In alcuni documentari naturalistici, è possibile vedere immagini che lasciano davvero sconcertati. E inquieti.
Talvolta accade che sia ripresa la caccia di un predatore, e, talvolta, accade che la preda sia a terra, afferrata dal predatore, ma non ancora uccisa. Eppure, la preda non prova a fuggire; non cerca scampo. Attende d’essere uccisa, senza ribellione. Come se fosse consapevole, di quanto le stia accadendo, e rassegnata. Sembra porga il collo al carnefice, per l’ultimo colpo.
Appare una sorta di accettazione di qualcosa che, comunque, in un modo o in un altro, prima o dopo, dovrà comunque avvenire.
Immagini di questo genere, riprendono il corso “naturale” delle cose. Quello che viene mostrato non contiene in sé elementi “morali”; semmai, ci racconta quella “indifferenza” della Natura, di cui scriveva Leopardi. Accade quel che deve accadere, e la vittima, può solo essere vittima; null’altro.
Il pianeta social è colmo di massime, ed indicazioni sul come vivere; sulle scelte che dovrebbero essere compiute; Sulle strade che dovrebbero esser percorse, per l’amore, o la felicità, o qualsiasi altra emozione, sensazione, o sentimento umano.
Talvolta, in contraddizione tra loro.
Ma la Morte, resta un tabù.
Al massimo, nel pianeta social, si ricordano morti illustri, o si annunciano morti contemporanee, talvolta, anche tragicamente, morti di congiunti, o amici, o amiche.
Ma la Morte sembra essere solo una fase della “rappresentabilità” umana: come se la natura umana, e quel che intimamente le accade, sia ormai un nucleo di esistenza di cui non valga curarsi; sulla quale non servono domande o pensieri, essendo l’unico rilievo importante, il modo in cui appariamo all’esterno, persino nell’atto della morte.
Tendenzialmente, ritengo quel che accade nel pianeta social, un riflesso di quel che accade nella realtà quotidiana. In una certa misura, la rappresentazione social ha un nucleo in sé della realtà quotidiana che viviamo, o immaginiamo di vivere.
Il che significa che, della morte, in generale, non facciamo parola con altri. E’ una dimensione che conosciamo solo per i riflessi che la morte di qualcuno vicino a noi riverbera sui nostri sentimenti e sui nostri pensieri. L’esperienza della morte, è solo esperienza della morte di altri.
Quando sarà il nostro momento, sarà una esperienza solo nostra. Indicibile ed incomunicabile, di cui abbiamo terrore, ignoranza e orrore. Dolore.
Chi abbia Fede, può accostarsi al proprio momento finale, forse, con una speranza, ma, credo, in ogni caso, con immenso timore. Anche quando si decida di non ribellarsi, al proprio predatore, ma di lasciare a lui l’incombenza di porre fine al nostro percorso vitale.
In qualche esempio letterario, e, forse, nello spirito, e nella vita di tempi passati, poteva accadere di chiedere alla propria sorte di scegliere un modo “onorevole”, di morire. Per molti uomini, davvero, poteva essere sul campo di battaglia, all’ombra di una qualche bandiera: una morte che, in sé, riassumesse le ragioni di una intera vita e delle sue scelte. Non so immaginare, se una morte così, per chi la subisca, sia capace di dare un senso all’intero vivere.
Ma credo che la morte sia, eminentemente, un fatto “fisico”. La nostra autoconsapevolezza che abbandona sé stessa, perché il proprio corpo non è più in grado di generarla e farla vivere.
E’ facile, rifugiarsi nelle frasi già scritte del pianeta social, o magari di importantissima letteratura o saggistica, o nella educazione che abbiamo ricevuto, per fornire a noi stessi una autorappresentazione del senso del nostro vivere.
E questo può persino consentire di sfuggire ad una questione che a me resta molto pesante da sciogliere.
Se l’ultimo atto del vivere, è, comunque, la morte, a che vale ribellarsi all’eterno vuoto, cercando un qualche senso nel vivere ? Ammesso ne trovassimo qualcuno, esso avrà comunque fine con noi. Dopo di noi, il mare continuerà nei secoli a modellare gli scogli, e il vento a correre tra i monti. Il sole s’alzerà e tornerà tramonto. Tutto senza di noi, e senza che di noi resti nulla. Tranne forse qualche piccola memoria, per un tempo probabilmente breve.
