Avevo una valigia chiusa nella mia testa
dentro: ci conservavo vasche da bagno
e docce senza pareti e
odori sudati di mare.
E ci avevo piegato dentro
fragole e amarene colte appena dall’estate
e anche biscotti da dividere;
con nessuno, avevo da dividere biscotti.
C’era posto per le sirene
che m’avrebbero ingannato
fino al fondo del mare
e anche per ciottoli di pietra camminati.
L’ho perduta, quella valigia stracolma
e non la cerco più.
Ma posso viaggiare,
nei pensieri che sono solo miei
e raccogliere ancora,
i cristalli di neve tra gli aghi di alberi fitti
e nel loro cielo sciogliermi.
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Sto bene nel mio garage;
seduto su uno scalino sporco
a leggere le mie lacrime di musica.
Sto bene, da solo,
con una una chitarra che non ho
e col mondo che gira senza me.
Sto bene, sotto il tetto rotto
purché piova;
purché le parole mi portino luce.
Sto bene, tra carte e dolore,
a urlare la mia rabbia
alle pareti nude.
Sto bene.
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Ho visto la luce tagliare il monte
lasciandone i fianchi in ombra, e al sole
la cima nuda.
L’unico tempo che ancora posso avere.
E ho sentito il freddo scendere
dal cielo oscurato
come un pensiero felice strappato via.
Allora ho corso
lungo il ciglio d’un rivo secco
e pietroso di polvere e erba piegata
verso un’acqua lontana
che m’accolga il nuoto
e il ritorno.
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La sento, la voce del vento
appena oltre le pareti,
e ne immagino le carezze al mare
che s’alza di onde dolci.
Lo sento, il vento,
appena oltre il mio giorno,
portare la mia notte senza sogni, e non posso fermarlo.
La sento, la voce del vento imprimermi,
sulla pelle,
le parole che non oso scrivere,
le uniche,
che il vento non porterà con sé.
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Tutte queste stelle
stese nel buio,
sono qui ad aspettare
che le onde di tempo
mi scavino dentro e
mi riducano a sabbia
di castello per bimbi che giocano.
Mi piovono addosso ora
la loro luce di speranza muta
e sola, e lontana;
fili di notturna ragnatela
agli occhi, pari a notte.
Dietro la finestra
il caldo lieve di una stanza vuota
lusinga
il gelo del mio mare fondo
e sperso.
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Quanta fibra, si torce, e si strappa,
allo spezzare del tronco vitale d’un albero felice ?
Quanta linfa, essuda lacrime, e sangue, dalle vene,
mentre è piegato, verso terra asfissiata ?
Quanto tremore, fin nelle radici,
mentre dal cielo scompare e perde l’ombra ?
E quando ne resta un lembo, ancora non separato
che insieme tiene, ancora il vivere.
Non c’è misura,
di questo dolore.
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Scava la ruggine,
entro il guardamano
a protezione delle scale,
come se presentisse di più non poter
reggere il peso della salita
sulla spina alta del molo che
in terra, è di doppio tavellone spiovente
stretto tra i bordi di tufo dritto,
per lasciar scorrere il mare di maestrale, lì,
dove sempre cammino
guardando in terra,
per non scivolare e giungere
fin sulla prora della umana protezione
dalle correnti furiose
d’onde merlate, e potenti.
È stato lì
che un giorno
ho raccontato a un gabbiano il mio amore
e l’ho scritto,
tra scaglie d’antiche conchiglie e sale;
più profondo del pescaggio d’ogni nave
più accogliente d’ogni vela
più indifeso d’ogni faticato remo
e nessun vento, o sole aspro
l’ha scolorato e sperso.
Ed era lì,
ad ogni mio sguardo ancora e
ad ogni ritorno
tra i letti d’ulivo e le chiese
che lo guardano,
l’amore mio
che le supera nel tempo.
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Cammino, in piedi su una sedia
per rimettere la luna
dentro un mezzo mandarino,
sbucciato,
e respirare acqua fredda
che mi svegli da questa infinita notte
appesa al cielo e
su di me gravida.
Mi aspetto dolcezza,
da un giorno che non viene
ancora
e tiepidi farsi
i miei muscoli lacerati,
Cammino e vado
ad accendere ogni luce
d’agrume profumata, e
dimenticata.
