Esistono dilemmi morali complessi, entro i quali, scegliere una tra le alternative possibili, potrebbe non salvaguardare i propri principi integralmente, ma colpirli, comunque.
Immaginiamo per un istante, d’essere un programmatore informatico, cui sia stato chiesto di costruire una impalcatura software che sia capace di condurre, senza guidatore, una automobile, nel normale traffico urbano. Immaginiamo che il programmatore debba rispondere ad una eventualità, tra le tante possibili, di una normale giornata di guida.
Una persona a piedi, può attraversare la strada improvvisamente, dinanzi alla automobile senza guidatore; per evitare di investire il pedone, l’automobile, necessariamente e senza alternative, dovrebbe investire un cane.
Come, il programmatore informatico, tra l’uccidere l’uomo e l’uccidere l’animale, scioglierebbe il dilemma ?
L’ipotesi più probabile, potrebbe fondarsi su una scelta di priorità. E tale scelta di priorità, quasi sicuramente, condannerebbe a morte il cane, in nome del superiore valore di una vita umana.
Non mi interessa, in questo momento, analizzare se sia questa, una “scelta giusta”, o meno.
Mi interessa evidenziare l’esistenza di questioni concrete, dinanzi alle quali, certe scelte, basate su un criterio di priorità, generino, comunque, decisioni controverse, per le quali un prezzo debba essere pagato.
E mi interessa provare, partendo dalle scelte concretamente effettuate, a risalire all’”ordine morale”, che le ha determinate, sperando di riuscirci, almeno un poco.
Quali sono, le “regole” di una guerra ?
Senza addentrarmi in una analisi del Diritto Internazionale, potrei dire che, convenzionalmente, una guerra dovrebbe combattersi tra eserciti, il cui scopo è certamente sconfiggersi l’un l’altro, teoricamente, ma minimizzando i danni per la popolazione civile.
Nella nostra esperienza storica, però, potremmo dire che questa “convenzione”, è stata sistematicamente violata. In nome di scelte di priorità.
Sarebbe interessante analizzare alcuni tra i conflitti storici più importanti, per comprendere se un esercito, che abbia invece scelto di colpire e coinvolgere, sistematicamente e scientemente i civili, possa essere poi considerato vincitore del conflitto.
Se volessimo limitarci ad una analisi, necessariamente superficiale, del solo Secondo Conflitto Mondiale, ci troveremmo di fronte a due esiti tra loro opposti, della scelta di attaccare scientemente le popolazioni civili del “nemico”. La Germania nazista ha perduto la Seconda Guerra Mondiale; gli Stati Uniti, dopo aver distrutto con l’arma atomica, Hiroshima, e Nagasaki, l’hanno vinta.
Verrebbe da dire che, al di là di presunte regole “cavalleresche”, o di Convenzioni Internazionali sottoscritte, di fronte alla priorità di sconfiggere il nemico; anzi, di fronte alla priorità di “vincere” (che non è esattamente la stessa cosa), ciascun contendente, potrebbe scegliere di portare alle estreme conseguenze la propria capacità di offendere. Senza curarsi delle possibili conseguenze, che restano subordinate, in ogni caso, alla priorità scelta.
Si può, dalle condotte di guerra, desumere l’ordine di priorità scelto dalle autorità politiche e dalle comunità tra loro belligeranti ?
E’ un esercizio difficile, in realtà, perché il complesso delle informazioni che consentirebbe di formarsi una opinione il più possibile vicina alla verità, è sistematicamente occultato, deformato, manipolato, propagandato, dalle parti in causa, oltre che dai loro alleati, e persino dalle fonti di informazione, in ragione del loro grado di dipendenza dagli interessi economici e geopolitici in campo.
Il rischio grande è di provare a motivare certe scelte, non a partire dai dati oggettivi, almeno da quelli a noi accessibili, ma dai nostri pre-giudizi, che potrebbero impegnarci in un’opera di lettura della realtà, utile solo a confermare la nostra opinione precostituita.
Nella guerra in corso tra uno Stato sovrano, Israele, e una organizzazione privata, Hamas, spalleggiata forse da un altro stato sovrano, l’Iran, oltre che da altre organizzazioni private ( Hezbollah, e le formazioni ribelli degli Houti ), credo sia possibile dedurre, dai concreti comportamenti di guerra, che entrambe i contendenti principali ( Israele e Hamas ), hanno scelto, come loro priorità, una guerra di sterminio del nemico.
