Nel 1994, trenta anni fa, entrava in vigore il Decreto Legislativo 626, riguardante la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Nessuno ne celebra oggi la promulgazione.
Dopo vari rimaneggiamenti successivi, è divenuta una di quelle tante Leggi italiane, che stabiliscono principi importanti, e che poi vengono sistematicamente ignorate, nella pratica quotidiana, fino addirittura a scomparire dalle lenti di chi dovrebbe controllare; fino a far tacciare di ideologia persecutoria un magistrato, che vorrebbe farle applicare.
Nel caso di questa Legge, i datori di lavoro, dopo essersi lamentati della sua presunta onerosità, e della farragginosità degli adempimenti, ne hanno trasformato l’applicazione reale, in una serie di documentazioni formali, talvolta lontane dal descrivere e intervenire sulla effettiva situazione aziendale, pronte però, ed utili per essere esibite su richiesta, pur se nella concreta pratica lavorativa, trovano nulla, o scarsissima applicazione. Nel caso di questa Legge, Lavoratori, e Rappresentanti dei Lavoratori – lì dove si può avere rappresentanza dei Lavoratori, cioè in una quota assolutamente minoritaria delle imprese presenti nel nostro Paese – hanno sottovalutato l’impatto che questa Legge avrebbe potuto avere e, troppo spesso, non hanno avuto, e non hanno, la forza di avvicinare il dettato di quanto descritto dalle documentazioni aziendali in materia di adempimenti sulla sicurezza, alla effettiva realtà aziendale.
Nei primi anni di vigenza della Legge, erano previsti corposi corsi di formazione, per tutto il personale dipendente, e anche per i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza: una nuova figura di rappresentanza, che poteva coincidere con la rappresentanza sindacale o con una sua parte ( e che veniva eletta direttamente dai Lavoratori, almeno nel dettato legislativo e negli Accordi Interconfederali successivi ). E per queste specifiche figure, insieme alle analoghe figure di nomina dei Datori di Lavoro, dovevano svolgersi dei corsi di formazione impegnativi, il cui contenuto era in parte riservato direttamente alle Organizzazioni Sindacali, coinvolte nella docenza.
Come docente formatore, più volte, ho tenuto dei corsi su mandato degli Enti Bilaterali tra Associazioni d’Impresa e Associazioni Sindacali.
La platea delle persone che avevo davanti, anche una cinquantina per volta, era composta sia da Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, che da Responsabili Aziendali per la Sicurezza, nominati dalle aziende direttamente interessate.
Nelle mie lezioni, non mi dilungavo nello spiegare ( pur sperando di riuscirci ), le specifiche attribuzioni e compiti riservati ai Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, ma, sistematicamente, cercavo di introdurre un concetto che, per me, oggi, resta ancora essenziale.
Raccontavo un episodio, cui avevo personalmente assistito.
Una mattina, passando per le vie del centro della città, ovviamente prima del 2009, m’era capitato di vedere una squadra di Lavoratori che conoscevo, impegnata nel lavoro delle installazioni telefoniche.
Lungo una strada in forte pendenza, uno di loro era su una scala, senza essere imbragato, a circa quattro metri d’altezza, e lavorava su un filo telefonico esterno ad un edificio. Per seguirne il tracciato, faceva compiere alla scala, poggiata lo ripeto su un terreno sconnesso in pendenza, dei piccoli saltelli, come se fosse un gigantesco paio di trampoli senza equilibrio. I suoi colleghi, non reggevano la scala, ma erano impegnati, a loro volta, in altri lavori.
Io, quel mattino, mi fermai a parlare coi Lavoratori, chiedendo loro di avere attenzione a sé stessi.
Al termine del mio racconto, chiedevo sempre all’uditorio, perché, secondo loro, quei Lavoratori stessero operando in una condizione evidentemente ed immediatamente pericolosa.
La principale preoccupazione dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, in quel periodo in cui la Legge iniziava ad essere applicata, soprattutto tra quelli che non avevano esperienza sindacale e che magari erano stati mandati lì, perché scelti dal proprio datore di lavoro ( pratica assai diffusa nelle imprese dove il Sindacato non era presente ), consisteva nella possibilità legale che, in caso di infortunio sul lavoro, o di malattia professionale, essi fossero considerati responsabili o corresponsabili, in una qualche misura.
Si comprende perciò come, il più delle volte, alla mia domanda nessuno volesse rispondere. E, soprattutto, nessuno volesse dare la risposta che sapeva essere vera.
E’ l’azienda a fissare tempi e modi della produzione; tempi e modi in cui un servizio può essere svolto; è l’azienda a fornire i materiali per lavorare, e per proteggersi da eventuali infortuni; è l’azienda a dover prevedere qualsiasi rischio possibile nel concreto svolgersi del lavoro, e prevenirlo.
Quel Lavoratore metteva a rischio la propria sicurezza, perché era in ritardo col programma di lavori del giorno, stabilito dall’azienda e dai suoi responsabili; e anche perché sapeva che, se avesse dovuto lavorare “in sicurezza”, ci avrebbe messo molto, ma molto più tempo.