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In silenzio, le nuvole coprono
il manto nudo del cielo
e so che luce mi sia nascosta.
È l’ultima luce che dà vita ai passi
ed è la luce che inventa
ogni preghiera.
È la luce che da forma all’ombra e
rompe, il silenzio, e ogni silenzio.
È la sola luce che posso seguire
sul mare nero e infinitamente
fondo e custode
di mille rotte mai compiute
e come gli eroi di bronzo
nel cuore ho solo
il ritorno.
E il domani nuovo.
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Questo compatto muro di grigio e nebbia
raschia via dal mondo colori
e lanterne,
e non si sgretola, tra le mie dita e
le tradisce,
sfuggendogli attraverso;
ad ogni tentativo d’aprire un passo
o un incontro.
Neppure soffiare, giova,
ché dal fiato n’esce grigio più ancora
di sigarette e disilluse parole
e cuore tagliato.
S’aspetta vento
che pulisca la strada
e ritrovi angoli dove nascondersi.
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Ho perso il conto
di quante volte non ho passeggiato con te.
E non ho mai toccato le nuvole
con te e mi sono sfuggite
mentre m’eri vicina.
Quanti errori ho fatto,
con te, cercando di non sbagliare mai.
Ho bevuto mari d’acqua
senza placare mai
di te la sete.
E non me lo ricordo
ogni volta che ho raccolto le tue parole
per imparare e senza le tue parole
non mi ricordo più nulla.
Non ho mai fatto i conti
di quante finestre hai aperto
con la tua luce.
L’ho solo respirata.
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Sei a metà, luna, in cielo,
come me ai margini del mare.
Non ho le scarpe,
su questi scogli nudi
di coltelli che il sale lucenta.
Non ho un cappotto
d’antica lana, che mi scaldi
contro la tramontana di pianure aggelate.
E nemmeno ho i fiori della primavera
coi loro progetti di colore
raggomitolati e soli nell’attesa.
E forse di me, non ho neanche metà di mille metà,
senza domani da scrivere.
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Vita, mi dai,
nel guardarti, cielo indifferente
che colmi la terra di foglie
cadute, come passi che mai più suoneranno
su strade che non cammino.
E mi dai respiro, cielo indifferente,
che mi chiudi il petto e lo stomaco
ad ogni pensiero.
Neanche chiudendo gli occhi, e
serrando le labbra, smetti di darmi luce
e solo io, so perché cammino sotto di te.
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Giocolieri di strade perse e
acrobati senza fili di ragnatela
camminano, in corteo,
lungo una via di periferia geometrica,
seguiti, da leonesse mansuete e
elefanti innamorati e ballerine volanti.
C’è musica,
di serenata, sotto le finestre chiuse
e le lune appese agli alberi
e tutti ballano
come se fosse
una festa di novembre.
Sulla faccia, ho lasciato
la mia nera maschera senza volto
e mi proteggo dalla notte
con un mantello buio e il tricorno.
Mi segue, la sfilata
del mio spettacolo,
che non so dedicarti.
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A piedi nudi
ho camminato nella terra,
zuccherata, di freddo notturno.
La vulnerabilità della pelle mia
non m’ha distolto dal cammino,
che fino alla cima dell’acqua, dove nasce,
voglio portare.
Ho la gola sgretolata, dalla sete
e nulla, pure, desidero bere
sino alla fine del silenzio
che mi taglia.
Due gazze, misere nere,
si sfioravano vicine, a capo chino,
e poi di me avvertite, in cielo,
cercarono rifugio e nel loro volare
s’aprivano i cespi dei semi bianchi stellati
delle piante povere, di prato e sparsi
cadevano, come pensieri
in cerca d’abbraccio
mentre luce rompeva scura aria
in attesa di pioggia.
Non più mi proteggo
dall’assalto del vivere.
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Sapore farinoso e di dolce bruciato
una castagna come un bacio morbido
e infinito.
Il calore tra le dita ne sento
ed è necessità di respiro
che illumini le stelle e
scenda la luna
fino di domani all’alba.
E il profumo di legna viva
mi permette di aggrapparmi a domani.
Domani esisterai.
Per me.
