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Gli Stati Uniti, somigliano alla cicoria.

Ott 5, 2024 | Commenti

La cicoria sviluppa dei bei fiori, ed è anche buona da mangiare, ma può crescere in modo invasivo.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, che ci aveva visto, prima dichiarargli guerra contro, e poi ringraziarli per il loro contributo determinante alla liberazione dal nazifascismo, una delle clausole riguardanti le relazioni tra Stati Uniti e Italia, prevedeva la garanzia governativa per parte italiana, della preminenza di circolazione nel nostro Paese, di film per il cinema provenienti da Hollywood.

Il cinema di Hollywood, è sempre stato, talvolta contemporaneamente, espressione di una pluralità di personalità artistiche, per un verso, e formidabile macchina di propaganda, per altro verso.

Anche per questa via, dal Secondo Dopoguerra in poi, l’immaginario collettivo riguardante un positivo “modo di vivere americano”, ha influenzato in modo determinante, intere generazioni, in concorso con altri fondamentali fattori; tecnologici in particolare.

L’immaginario dei bambini, ieri forse più di oggi, era interamente costruito, o quasi, sui personaggi dei cartoni animati Disney. Quegli stessi bambini, cresciuti, negli anni ‘70, guardavano serie televisive per ragazzi, che raccontavano come l’ordine militare americano, impersonato anche dal cane supereroe Rin Tin Tin, fosse buono, e giusto.

Il cinema americano, poi, ha cominciato anche a mostrare la faccia sporca del mito; le sue ambiguità, e il suo cinismo; la sua fame di potere. Ma anche in questa rappresentazione, che incontrava quei bambini divenuti giovani, c’era sempre un’America buona, che si batteva per il Bene e la Giustizia. Non sempre le nuove storie erano coronate da lieto fine; ma restava, nel profondo, la sensazione che, da quella parte dell’Oceano, fosse sempre possibile proporre qualcosa capace di incarnare un “superiore bene per l’umanità”, e a cui volgersi, anche nei momenti più cupi.

La dinamica “buono/cattivo”, per quanto più sfumata col tempo, ci ha sempre invitato a fare il tifo per i “buoni”, che, ovviamente, tendono al “bene”; e fare il tifo, significa anche perdonare gli errori o le omissioni, o l’assenza d’impegno, perché comunque, si fa il tifo per qualcuno, o qualcosa, che rappresenta le nostre emozioni, più che la nostra ragione. E non sempre è possibile discutere le emozioni. Persino quando ci si ribelli all’identificazione dell’America, con il “bene” e con il “buono”, lo si fa immaginando (e spesso c’è davvero), che, da qualche parte degli Stati Uniti, vi sia qualcuno, o qualcosa, cui possiamo far riferimento, per trovarvi parole, o idee, capaci di essere, a loro volta, per noi, “emozioni non discutibili”.

Se posso dirla in modo brutale, persino Berlinguer, diceva pubblicamente, che preferiva essere nella NATO, piuttosto che nel Patto di Varsavia; nonostante vi fosse, all’epoca, il più che fondato sospetto (peraltro ampiamente superato dalla realtà e profondità dei fatti), che la NATO fosse uno dei pilastri concorrenti a fare dell’Italia una Democrazia a sovranità limitata, che mai avrebbe potuto avere una maggioranza comunista al governo del Paese (obiettivo questo, che ha giustificato decenni di rapporti osceni e criminali, tra terrorismo della Destra Estrema, Servizi Segreti, poteri economici, logge massoniche, mafie di ogni tipo e complici politici, anche governativi, e militari e delle gerarchie ecclesiastiche).

Naturalmente, Berlinguer, non ha mai fatto quelle affermazioni pubbliche perché influenzato dalla Hollywood degli anni ‘60; egli era invece, profondamente consapevole che la Democrazia, non fosse un dato acquisito ora e per sempre, e però immaginava che solo seguendo le regole del processo democratico (che anche l’esistenza del PCI garantivano), nella sua forma nata dal Secondo Dopoguerra nell’Occidente del mondo, fosse possibile avviare un processo di liberazione e di progressiva emancipazione delle classi popolari: altri sistemi economico-politici, non avrebbero mai consentito uno sviluppo simile.