Allora io provavo a spiegare che, il vero compito di un Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, avrebbe dovuto essere quello di esaminare, attentamente, e con cura, le varie fasi del processo produttivo, e comunque del lavoro come materialmente si svolgeva, per poter poi discutere con l’Azienda, col coinvolgimento delle Organizzazioni Sindacali, esattamente le concrete forme dell’Organizzazione del Lavoro. Perchè sono quelle forme, in larga parte, ad essere la causa principale d’infortuni, e di morti sul lavoro.
Ma l’Organizzazione del Lavoro, per la quasi totalità delle Aziende, è, e deve essere totalmente sottratta alla discussione sindacale. L’Organizzazione del Lavoro, era, è e, dovrebbe restare, totale prerogativa aziendale.
Se il Sindacato potesse discutere davvero la concreta Organizzazione del Lavoro, potrebbe discutere di carichi e orari di lavoro; di professionalità, e di come si scelga, anche in un Laboratorio di Ricerca, a chi affidare lavori promettenti, capaci magari di consentire crescite professionali e salariali. Un Sindacato potrebbe provare a costruire concrete forme di Organizzazione del Lavoro, che diminuiscano, le forme di alienazione e di sfruttamento.
Dagli anni ‘90 in poi, in Italia, e prima nelle parti più industrializzate del mondo, il sistema delle imprese, ha invece, in larga parte, proceduto lungo una strada che, strutturalmente, rende quasi impossibile discutere di Organizzazione del Lavoro.
Le imprese, a partire da quelle più grandi, hanno analizzato il proprio ciclo produttivo e hanno deciso di trasformare la catena unica, che un tempo conduceva dalla materia prima al prodotto finale, in una sterminata serie di relazioni cliente-fornitore ( con il fornitore da porre sempre in concorrenza con altri fornitori ), tra imprese nuove e diverse, ciascuna delle quali ha preso in carico una parte del processo produttivo, trasformando quella che era prima una semplice fase di un percorso, in una impresa autonoma, cui si chiede di vendere il proprio prodotto/servizio ad un prezzo inferiore a quello che costava precedentemente, e di realizzare, contemporaneamente, un profitto, per finanziarsi.
Questa destrutturazione del sistema delle imprese ( alcune delle quali hanno approfittato di questo processo per delocalizzare completamente alcuni fasi produttive; magari quelle più pericolose, sul piano ambientale e della sicurezza ), si è accompagnata ad un parallelo processo, tanto nell’industria, quanto nei servizi ( per esempio nei supermercati ), che ha visto le imprese studiare forme organizzative nelle quali l’apporto umano fosse, contemporaneamente, minimo e semplificatissimo ( sostituibile da una scimmia, potenzialmente ).
Questa ristrutturazione complessiva del sistema delle imprese, in Italia, e nella parte industrializzata del mondo, è stata operata tutta, in carico alle persone: alle Lavoratrici e ai Lavoratori, per i quali il salario è diminuito, ed è diminuita la quota dei salari nel conteggio della ricchezza di un Paese, E per i quali l’occupazione s’è fatta sempre più frammentata, temporanea, e dotata di diritti solo decrescenti.
Il profitto, spesso reinvestito in rendita finanziaria, e in principeschi compensi per vertici aziendali e consigli d’amministrazione, è invece aumentato, e, per via delle moderne regole economiche, in larga parte sottratto alla tassazione che gli Stati possono operare.
Oggi, una singola impresa, può discutere da pari a pari con uno Stato, o addirittura, con un insieme di Stati, quando discute ad esempio con l’Unione Europea.
In questo quadro, centinaia di migliaia di infortuni sul lavoro in Italia nel 2023, di cui 1041 mortali, potrebbero persino essere letti come numeri ordinari, accettabili.
Lavoratrici e Lavoratori, in Italia, e quasi ovunque nel mondo, non hanno la reale forza di discutere con le imprese la concreta Organizzazione del Lavoro, che un intero sistema globale, chiede orientata al profitto, e non alla sicurezza delle persone che lavorano.
Se tra due persone, una ha la febbre, per quella persona si sono realizzate il 100% di possibilità di contrarre una febbre, anche se, guardando alle due persone, dovremmo dire che il 50% tra loro, è ammalato.
Le statistiche, talvolta, possono essere viste dal lato di chi non è stato coinvolto, in un certo processo; ma quando si è coinvolti, si è totalmente colpiti dalla probabilità che un evento accada.
E, in alcuni casi, questo fa la differenza tra la vita e la morte.
Sul fenomeno degli infortuni, anche mortali, sul lavoro, si può, e si dovrebbe intervenire, su molti piani, ma il più decisivo di tutti, consisterebbe nel rendere complessivamente non più conveniente, per le proprietà, oltre che per le comunità, l’attuale forma organizzativa delle imprese, e del capitale.