Probabilmente, l’idea di fondo che anima le rispettive autorità al potere, è che l’esercito nemico, sia solo un rappresentante del vero nemico: l’altrui rispettivo popolo. E, pertanto, non si combatte contro un esercito, ma contro una intera comunità; tutta egualmente meritevole di morire senza distinzione alcuna. La differenza nei danni inflitti, la fanno semplicemente le condizioni economico-finanziarie dei contendenti; il loro diverso sistema di alleanze e relazioni internazionali; la loro differente disponibilità di tecnologia ed armamenti.
E se questa è l’idea di fondo, desumibile dai concreti comportamenti bellici di ciascuno ( non serve qui una discussione, peraltro infinita, su chi abbia torto e chi ragione, o su chi sia il primo responsabile delle nefandezze in corso e di quelle passate ), penso di poter dire tranquillamente che nessuno dei due contendenti possa rivendicare una qualsiasi “superiorità morale” sull’avversario.
Di conseguenza, ciascun atto, a favore dell’uno, o dell’altro contendente, è, semplicemente, una “alleanza di fatto” che, di per sé, in misura sicuramente variabile, rende comunque responsabile ciascuna comunità nazionale dell’appoggio che offre ai combattenti.
Si potrebbe dire, almeno dal quadro informativo disponibile, certamente non del tutto veritiero per gli eventi accaduti, che ciascuna delle due parti in lotta, abbia assunto su di sé, sino alle estreme conseguenze, l’unico obiettivo di “vincere la guerra”, e non solo, di “sconfiggere il nemico”, e, dinanzi a questa priorità, nessun atto, per quanto efferato e disumano, sia escluso dal novero delle possibilità.
Ma se questo è, dobbiamo sapere che questo tipo di conflitto, e le sue conseguenze morali, ci portano (riportano?), esattamente dentro una logica di “guerra totale”, che non prevede negoziati, ma solo vittorie, o sconfitte. E se questo è, dobbiamo sapere che questo germe velenoso è destinato a dare frutti.
Bisognerebbe avere il coraggio di dire, con assoluta chiarezza, che, ammesso esista una “Cultura Occidentale”, e una comunanza di valori “Occidentale”, da questi valori, e da questa cultura Israele si autoesclude. E occorrerebbe trarne le conseguenze politiche, economiche e sociali.
So che sarebbe necessario affidarsi a sterminate bibliografie per provare a rinvenire degli orientamenti, almeno minimi, capaci di identificare una “Cultura Occidentale”, che è in realtà un costrutto storico determinato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalle sue vicende successive, ricche peraltro di contraddizioni e conflitti anche laceranti. Però, so anche, che nella accezione di “Cultura Occidentale” in cui (in parte), mi riconosco, non c’è, o non dovrebbe esserci, l’idea che un altro popolo sia nemico, e che, per questo, vada annientato fisicamente, con precisa determinazione, in ogni suo componente ritenuto bersaglio utile, bambini compresi.
Do per scontata qui, la conoscenza della distanza esistente tra il coacervo di “valori” che Hamas predica e pratica, e i “valori” della cosiddetta “Cultura Occidentale”, che è tale da rendere estremamente difficile separare la solidarietà con i civili palestinesi colpiti, dal sostegno a quello che, almeno nella Striscia di Gaza in questo momento, è il loro rappresentante politico. Così come, d’altronde, resta difficile distinguere la popolazione civile israeliana, spesso colpita, dalla sua rappresentanza politica che compie giornalmente crimini di guerra.
Per quanto avvolta da nebbie informative ancor più spesse, la vicenda che vede contrapposta l’Ucraina alla Russia, sembra invece avere caratteristiche diverse; non perché non vi siano vittime civili (tutt’altro, purtroppo), ma perché qui dopo il superamento delle prime illusioni russe di conseguire una rapida vittoria e un cambio di regime, il punto vero, non sembra essere lo sterminio di un popolo nemico, bensì il raggiungimento di diversi equilibri politici (e territoriali), rispetto a quelli che erano prima dell’inizio del conflitto.