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Ancora un chiarore leggerissimo marca ovest,
appena dietro monti lontani
di cui non conosco strade
o nomi, o curve,
e notte scende, veloce, tra le mie pagine.
Una mano, vorrei sentire,
che prenda il mio silenzio e
lo muti
in ascolto, del tremore degli alberi
e del candore degli occhi.
E invece annotta,
come un catrame che coli s’una finestra
e mi chiuda
dentro una terra fredda.
Per questo,
m’aggrappo al cuore
che mi darà un’alba.
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Dovrebbe ricordarsi, questo tempo futuro,
per come s’era immaginato,
anche quando non se ne riconosca il volto.
Può essersi solo nudi, al freddo
e svagati,
senza più per sé interesse
eppure ancora coi piedi,
in terra senza cicatrici.
Devesi guardare il cielo,
di traverso dai semi pronti a volare
di un’erba tenace
e guardare i suoi fiori crescere
anche mentre s’aspetta la pioggia
che righi il volto riflesso,
sfumato,
nel vetro d’una finestra chiusa e buia.
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A te notte, direi.
Lasciami dormire.
Dammi un abbaiare di cane lontano
e il vento delle foglie inquiete d’un albero.
Dammi le luci veloci di fari altrove,
che striscino il muro, riconoscendolo.
Dammi le pagine di un libro
scritto per la donna che s’ama e
dammi notte una mano
sulla mia pelle nuda.
E ti direi notte,
di chiudermi gli occhi
sinché non hai un giorno nuovo
da regalarmi.
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Ci fossero fiori blu, adesso,
tra le dita, ti crescerebbero
sulla pietra anche e
a notte, s’aprirebbero,
come lucciole che scrivono
tenue e unica luce.
Ci fossero frutti dolci ora,
sugli alberi nudi,
tra le dita, ti lascerebbero
sapore sacro di infinita stagione
d’amore e colorerebbero
ogni grigio giorno d’inverno.
Ora fiorisci tu
e basti per tutto.
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S’impolverano gli occhi
in questo cielo senza luce
e s’accendono, per annaspare
in cerca di ricovero.
Le mani scansano
gli strappi d’un sipario
che non vuole aprirsi
della propria felicità, timoroso.
Dall’ombra, può essersi tratti
solo chiudendo, oltre gli specchi,
il senso di colpa, d’esser vivi
ancora e piacere desiderare.
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Il primo grido d’uomo,
appena in luce,
di gioia, doveva essere,
e di dolore che brucia il respiro.
Le mani cercano eterno amore
e le gambe annaspano
senza terra
da percorrere insieme.
Nudo e sanguinante
come un fuoco che cerca legna e colori
per dipingere un mondo
inventato da noi
e spegnere mai.
Sarà eguale,
l’ultimo, perché mai
finisce la fame
di terreno amore.
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Sanato
resto ombra
sotto queste nuvole ostili
che mi privano del sole mio.
E mi divincolo allora,
da ogni macchia e cenere
del mio sangue e respiro
il dolore persino
e vado avanti
come erba tenace tra mura.
T’avro’ negli occhi
ancora sole mio.
E avrò primavera.
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Ho un altro giorno di tempo
per il sole dei miei occhi
di papavero e
un altro giorno di tempo mi è dato
per raccogliere parole
sotto il cielo di una luna calante.
Ho un giorno ancora,
per ascoltare storie di vento
che mi scaldino il fuoco e
posso avere un altro giorno
per pensare a te.
E non esiste più, il tempo.
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Trafigge la nebbia
con mille aghi d’assenza.
Un passero cerca sotto un ramo
il calore del proprio cuore
che batte e non vola
senza un sole
che restituisca
colori agli occhi chiusi.
Aspetta si sollevi il velo
che snuda alberi neri
e porti per mano
i saltelli di danza piccoli
alla gioia attesa
come un intoccabile confine di mare.
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La tonda lama di luna sorgente
ricorda al buio che c’è luce
oltre il deserto del silenzio vuoto
e persino lascia stelle
a tremare lontano,
ma ascoltabili, le loro storie
di tempi profondi e inauditi
e meno solo
è il cuore mio scalzo.
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Sentire il mare desidero;
il suo fragore celeste di burrasca
libera, che mi faccia i pensieri nuotare
senza timore di gorghi
e rocce nere
ed empia,
il vuoto delle braccia mie asciutte.
