Da una carrozza, Achille Lauro, guarda il Golfo di Napoli; entro una carrozza, la Sirena, concede di lasciarsi guardare nuda; ma non d’essere toccata. La carrozza, trasporta un feretro, mentre la morte individuale, deve fermarsi di fronte alla morte collettiva dell’epidemia di colera, contro cui uno strano furgoncino ragno, spruzza disinfettante per le strade, ingombrandole.
Su una moderna carrozza, dalla nebbia, come un felliniano Rex, spuntano i tifosi del Napoli calcio, che festeggiano la conquista del titolo di Campione d’Italia, a chiudere, con un sorriso disincantato, quasi incredulo di sé stesso, il film.
“Non si può essere felici, nel posto più bello del mondo”.
C’è una chiesetta, a Gallipoli, risalente forse ad epoca medievale, ma che ha assunto la sua attuale fisionomia durante il Regno di Napoli. In una delle sue cappelle, chiusa da un cancello, può vedersi, entro una teca, il corpo di Cristo, deposto dalla croce. Ai suoi lati, due grandi sculture lignee, che rappresentano la crocifissione dei due ladroni. A sinistra di chi guardi, è Disma, il “ladrone buono”; a destra di chi guardi, è il “Mallatrone”. Il ladrone “malo”. Secondo la leggenda, quella statua, dal grottesco volto deforme, è vestita di panni che si sbriciolano, continuamente, e che, ogni anno, debbono essere sostituiti. Mentre il buon ladrone resta intoccato, il ladrone cattivo, si decompone, misteriosamente, come se un male infinito, lo divorasse di continuo.
In quella cappella, si ritrova tutto intero un gusto spagnolo, e napoletano, e granguignolesco nel rappresentare cruenti episodi dei racconti delle Scritture Sacre.
La devozione popolare ammanta di prove certe, e visibili, il racconto della Fede.
In questa materialità, di cui si forza il senso, si riconosce, e si rassicura.
Non so, sinceramente, se Sorrentino abbia voluto raccontare Napoli, col suo film “Parthenope”, o se, attraverso Napoli, racconti una generazione, e, con essa, la storia di un Paese. Oppure se, la sua, sia semplicemente la storia di una donna, o forse di una sirena del mito: capace d’incantare, ma anche d’essere, per i suoi incanti, portatrice di morte. E non so, se questo sia il suo modo di raccontare il peso del “miracolo”, nella società, per esorcizzare invece, la sua voglia di raccontare come, e perché, s’arrivi al suicidio.
O forse, se abbia voluto raccontare tutto questo, e altro, insieme.
Parthenope è una donna che nasce nell’acqua e nel sale, e la sua infanzia si svolge all’ombra di Achille Lauro e di suo padre, che ne curava discorsi e strategie e forzature elettorali.
Achille Lauro, era il prototipo di politico ricchissimo, capace di far credere al popolo d’essere un benefattore, e, contemporaneamente, e di assumere ogni scelta amministrativa, legislativa e sociale all’unico scopo di mantenerlo in una condizione servile e di dipendenza. Sorridendo, anche.
E c’è, nel film di Sorrentino, la consapevolezza d’essere un racconto politico.
Una ricerca senza indicazioni esplicite di giudizio, anzi ribadendo più volte, di non voler giudicare, e di non voler essere giudicati, ma densissima, nell’individuare un filo conduttore che dal passato ci porti all’oggi, traversando vicende individuali e collettive, con gli occhi – non eroici – di una donna che, forse, non può essere felice, nel luogo ove è nata, ed è cresciuta, e che, per lei, è certamente il luogo più bello del mondo.
E non può essere felice, forse, perché nessuno può esserlo davvero, e, a ciascuno, in forme diverse, spetta di affrontare contraddizioni e dolori tali da rendere la felicità un orizzonte intangibile, oscurato come è, dalla certezza della fine di ognuno.
E le contraddizioni che Sorrentino enuclea, scavano nel tessuto magmatico della società, e sono aspre; terribili talora, e costituiscono il cuore del suo “racconto politico”.
Il percorso di studi scelto da Parthenope, la mette a confronto, contemporaneamente, con una istituzione straniante e contestata, l’Università, e con un professore di altissima levatura, quanto rigoroso, che, individualmente però, oltre le regole dell’Istituzione, la guida nelle sue scelte e ne coglie l’intelligenza curiosa e scevra da ogni pregiudizio, tentando di preservarne lo sguardo innocente, senza comprendere forse, che la persona che si trova davanti, è capace di mantenere l’innocenza dello sguardo, proprio perché guarda negli occhi, brutture e dolore.
