logo-studio-medico-multispecialistico-lasermillennium-dr-franco-muzi
logo-studio-medico-multispecialistico-lasermillennium-dr-franco-muzi

Istantanee

Home / Rubriche / Istantanee

Del conseguimento della maggiore età. CCCP a Melpignano.

Ago 29, 2024 | Istantanee

“ La libertà è una forma di disciplina

Assomiglia all’ingenuità la saggezza”

Comincia così, il concerto dei CCCP, tenutosi a Melpignano ( Lecce ), il 9 agosto scorso.

Albert Camus scriveva: “… quando è fatta in primo luogo di privilegi, la libertà è un insulto al lavoro, e lo separa dalla cultura. Ma la libertà…è fatta soprattutto di doveri. E, dall’istante in cui ciascuno di noi cerca di far prevalere i doveri della libertà, rispetto ai propri privilegi, da questo istante, la libertà salda il lavoro e la cultura, e mette in moto una forza che è l’unica a poter favorire efficacemente la giustizia.”

Alla fine di luglio del 1988, dall’Unione Sovietica, arrivano ad esibirsi in Italia, alcuni gruppi musicali che, teoricamente, suonavano una specie di musica rock; e saranno sul palco di un Festival, a Melpignano, paese della campagna leccese, di circa 2000 abitanti. Era la prima volta nella storia, che ad artisti di un genere musicale ufficialmente messo al bando nell’URSS, viene concesso di esibirsi all’estero. Il piccolo paese di Melpignano finisce sulle prime pagine di tutti i giornali italiani.

Ho rivisto, il 9 agosto scorso, chi ha reso possibile, insieme al giovanissimo sindaco dell’epoca, quell’evento: il responsabile cultura della Federazione Provinciale di Lecce, del Partito Comunista Italiano di allora. L’ho visto in fila, come tutti gli altri spettatori, per farsi controllare il biglietto all’ingresso principale dell’area concerto. Invecchiato, e molto malato.

Un ingresso speciale all’area concerto, era riservato alle persone disabili.

Dei gruppi provenienti dall’Unione Sovietica, che venivano alternati sul palco a giovani musicisti italiani indipendenti dell’epoca ( Litfiba, CCCP, Sick Rose etc. ), non ho un buon ricordo: suonavano monnezza in ritardo di quindici anni almeno; solo un gruppo di Leningrado mi è rimasto nella memoria. Il ritornello ossessivo di una loro canzone, raccontava di un padre fascista… nella Russia ufficialmente comunista della fine degli anni ‘80.

Il concerto del 1988, si tenne nel piccolo e polveroso stadio del paese; il concerto del 2024, si è tenuto in una bellissima piazza, piena di aiole verdi, a ridosso delle mura storiche.

Nel 1988, il biglietto, costava diecimila lire; nel 2024, 49,45 euro, compresi i diritti di prevendita.

Io avevo ventiquattro anni, ora, ne ho sessanta.

La musica dei CCCP di oggi, non ha la spigolosità meccanica, secca ed ossessiva della batteria elettronica degli anni ‘80. La voce di Giovanni Lindo Ferretti si è arrotondata, anche se, in alcuni momenti, urlava un furore più maturo che non trentasei anni prima. Zamboni tesse, con la sua chitarra, tele ricche, e mutate, rispetto alla vita precedente: c’è più musica, e meno trasporto epico. Da lui, passa la rilettura delle canzoni antiche.

Forse, vivendo un sottile distacco da sé stessi; come chi abbia elaborato i gorghi del passato, e riprenda dei fili antichi, per vedere quanto quei fili siano capaci ancora di galleggiare nel cielo dettando loro, il vento.

Trentasei anni fa, non c’erano i cellulari.

Le persone sotto il palco non avevano nulla, con cui fermare la vita che stavano vivendo. Oggi, in qualche caso, rappresentare e testimoniare pubblicamente su un social, la vita che si vive, prevale sul sentire in sé emozioni, per quello cui si partecipi.

Tantissimi, al concerto del 9 agosto, hanno usato il cellulare, per fotografare e riprendere; forse qualcuno ha vissuto il concerto, solo con la mediazione del suo piccolo schermo.

Le riprese e le foto fatte col cellulare, erano la memoria di una memoria. Foto fatte a qualcuno che era già lì, trentasei anni prima, e il cui ricordo, per quanto acceso, non poteva restare preciso e tutto presente. Non erano però foto, fatte “in memoria”, neanche di sé stessi.

Sul palco c’erano musica e spettacolo vivi, brucianti nella loro nudità esposta, e nella fragilità dei corpi mutati; davanti avevo una ricomposizione che lasciava intatte le differenze esistenti, e permetteva innanzitutto, di porre in luce la carica profetica, e sensibilissima, di tanti testi, che allora potevano apparire dure oscurità spiazzanti talvolta, e oggi sembrano descrivere una storia che ancora si respira.

Le immagini degli anni ‘80, sono sgranate, tremano; non hanno definizione. Quella musica, allora, viaggiava quasi clandestinamente. Se ne parlava; si riproducevano i dischi con le musicassette; li si suonava collettivamente. Era nell’aria, per chi fosse capace di sentire lo stridore della contraddizione tra come questa parte di mondo raccontava sé stessa, e come realmente era.