E non desidero
restare protetto a riva.
Portato via,
come un’alga strappata dal fondo
e lasciata sulla rena
per i giochi d’un bimbo.
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Per chiarirmi
questa mia notte cieca,
ho cercato la luna,
e ho potuto scorgerla,
velata di nubi ventose
veloci e stringenti.
Notturna farfalla
avrei voluto essere,
per traversare il freddo e
seguire la luce.
E m’hanno tagliato le ali
e solo i miei occhi,
volano.
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Ho visto corrermi nel cuore,
il sangue, e mandare lampi di lava rossa,
e di celeste cielo
e gialle lacrime e
nero d’assenza mentre
oltre la finestra la città scorre
disordinata magari felice,
da me lontana.
E il sangue mio ho visto poi
annuvolare la luna
che ad un angolo
m’ha dato appuntamento
per farmi nascere
senza tagliare
di umano tremante
il cordone che ancora respiro.
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Io lo so
che le mie parole cadono
sulla sabbia di mare e
restano, da nessuno ascoltate,
tra morti gusci e pietra erosa.
So, che sono silenzio
le mie parole senza vento
e onde, e si fermano,
prima ancora delle sbarre
di una finestra chiusa.
Mi intestardisco a dire
per non sentirmi
sommerso
e muto, come se la mia rivolta
voce avesse, o senso.
Io so,
che solo me aspetta,
il fondo del mare scuro
per questo nuoto
e ancora nuoto
finché io non abbia più
paura, del silenzio che abito.
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Di alberi sradicati
ha odore la mia attesa
fuori le rotaie, appena,
d’ogni volo che mi viaggia oltre.
Le vene strappate dei miei rami
sono a terra
in attesa che siano raccolte
e perse, mai più.
Verrà l’erba alta gialla del grano
e i rossi papaveri
a colorare il cielo
e non ci sarà direzione nell’andare
se non verso ogni mancato appuntamento.
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Vorrei dirti,
che ho solo bisogno di altro tempo
perché non mi sono accorto,
ch’ero vivo.
Perché vorrei
mettere i piedi in una pozzanghera nuda
e specchiarmi nel mio cielo di periferia
illuminata.
Altri giorni e ore e anni
per sentire il cuore correre
e placarsi
sotto una luna disegnata.
Vorrei dirti,
che altro tempo nuovo
ho nel sangue rimasto,
da voler impastare
nuovi grani, e semi
di marzo caldo.
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Ero in basso
lungo la strada senza immaginazione
e, tra le mura d’ospedale e gli specchi,
t’ho persa,
luna di dicembre,
calda
come una vecchia foto d’innamorati uniti.
Lievi scintille di braci lontane
rade, sguardavano la sera assente,
e m’ardevano dentro,
senza mai diventare cenere,
per quanto ti cercassi nel vento
luna
che non tramonti mai e
fai volare le montagne.
Camminavo
un tempo senza memoria,
per trovarti luna,
sperso,
e t’avevo nel cuore.
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Guardalo
il grumo tuo di dolore e colpa
confitto nella terra come un puntello,
stringe la chiesa ferita dei tuoi pensieri
e il legno corroso accosto alla pietra
diviene groviglio.
Finisce col dimenticare la luce
che filtra dalle assi e dalle sdruciture
dei muri oppressi.
Scompare
il luogo della preghiera,
ma tu guardalo
perché il grumo si scioglie se
t’accorgi di quanto buono in te
resta nascosto
perché non sei quel grumo aspro
ma il celeste che hai in petto.
Crolla, l’impalcatura fradicia
messa lì a impedire il respiro,
che sanare il dolore merita.
E non è colpa essere vivi
né mai lo è stata
per gli scampati alle scosse del sisma
serpente indifferente.
Ancora poter camminare permette
d’onorare il perduto e inventare il nuovo.
Solo scoprire nuove lune
alimenta i fiori di prato
c’hanno i colori della memoria,
e il calore d’una vita che cresce,
anche sul bordo d’un parcheggio
perché il nascere sia sempre, e sempre
ha diritto di nascere la libertà che abbiamo.
La libertà è errore
e dell’errore ponte, verso verità
più nude e brucianti.