Parthenope si confronta con una gerarchia ecclesiastica che perverte la propria funzione in un nichilismo cinico e assoluto e usa spregiudicatamente quella che giudica essa stessa, credulità popolare, e non Fede, per personale soddisfacimento e acquisizione di potere.
Parthenope incontra la criminalità organizzata che ruota ai margini della società civile, ma ne governa i movimenti, grazie alla forza del denaro e della bruta violenza, di cui il popolo riconosce immediatamente il linguaggio; capace, per l’ancestralità della sua radice, d’inscenare la consacrazione d’una alleanza militare con una pubblica, e terribile, unione fisica di dinastie e di carne.
Parthenope scorge, nella rappresentazione artistica, una possibile via per esprimere tutto il proprio talento, e si scontra con l’incomprensione e con il deluso sfogo, di una supponente attrice divenuta altrove – forse giustamente – famosa, che rinnega le proprie radici, per la loro pochezza, ignoranza, superstizione, o forse solo perché lei non è stata verso esse sufficientemente omaggiante, facendole intravedere il baratro che può aprirsi, quando all’arte si sostituisce un presunto lavoro “da artista”, superficiale, fatto di impeccabili parrucche che coprano il tempo.
Ma è essa stessa, Parthenope, il luogo più bello ove non si possa essere felici.
Parthenope che si concede, nelle situazioni più laide e compromesse, e si nega, quando forse l’amore potrebbe essere anche una redenzione; se non fosse l’amore, forse, solo una malattia di gioventù, destinata comunque a scomparire, e a non lasciare traccia di sé, anche quando, in nome di una possibile idea di amore, si rifiuta una comoda ricchezza.
Parthenope che esplora la profondità, nelle parole di un vecchio ubriaco inglese omosessuale, poeta, alle prese con la propria autodistruzione.
Magari, Sorrentino, sta codificando la propria estetica “sorrentiniana”, per il presente, e per il futuro. Una estetica fatta di straordinaria fotografia e calligrafie perfette, ma forse di dialoghi troppo paradigmatici. Magari, Sorrentino, conserva una sua inquietudine purissima che, persino amando il calderone ribollente di Napoli, non esita a mostrarne le piaghe purulente che ne impediscono la felicità, con un racconto “che non giudica, ma che non vuole essere giudicato”.
E forse pone qualche dubbio persino su sé stesso, se lo sguardo illuminista e totalmente dedito alla bellezza della conoscenza e del proprio lavoro, può generare solo un “mostruoso” figlio “burtoniano”, fatto di acqua e di sale, isolato nella propria casa, condannato ad una eterna infanzia immobile, se voglia sopravvivere. Della stessa materia in cui è nata Parthenope, ma brutto, quanto lei è bella.
Io non so, se da un film sia necessario trarre un “messaggio”, o se il cinema, oggi, possa esistere solo provando a misurarsi coi temi con i quali “Parthenope” si misura, e se il resto sia solo mestiere dell’arte, o serie televisive ( talora persino sorprendenti, ma inscatolate comunque in un elettrodomestico, sia pure “intelligente” ).
Però so, che spendere i soldi del biglietto, per incontrare questo cinema, e questi attori magnifici ( Silvio Orlando, veramente potente ), vale la pena.
In fondo, l’arte, è una ricerca, e a me sembra che, molti, invece di guardare al complesso del lavoro, ne cerchino, ora per una ragione, ora per un’altra, nuclei che, da soli, comunque, non interpretano l’interezza del racconto, ma che però fanno effetto, quando si preferisca ostentare violate presunte dignità, o quando si preferisca, invece che affrontare le contraddizioni esistenti, esorcizzarle sostenendo che si tratti solo di “luoghi comuni”,
Nel racconto della città di Aquila, dopo il sisma, sono state utilizzate tonnellate di retorica, di propaganda, di strumentalità, ma il terremoto, ad Aquila, c’è stato davvero, e persino quella retorica, quella propaganda e quella strumentalità, ci raccontano il mondo nel quale la nostra vicenda, si è svolta, e si svolge.
Si puo’ amare, un luogo bello, anche sapendo che non darà la felicità, e lo si può fare, senza giudicare, e senz’essere giudicati.