Anche la gravità di questa guerra, mette in discussione la cosiddetta “Cultura Occidentale”, in un punto peraltro cruciale e in passato utilizzato per giustificare improbabili vendette e ammantare di presunta giustizia, concretissimi interessi economici e geopolitici. Se cioè la “Cultura Occidentale” percepisca sé stessa come “superiore”, e se quindi questa sua presunta “superiorità” la legittimi a considerarsi dotata di una missione universale: quella di estendere al resto del pianeta un “Sistema Occidentale”, che contiene in sé fondamentali libertà, diritti e tutele per l’uomo e per la donna, ma anche pesantissimi interessi economici e geopolitici, che si son fatti spesso strumentalmente scudo, di libertà e diritti, per sfruttare, intervenendo anche militarmente, l’altrui stato di bisogno materiale a proprio esclusivo beneficio.
Contribuendo per questa via alla distruzione dell’equilibrio climatico-ambientale.
Anche per questo, il conflitto tra Russia e Ucraina fatica a trovare una composizione: anzitutto perché, persino su un piano logico, se si proclami l’esistenza di diritti e valori universali, non può accettarsi che questi diritti e valori, non siano poi vissuti materialmente dall’intera umanità.
Per dirla con altre parole, la Caduta del Muro di Berlino, non ha significato la definitiva affermazione della cosiddetta “Cultura Occidentale”, ne ha anzi segnato l’inizio della crisi.
E se non si assuma, come consapevolezza storica, l’idea della crisi in atto, da essa non sarà possibile uscire; o meglio, l’uscita potrebbe essere tremendamente traumatica.
Fino all’estrema conseguenza del conflitto nucleare generalizzato.
A partire dal prossimo 5 novembre, inizieremo a scoprire come si disporrà uno degli attori fondamentali di questo quadro. E come, naturalmente, in base a questa nuova disposizione, agiranno tutti gli altri attori in campo.
Ma, alla fine del mio tentativo di ragionamento, sento il bisogno di interrogarmi su come sia possibile, oggi, ricostruire (o costruire), un legame serio e vero, tra Democrazia, Pace e Giustizia.
Se qualcosa insegna la Storia, è che solo una Pace “il più possibile giusta” costituisca il vero antidoto alla guerra e alla distruzione dell’umanità, e che, per arrivare ad una Pace, il più possibile “giusta”, sia necessario un atto di disarmo. Nella storia, tale atto, è stato spesso il frutto di una sconfitta, militare, o politica; ma non è andata sempre così.
L’uscita, in Sudafrica, da un sistema di Apartheid, è stata costruita su atti di disarmo: della minoranza Bianca, e dell’African National Congress di Nelson Mandela (insieme al Partito Comunista sudafricano che, in quella fase, giocò un ruolo così importante, da essere ringraziato da Nelson Mandela, nel suo primo discorso appena uscito dal carcere, dopo ventisette anni di dura detenzione).
Un vero atto di disarmo sarebbe costituito, oggi, dal riconoscimento della necessità di costruire relazioni internazionali fondate sulla diplomazia, per un verso, e su scelte di Giustizia, per altro verso. Ma le scelte di Giustizia, dobbiamo saperlo, implicherebbero la costruzione di un diverso assetto economico del pianeta, non più dominato dal capitale finanziario, d’origine criminale, o legato allo sfruttamento dei combustibili fossili, o ad un capitalismo che non accetta più alcuna forma di mediazione sociale per conservare e aumentare a dismisura, i propri margini di profitto.
Tutto si tiene, purtroppo, o per fortuna, non so.
Di fronte a scelte morali complesse, dovremmo essere capaci di articolare le nostre decisioni, consapevoli che non si può totalmente separare il bianco dal nero, e, contemporaneamente, rigorosi nel non scegliere il cinismo e il bruto interesse, personale o di comunità, in nome di fantomatici superiori valori.
La Democrazia assume su di sè il senso del limite, e la pluralità di punti di vista, e quando non lo fa, non è differente dalle forme autoritarie di governo, cui vorrebbe contrapporsi, offrendo di sé un modello: se la Democrazia, al proprio interno in primo luogo, non recupera urgentemente le priorità della Giustizia, dell’Eguaglianza e della Solidarietà sociale, il percorso verso la Pace sarà terribilmente difficile.
Confesso, che vedere le correnti di fondo condurre con sempre maggiore forza verso il gorgo finale, mi spinge ad essere così presuntuoso, da pensare che persino le mie parole, possano servire a qualcosa, per deviare questa corsa.