Vive, il cuore,
libero sotto il tuo grumo,
che sciogliere non è colpa.
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Mi brucio
e mi sgraffio e
ho i lividi, e i miei muscoli
sono innervati di dolore stradale.
E scelgo, di farmi quanto più
male posso
per annegare di dolore
il dolore.
Nessuno sa
quanto vetroso sia
rampicarmi sui muri di cinzione
e rubare sguardi al cielo.
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Aspetto che il vento riparta
e mi scuota le gambe
e le illusioni mie
porti via,
come una mano
che spazzi via tutto
dal tavolo di colazione.
Aspetto il rumore del vento
che incontri il mio vuoto silenzio
e lo traversi scuotendone
la solitudine violenta.
Apro le braccia
al vento buio,
che mi porti via,
al modo di un ramo strappato,
e mi perda
e che si perda
quel niente che sono.
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Brucia, nella bocca
ogni singolo respiro
e non ho voce
che sappia chiedere aiuto
e quanto vuoto
m’innerva le braccia
e le mani nude,
e senza sonno
e senza amore
mi verso acqua sugli occhi
accesi, che tentano il buio.
Ora so
che non avrò alba.
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Questo sole
indifferente al mio respiro affannato
non mi scalda,
del freddo della notte e
non mi restituisce
la mia faccia nello specchio
che guardo piegata
mentre cade,
il mondo e nessuno lo salva.
Dei raggi celesti
non posso avere nulla
solo l’immobilità ignota.
Ti prego
di darmi giorno, e domani,
io ti prego.
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Sono le lacrime,
a separarmi dalla pioggia.
Quella batte continua, e potente,
sulle tegole che mi proteggono;
le lacrime scivolano lente
nei solchi delle mie rughe e
bruciano gli occhi che,
a notte, non possono guardare.
Non mi respirano le lacrime
mentre l’acqua di cielo apre fiumi
e scava strade che vanno al mare.
La gola mi stringe la sete,
e ogni goccia, vorrei contare,
per arrivare vicino a comprendere
il peso del dolore.
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Cielo
quanto bisogno hai, d’una qualsiasi luna e
quante spiagge lasci da te cadere,
e per ogni grano di sabbia t’amerei
come mai t’hanno amato
perché sentirmi il cuore battere
è come guardare un cavallo
libero che corre per ogni
immaginata strada
e mio cielo,
quanto dolore mi dà il tuo freddo indifferente
e di inesausta alba l’attesa,
senza respiro.
Non ho niente, cielo,
e quanta voglia ho
d’essere niente
purché tra le nuvole delle braccia tue
aperte
a me solo.
Non riesco più a camminare
perché mi hai schiacciato, cielo.
Almeno salva me.
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Su un ramo invernale
un pettirosso
guardava arrivare il tramonto;
in petto aveva il colore del sangue mio,
come le nuvole ad occidente e
immaginava la prossima alba
di primavera dolce
mentre il freddo
spegneva le luci dei lampioni
e raspava la terra
fino alle radici di pietra dura
e silenzio soffocante.
Non c’era rifugio al buio;
nemmeno il desiderio di non essere solo.
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Ho perso la strada
e di nascosto a capo basso
lo scopro
e di me ho vergogna
e dentro un quaderno,
con la copertina nera,
ricordo ogni mattina
senza tramonto per me.
E neppure posso
dire la verità su me
e sul dolore
che infinito mi sanguina,
perché neppure ombra
sono e non sposto foglie camminando
e nessuno si volta a guardarmi.
La strada mi ha perso
e mi appresto alla notte.
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Ogni onda di mare ascolto
lasciare sulla rena
scintille di luna calante
che addolciscono la tramontana secca
di spuma lontana e gabbiani
e bottiglie piene di luce
e preghiere d’aiuto.
Sulla pelle m’incidono a sangue
d’una farfalla le ali
perfette
come il seno desiderato
e non mi brucia
il loro sale di neve
ch’empie gli scogli trafitti.
Sono lacrime
d’acqua innamorata
che si sperde stanotte
e chiedo solo
di non più sanguinare ancora,
in una stanza di pena
senza più vele al vento.
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Come si scioglie tra le dita,
la cioccolata,
per un calore imprevisto del sangue,
così le mie ginocchia al tuo nome.