Dal mondo di Berlinguer, e dei film western in cui i cowboys bianchi incarnavano il bene e i Pellerossa personificavano un mondo selvaggio, primitivo e indocile; cattivo e incapace di apprezzare il progresso capitalistico, è trascorso davvero un lungo tempo, e moltissimo, appare essere cambiato e nuovo.

Quello che oggi è davvero in discussione, è esattamente l’egemonia statunitense, non solo all’interno del cosiddetto “mondo occidentale”, ma più complessivamente, nel pianeta.

I tempi storici, non sono i tempi della vita di un uomo, o di una donna.

Forse gli storici del 2300, guardando a noi, potranno considerare i conflitti mondiali, come parte di un processo di acquisizione di egemonia globale, magari di marca cinese.

Noi non sappiamo dove ci porteranno i prossimi accadimenti.

Le dinamiche aperte dalla Caduta del Muro di Berlino hanno dato voce a soggetti di cui non si immaginava l’esistenza; basti pensare al radicalismo islamista, e alla profezia dello storico Eric J. Hobsbawm, che, alla fine degli anni ‘90 dello scorso secolo spiegava che la guerra, nel nuovo millennio, avrebbe potuto assumere contorni nuovi, compresa la possibilità che una organizzazione privata (Hezbollah, ad esempio), potesse muovere guerra ad uno Stato nazionale (Israele, ad esempio). E non cambia la sostanza, qui, una disputa su “chi abbia iniziato”.

Noi, ci muoviamo dentro un mondo che guardiamo con gli occhi della nostra Cultura; un mondo che interpretiamo, con gli occhi della nostra Cultura; un mondo che non sapremmo comprendere, e nel quale non sapremmo muoverci, senza far riferimento alla nostra Cultura.

Quanto era piccola, e meschina la convinzione di quel cosiddetto ministro (con la minuscola) di governi a guida Berlusconi, che spiegava che “con la Cultura, non si mangia”.

E la nostra Cultura, si è formata, in larga parte, sull’assunto storico-politico, che gli Americani, gli Statunitensi, per essere più precisi, sono i buoni, e incarnano il Bene.

Non sto formulando un giudizio, e non mi sto iscrivendo ad uno schieramento.

Cerco solo di comprendere quanto, nell’atteggiamento dei cittadini del nostro Paese, vi sia di sentimentale, di non-razionale, e quindi di non-discutibile, nel pre-giudizio positivo che esiste in favore degli USA.

Non mi interessa ora, neppure aprire una discussione su quanto vi sia di storicamente determinato e vero, in questo pre-giudizio, e quanto vi sia invece del risultato di decenni di propaganda cui siamo stati sottoposti.

Per comprendere quanto sia profondo, nel nostro modo di essere, quel pre-giudizio, noi dovremmo sempre riflettere sulla connessione tra mezzi e fini, nelle nostre azioni, e nei nostri pensieri, perché è evidente, ad esempio, che se l’uomo è un “animale sociale”, parte importante di questa socialità, è determinata dalla “comunicazione”, e se gli strumenti che noi usiamo per comunicare sono in larga parte frutto di tecnologia, ricerche e pensiero statunitense, siamo allora obbligati ad immaginare che quegli strumenti, in una certa misura, influenzino e determinino il contenuto stesso della comunicazione che essi possono consentire; sicuramente, ne definiscono, con assoluta precisione, le modalità, e spesso, la forma è sostanza. La nostra comunicazione, potrei dire, è, nel contempo,in buona misura, ispirata da una cultura di provenienza statunitense, e si svolge per il tramite di piattaforme studiate e realizzate, secondo un pensiero statunitense.

E’ importante comprendere la pervasività, di questo pre-giudizio.

Oggi però, noi assistiamo ad una doppia rottura degli equilibri geopolitici usciti dalla Seconda Guerra Mondiale, e quindi, anche, ad un duplice processo di ridefinizione della nostra Cultura.

