno, egli sentì la certezza che nessuno di quei dolci, lì solo per lui, poteva avvicinarlo alle emozioni che stava cercando.
E aprì gli occhi, con la sensazione d’aver perso un’occasione unica, per poter incontrare il gusto perfetto che desiderava.
Nella sua cucina, aprì un cassetto, e sotto degli strofinacci, trovò un incarto, che conteneva un pezzetto di cioccolata. Non riusciva ad immaginare come potesse trovarsi lì. Era certo di non aver comprato cioccolata da tanto tempo. Ed era certo che nessuno potesse essergli entrato in casa, ed essere sparito, dopo aver solo nascosto un cioccolatino dentro in cassetto.
Aprì l’incarto, e portò il cioccolato alla bocca.
Sapeva di vaniglia e mare calmo; di alba a primavera e latte di mandorla; di fondente e treni notturni; aveva un leggero profumo di limone e castagne e sapeva anche di orzata e coriandoli che volavano nell’aria.
Gli venne addosso una voglia urgente d’incontrare chi gli aveva lasciato quella cioccolata nel cassetto, come un’offerta inattesa d’incontro, e per questo, si svegliò davvero, e s’alzò dal letto, di corsa.
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La mamma gli diceva sempre di non tenersi addosso le cose bagnate.
Lui sudava ogni volta che giocava; qualsiasi gioco facesse, certe volte, persino solo giocare a respirare.
Canottiera, mutande, maglietta, calzini, tutto sudato. E il sudore gli faceva uno strano effetto: sentiva caldo, ma, nel contempo, se un pezzetto di cotone bagnato, dopo essere stato un momento lontano dalla sua pelle, gli tornasse d’improvviso addosso, magari per uno sbuffo di vento, allora sentiva gelarsi il corpo, come se avesse messo la testa sotto l’acqua della fontanella nel giardinetto.
La mamma temeva si raffreddasse, o peggio. Lui, temeva solo quel gelo momentaneo, che gli lasciava le pelle illividita e scoperta. Gli sembrava quasi che quel freddo gli bucasse la pelle e arrivasse direttamente ai polmoni, e sapeva, che se il freddo fosse arrivato ai polmoni, si sarebbe certamente ammalato; magari come certi ragazzini protagonisti di certi romanzi che aveva letto.
Lui provava, ad ascoltare le raccomandazioni della mamma, ma spesso questo, avrebbe significato rinunciare al gioco successivo, per tornare a casa e cambiarsi, ed ascoltare magari i rimproveri della mamma che avrebbe voluto lui non si riducesse ad un pulcino bagnato. Ed allora decideva di continuare a giocare, fino a sentirsi una torcia di calore gelido.
Il ragazzo aveva anche finito col pensare che, se si fosse ammalato un po’, avrebbe magari potuto leggere di più, solo nel letto della sua stanzetta. E allora giocava.
Sfidava sé stesso e le preoccupazioni della madre.
Ma questo succedeva solo perché il ragazzo era guarito da un problema cardiaco, e aveva potuto ricominciare a correre, e sudare, giocare, col permesso dei medici che, prima, lo avevano fermato.
E lui non voleva più fermarsi.
Era protetto da un angelo che aveva convinto a restare con lui, sulla Terra.
E allora voleva giocare, perché solo così avrebbe continuato ad essere vivo.
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