Sento il profumo pulito di vaniglia,
bianca,
che ha dolcezza del sole
e mi sgocciola addosso,
tornandomi bambino frettoloso
e colpevole.
Ma non c’è peccato
nel desiderare dolcezza
proprio mentre s’è snudata la pelle e
soffre,
ogni paura e ogni incanto.
Un passero apre un’ala a protezione
del sogno di un nido.
=======================================================================
Con una vecchia spina,
bucata, di pesce grande,
e un rotolo di rafia gialla,
ho preso a ricucire il mare.
Insieme volevo fermare le onde,
e tra loro unirle,
perché s’alzassero a mareggiata
potente
e mi sommergessero tutto quanto sono.
Ma m’è sfuggita, la trama dell’acqua
e ho solo potuto capire
dei miei sogni
ogni sbaglio.
=======================================================================
Al mare, mi sono accostato oggi
senz’osare guardarlo
e neppure avvicinarmi.
Col capo chino alla sua immensa luce
di cielo terrestre,
timoroso,
di turbarne il rinascere delle onde.
Eppure avrei voluto
sommergermi del suo dolce muoversi infinito
e toccarne il fondale e imparare
il suo respiro e i passi.
Avrei voluto ascoltarne la musica
e le parole e i singhiozzi.
Era in ginocchio, la mia anima,
davanti al mare.
=======================================================================
Vorrei cercarti
per spostare i sassi dalla strada
e sedere poi insieme,
sotto un albero, appena un tempo prima
che fiorisca.
E sempre ti cercherei,
per aprire le porte alla luna
e insieme guardare oltre il mare.
E di cercarti, smetterei,
se liberarmi potessi d’ogni pensiero mio,
che cercarti vorrebbe ad ogni angolo,
e ali non ha abbastanza.
=======================================================================
Oscilla, la notte che affonda il sole
oltre mari che non posso accendere
e tira ogni mia corda al vuoto,
anche quando m’aggrappo
ad esili fili di luce stellata.
Accenderei fuochi
col mio sangue sfuggito e
le mani, terrei aperte
anche alle ragioni che non conosco.
Ma la luce è scesa alle radici
e io posso solo sfiorare
i rami cupi
fin quando da gemme trafitti.
=======================================================================
È come me sospeso, il cielo
incerto, se dal vento trarre acqua
e neve, oppure
tenermi addosso il gelo del vuoto
mio e restare asciutto, di lacrime
deserto e secco.
Tenta il sole d’aprire luce
e non riesce
e ad ogni suo tentativo risponde
un cane nero che mi spaura
d’assenza.
Si chiude, sulle cime dei monti,
l’oscillare fioco dei rami aperti,
senza abbraccio e calore
a rispondere
e scivola il giorno
in un silenzio ronzante
che solo attende
un’altra notte.
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Riparami dal freddo
crescimi intorno e ricoprimi
allarga le tue braccia,
contro il sole e il vento,
portami via dalla pioggia e
nutrimi
e scopri, che io esista,
perché mi immagini.
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Di tutti i frutti restati sull’albero,
d’uno solo sentivo il profumo:
era una goccia di velluto
volata dall’ali d’una farfalla
e caduta su una gemma di zucchero verde.
D’uno solo guardavo la pelle
ch’era ancora fiore
per restarne le dita impregnate
e felici.
D’uno solo carezzavo le foglie intorno
ricoperte di cielo e vento.
Era il solo frutto a me lontano.
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Ero piegato sulla luna
di una pozza in terra,
e la guardavo galleggiare
sui miei pensieri caduti.
Ondeggiava dolce, col vento,
e aveva luce sull’asfalto stanco, intorno,
come se una polvere di sorrisi antichi
ritrovasse parole e dialogo
e compagnia e aiuto.
Le ruote di un’auto
l’hanno fatta tramontare,
schizzandomela sulle dita,
aperte ancora,
per sfiorarla,
e viaggiare dentro le sue maree
e vincere della notte, la fame di grigio buio.
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Mi sento tanto buio
oltre la finestra
e non c’è ombra di fari
che m’illumini
mentre cado
senza arrivare mai
al cielo.
E sento anche il freddo
delle parole perse
che gelano,
i ciclamini dimenticati.