Da una parte, l’affermarsi, ancora parziale ma imponente, di altri soggetti che contendono agli USA la leadership mondiale: dalla Cina alla Russia; dall’India, ai paesi produttori di petrolio etc.; e sono in corso dinamiche che potrebbero fondarsi sull’alleanza, tra alcuni di questi contendenti, le cui culture sono venute e vengono comunque a contatto con noi.

Dall’altra, la profondissima frattura che interessa tutti i Paesi del cosiddetto “Mondo Occidentale”, e che riguarda l’essenza stessa della Democrazia, e della Cultura che la sostiene, che alcuni oggi provano a piegare in autoritarismo, quanto meno, agendo sulle contraddizioni e sui limiti della stessa Democrazia.

Eppure, in questo scenario, permane un pre-giudizio filoamericano.

Di sicuro, ne sono interpreti coloro i quali, in Italia, hanno sempre agito sotto l’ombrello statunitense e della NATO, in nome dell’anticomunismo: fascisti (che hanno tranquillamente dimenticato essere stati gli USA uno degli attori principali della caduta del fascismo storico) , criminali di ogni specie, uomini cosiddetti “d’ordine”; costoro agiscono e pensano in nome dell’esclusivo interesse a che i rapporti di potere all’interno di società sempre più diseguali e atomizzate, restino esattamente come sono e che magari si accentuino ancor più le disparità: vi è una profonda radice culturale qui, supportata anche con toni estremistici, dalla maggioranza assoluta dei Mezzi d’Informazione di massa.

Ma è anche, in larga parte, “senso comune”, talvolta anche argomentato con la profondità e la gratitudine dovuta ai decenni di Pace che abbiamo vissuto, e alla prosperità di cui gran parte della nostra popolazione ha goduto, e gode.

Riconosciamo, nelle ragioni degli Stati Uniti d’America, le nostre ragioni. E non si può far finta che non sia così; né incide, qui, una discussione su quanto l’Italia sia un Paese libero, e quanto sia invece una “colonia”.

Potrei dire che anche il silenzio, di quello che una volta era connotato come “Movimento Pacifista”, capace in tempi passati di spettacolari mobilitazioni, ha una sua spiegazione parziale oggi in quel pre-giudizio favorevole agli USA.

Sembra che, come tutti gli attori statuali e politici della scena mondiale, anche il Movimento Pacifista, (e forse le opinioni pubbliche più in generale dei Paesi europei ed occidentali), stia aspettando l’esito delle prossime elezioni americane, mentre il pre-giudizio filo statunitense, fin qui ha consentito di fornire, quanto meno, un “non-diniego” alle ragioni americane nei conflitti in corso in Ucraina, e nel Medio Oriente.

L’esito delle elezioni americane del prossimo novembre, determinerà, con tutta evidenza, l’immediato evolversi dei conflitti in corso, ammesso che, prima, non accada qualcosa che spezzi davvero degli equilibri importanti e faccia deflagrare tutto in modo incontrollabile.

Se le ragioni della Pace, hanno trovato e trovano così tanta difficoltà nel farsi ascoltare, è a causa di un intreccio complesso di fattori.

Per un verso, la restaurazione del potere preminente dell’economia e della finanza liberi dal “compromesso socialdemocratico”, avvenuta negli ultimi quaranta anni poco più, ha reso le Democrazie meno sensibili alla partecipazione popolare diretta (facendo esplodere anche per questa via fenomeni che vengono definiti “populisti”, ma che, in realtà, hanno profonde venature nazionaliste).

Gli ultimi quaranta anni di manifestazioni, in Italia, come nel mondo, hanno ottenuto pochissimo, su ogni fronte, tranne che sui Diritti Civili, spesso però coniugati in chiave individualista.

Per un altro verso, la reale complessità dei fattori che hanno prodotto i conflitti in corso, richiederebbe, per la loro risoluzione, una fiducia nella Multilateralità e nelle Istituzioni internazionali, che i principali protagonisti delle vicende, a partire dagli Stati Uniti d’America, hanno attivamente concorso a combattere e depotenziare, fino a rendere quasi del tutto irrilevanti i tentativi (anche sul fronte del cambiamento climatico) della diplomazia internazionale.