Le immagini di quei documentari, suggerirebbero che la strada “naturale”, sia quella della rassegnazione al proprio destino di divenire nulla. Ed io non so dire se, nell’istante finale, quel che prevarrà, per ciascuno di noi, sia la rassegnazione.
Sotto un certo punto di vista, la rassegnazione, è meglio, del puro terrore per il proprio perdersi.
Ma è difficile, augurarsi d’arrivare rassegnati, a quel momento.
V’è una scintilla umana, quella che, forse, distingue la nostra scintilla da quella d’altri esseri del nostro pianeta, ed è una scintilla di inattesa e dignitosa rivolta. Siamo gli unici esseri del nostro pianeta, a non essere rassegnati ad essere noi stessi. La nostra umanità, che ci contraddistingue, non s’accontenta, d’essere; ma vuole essere consapevole di sé, e la consapevolezza di sé stessi avviene sempre in un rapporto dialettico con “l’altro”, e noi potremmo voler essere l’altro, o un diverso da noi. Magari capace di oltrepassare, la Morte.
Ciò significa che non possiamo essere rassegnati ad un destino, per quanto ineludibile.
E significa anche, che se non possiamo rassegnarci, è perché il percorso che ci ha portato sino all’ultimo istante, valeva qualcosa – certe volte mi verrebbe da dire, che varrebbe fosse anche solo per noi stessi – e non desideriamo si interrompa. Tanto più quando, nella nostra vita, abbiamo compreso come non sia il fine, ad essere importante, bensì i mezzi, di cui ci serviamo per arrivare a quel fine.
Se l’umano ha come fine, personalissimo, quello della propria felicità, quando persegua un simile fine, senza far danno alla felicità di altri, o addirittura, tendendo le mani per aiutare l’altrui felicità ( e qui non si potrebbe più dire che, necessariamente, fine dell’umano sia solo una propria personalissima felicità… ), compirebbe, di per sé, una ribellione, nei confronti di un istante finale che tutto vorrebbe annullare e distruggere.
Verrebbe da dire, che a dar senso ad una vita, siano i mezzi che scegliamo, ed il modo in cui li adoperiamo. Sia il nostro vivere incantati da un domani possibile, ed è per questo, persino nonostante noi, che la dignità ultima dell’umano, può non precipitare in un grande, tenebroso e orribilmente eterno nulla.
Anche quando la nostra autoconsapevolezza smetta di essere, le nostre azioni, le nostre parole, raccontano chi siamo stati, e danno un senso, oltre noi, a quel momento finale.
In quel momento finale, ho visto i medici allontanarsi da me, timorosi della mia morte; ho visto il soffitto senza che vi fossero pareti. E ho solo pensato alle persone che amo. Non volevo morire.
Mi sembrava una grande ingiustizia, questa porta nera che s’avvicinava; qualcosa che non dovesse toccare a me, che ancora avevo fame di essere.
Avevo talmente paura, da non riconoscerla, la paura, tanto sembrava l’unica cosa che potessi sentire.
Forse mi ha salvato desiderare ancora, e ancora voler amare.
Credo occorra essere molto, molto umili, di fronte alla fine, di chiunque, e nostra.
Credo che l’inchiostro del pianeta social, e di tantissima letteratura e saggistica, sia solo un pallido tentativo di esorcizzare l’amarezza profonda della nostra rassegnazione al destino che ci aspetta; mentre invece condurre una buona vita, nei concreti mezzi che usiamo per condurla, che sia capace di amore è il solo modo che abbiamo per dire al nostro destino spietato, che abbiamo vissuto.
Forse so, che arrivato a quel momento finale, la paura ed il dolore saranno ben peggiori e forti; ma, ancor più, so, che essere il meglio che posso, per me e per gli altri, con ogni mio limite, è tutto quello che ho, per non rendere inutile il mio vivere, e gridare la mia rivolta alla Moira.