Per questo,
apro i vetri e m’empio
della musica che mi resta
e so
che resisto.
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Nascondimi il buio in me
e dammi vento
che porti i semi
in una terra da fiorire.
E dai luce
alla mia ombra anche
che m’avverte
del mio tremare.
E apri le mie mani al volo
che solo tra le tue
il cielo può vincere
e la terra pesante
Di darmi voce
ti prego
per imparare dalla tua.
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Camminare vorrei
sporgendomi da un monte
e lasciando,
che siano le nuvole
a trattenermi dal rovinare.
Un vapore di leggero sogno
e colori
che mi restituisca il cuore
che altrove batte.
E camminare vorrei
sentendomi tenuto
per mano.
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Lo chiederei, alla notte, persino,
di portarmi per mano
sino al letto dei fiori e dell’acqua;
lo chiederei, alla notte,
di farmi visitare da parole di mare.
Ma nessuna risposta, mi aspetto.
Nulla che dal tetto mi porti
una luce di luna radente,
sugli alberi, e sul mio respiro rotto;
nulla, che mi dia calore alle labbra
e nulla che rompa il velo
sui miei occhi calato.
Eppure chiederei.
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È facile, chiudere gli occhi
e col sonno murare i mari di memoria
e giocarsi la sorte che non saranno sogni
ad afferrare il tarassaco nel vento.
È facile ancora rannicchiarsi
e farsi di coperte scudo al buio
e abituarsi, al proprio respiro
di paura tisico, e vetroso.
Ed è facile infine rassegnarsi
a cogliere i lumi spenti di luce
e per essi conoscere un mondo nero
che da soli s’attraversa ciechi.
E di tutto quello che è facile
quasi nulla, riconosco mio.
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Era solo una macchia d’inchiostro
su un muro scrostato
d’una parete monca e senza finestre;
un’ ombra sfrangiata
come un riflesso d’ali di farfalla
in una pozza di neve scaldata.
Ma aveva il sogno grande d’una luce
che gli cancellasse il buio dintorno
e la staccasse dalla pietra
per farla camminare su un’erba
già di primavera.
E anche senza mai un sole
d’aspettare
non cessava, per una sola foglia di tempo,
perché anche la sola attesa
pareva colore.
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M’ha portato via il giorno
questa sera acida.
E non ho la cenere d’un fuoco,
per cercare la luna
e per sentirmi i pensieri
come polvere di vento
scorrere via col tempo.
Ad occhi chiusi
tocco le vene del legno
e ne sento l’inverno che
luce mi toglie
e non ha sapore il buio.
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Ho diciassette secondi
per raccogliere i miei passi andati
e ordinarli,
in una abbandonata cava di tufo
che ancora racconta
il mare che era e l’ombra
di conchiglie senza più colore
e guardarli,
inutili passi in tondo
senza più direzione.
Li conto
mentre veloci girano
e si sperdono
i miei granelli di unico tempo
sbriciolati, tra le dita,
calpestati,
come una strada che non percorro più.
E mi restano però nel sangue,
marchiato a fuoco.
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Vorrei conoscere lingue straniere
per dire verità solo mie
e non disturbare
ordinati pensieri rassegnati.
Mi basterebbe, graffiare l’aria
e alimentare braci
di rosso notturno.
Non ci sarebbero comunque,
passi sullo zerbino
e nessuno ascolta
le mie parole di nebbia
e delle mie braccia il caldo.
Vorrei solo saper tirare sassi al cielo
e dimenticare le bugie.
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Volevo nascondermi
al rumore dei gatti innamorati
e del mare che cerca la luna.
Volevo scomparire
dagli occhi del vento
e dagli specchi.
Volevo correre
oltre il muro intorno alla città
oltre le pareti delle mie ferite.
Ma non ho trovato riparo
dalle mie preghiere di attenzione
dal mio bisogno d’essere accolto.
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Come un tronco tagliato
stanno le mie parole mute.
Abbattute tra sassi spersi e
foglie d’altra stagione.
Ne resta una corteccia secca
aspra e senza carezze,
bruciata,
prima ancora del fuoco,
e i rami estirpati ancora al cielo
pregano,
senza risposta.
Forse un vento
le semina,
forse in una feconda terra,
forse mai.
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