Non vi sono soluzioni semplici ai conflitti in corso. Le guerre possono persino apparire oggi, come tentativi di semplificare il quadro; di certo, chi è entrato oggi in guerra, non ha una strategia per uscirne, e questo è estremamente pericoloso.

La Pace, per poter parlare davvero, dovrebbe credibilmente poter offrire delle soluzioni, e nessuna soluzione sarà indolore; per nessuno degli attori in campo.

Durante la guerra del VietNam, poteva apparire semplice chiedere che la guerra finisse: era sufficiente che gli USA smettessero di inviare proprie truppe in quel Paese, senza eccessiva preoccupazione per quel che sarebbe accaduto ai cittadini di quello che era il VietNam del Sud, nel quale peraltro, erano molti, a voler stare insieme ai propri “cugini” del Nord.

Quello che accade in Ucraina, e in Medio Oriente, non consente scelte nette; richiede invece a tutti gli attori in campo di pagare un prezzo, perché le armi cessino la loro recita mortale.

In quota parte, lo richiede anche a noi italiani.

Sembra quindi, ed in estrema sintesi, che proprio la consapevolezza, magari non del tutto maturata, che questi conflitti, per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale, mettono davvero in discussione l’egemonia statunitense nel Mondo, diffonda nella società un pre-giudizio filoamericano che frena ogni tentativo serio di pensiero critico e di mobilitazione.

Non sono interessato ad una logica da tifoseria. Nè mi considero antiamericano. Anzi.

Ed in questa sede, non sono interessato ad una discussione che riguardi presunte “colpe” degli USA, nell’aver scatenato e contribuito ad alimentare i conflitti in corso.

L’elenco delle nefandezze compiute dagli USA, a partire dal Secondo Dopoguerra, è lungo, articolato, e pesante. Nei confronti del nostro Paese, e del mondo; ma è esattamente in un momento come questo, che l’Italia, e l’Europa, avrebbero il dovere di chiedere al loro alleato più importante, l’apertura di un negoziato a tutto campo, con tutti gli attori di un mondo divenuto, in buona parte, multipolare.

La forma assunta dall’egemonia americana dopo la Seconda Guerra Mondiale, non è più storicamente sostenibile: il pianeta ha urgente bisogno di nuovi equilibri e, soprattutto, di affrontare insieme le sfide mortali che il cambiamento climatico pone all’umanità.

Se davvero si voglia scongiurare l’ipotesi di un conflitto globale e distruttivo, sarebbe ora di avere il coraggio di affermare che la “Costituzione materiale” che ha retto il pianeta negli ultimi ottanta anni, richiede un profondo intervento di aggiornamento, che occorrerebbe contribuire ad immaginare. Forse solo in questo modo i governi comprenderanno tutta la responsabilità che è nelle loro mani, e che non riguarda solo la loro possibile conferma alle prossime elezioni, ma magari la possibilità stessa di tenere qualcosa di simile alle elezioni nel prossimo futuro.

Al pre-giudizio, talvolta ammantato di servilismo, favorevole agli USA di grande parte della nostra società, fa talvolta da contraltare un anti-americanismo sciocco, e incapace di agire davvero sulle storture delle nostre relazioni con gli USA, proprio perché incapace di trovare interlocutori, nella nostra società, e nel mondo. Il rischio concreto che oggi si corre, per l’Italia, è che proprio agli USA, ci si rivolga, ancor più servilmente che in passato, quando l’eventuale elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America, veda dispiegarsi tutta una strategia statunitense, di disgregazione dell’Unione Europea. Proprio la nostra debolezza economica, innanzitutto, può spingerci tra le braccia di un alleato, che, in realtà, sarebbe il nostro padrone conclamato, contribuendo, per questa via, al definitivo tramonto di un’idea di Europa unita, solidale ed inclusiva (che non è certo l’Europa di oggi).

Chi voglia dare voce e gambe ad altre possibilità, ha ora la responsabilità di uscire, dalla logica della tifoseria e dei pre-giudizi e dovrebbe articolare la propria posizione e costruire su questa posizione consenso e alleanze; sociali, innanzitutto e transnazionali.

Dopo le elezioni americane, potrebbe essere, semplicemente, troppo tardi (e mi rendo conto che, in larga parte, è già troppo tardi).

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