Nel mondo della seconda metà degli anni ‘80, vinceva l’individualismo, e quella musica, consentiva di identificarsi invece in un collettivo straniamento, tra memoria e desiderio di purezza – dentro il forsennato desiderio di arricchimento che si respirava ovunque -.

Quella stessa musica, al contempo e paradossalmente, esaltava anche la propria individuale, e in parte individualistica – soprattutto sul piano degli esteriori segni formali – scelta di aderire a tutti i rimandi culturali che quel racconto musicale lasciava sparsi.

Quel racconto indicava con precisione il mutamento, a partire dai luoghi urbani che stavano travolgendo la campagna, disumanizzando persone e paesaggio, e dai processi economico-sociali che stavano innalzando nuovi inavvicinabili steccati dietro cui i più potenti e abbienti si trinceravano.

Tutti presentendo, senza ancora poterla razionalizzare, o prevedere, la fine di un mondo, mentre il sol dell’avvenire tramontava, senza essere riuscito a nascere.

Quel racconto aveva inventato un proprio ritmo, che, senza proporselo, interpretava la rabbia, spesso senza direzione, cui tanti giovani, già allora umiliati dalla prospettiva di un futuro peggiore del passato che era spettato ai propri genitori, provavano a dar voce pubblica.

Quel racconto, saldava il territorio col mondo, indicando così una strada nuova di azione futura, perché nasceva dalle balere emiliane e arrivava, senza soluzione di continuità, all’iconoclastia punk, restando fortemente italiano, visto che anche esprimere la propria voce, con quello stile musicale, in italiano, non era per nulla scontato.

Ancora sento, le ferite della sconfitta di allora; i tentativi inascoltati di andare incontro ai grandi mutamenti della Storia, che avrebbero segnato il tempo a venire.

Una radicale domanda di Pace. Il lavoro che non c’era, e quando c’era, non dava dignità. L’ambiente aggredito ( era di quei tempi, l’installazione, tra Brindisi e Lecce, di una centrale elettrica, costruita proprio sul mare, e alimentata a carbone ). La richiesta di voce, e sempre maggiore libertà, delle donne. I primi incontri con i computer.

Sentivo di non avere le parole giuste, anche se sentivo di stare dalla parte giusta. La realtà stava andando verso direzioni in larga parte inedite e forse, mentre cercavo nuovi modi e forme, del comunicare, non riuscivo a vedere che la fine del Secolo Breve, si preparava a travolgere la Storia dentro la quale ero nato.

La musica dei CCCP, senza ipocrisie, mostrava le piaghe aperte, e il disfacimento, delle rappresentazioni pubbliche che tutti i soggetti davano di sé stessi, anche a Sinistra. La musica dei CCCP cercava un linguaggio libero, che, mentre raccontava gli albori di una nuova e più radicale, rivoluzione capitalista ( che aveva in sé, in larga parte, inglobato, in termini di egemonia culturale, anche la pratica politica quotidiana di chi si considerava di Sinistra ), sbeffeggiava la propria stessa impossibilità a comprenderla e ad intervenire su di essa, rifugiandosi perciò in un rigore, e in riferimenti estetico-ideologici talmente tanto astratti, da essere a-storici; fuori dal tempo e tendenti all’assoluto.

Per quanto sempre da un punto di osservazione situato ad Occidente del mondo.

Solo pavidi e conformisti democristiani e codini, potevano prendere sul serio la loro fedeltà, ad una inesistente linea sovietica.

Al concerto del 9 agosto scorso, Annarella, benemerita soubrette, sempre meravigliosamente altera e distante, ha fatto camminare sul palco simboli dell’ex Unione Sovietica, e bandiere rosse del PCI; ma non è un caso che “Trafitto”, non facesse parte della scaletta. Non c’è più nessuna rivolta per cui tifare, nell’era democratica; nessuna bandiera da sventolare, nei luoghi di concentrazione, dell’era democratica: i primi centri commerciali, allora, forse i social network, oggi.

Non siamo più sicuri, d’essere in un’era democratica.

Proprio la Democrazia, che, trentasei anni prima, costituiva il discrimine tra noi che potevamo ballare liberi in uno stadio, e i giovani dell’ex-Unione Sovietica che non avevano il permesso di oltrepassare i propri confini, è oggi invece il terreno di battaglia, tra chi vuole ridurne potenzialità e libertà – in nome di una finta conservazione di valori tradizionali, che serve solo a nascondere la reale volontà ad aderire, parassitariamente e pienamente, alla brutale volontà di comando e controllo del potere economico-finanziario prima e politico poi – e chi invece, ancora non riesce pienamente ad elaborare risposte alle nuove sfide poste all’umanità, dalla tecnologia, dal cambiamento climatico, e, ancora, dalla orrenda guerra; ma sa che nessuna risposta può prescindere dalla Libertà, dall’Eguaglianza, dalla Giustizia, tra le persone e tra gli Stati.

Il simbolo dell’Unione Sovietica, portato da Annarella sul palco, è stato tenuto tenuto basso, e solo una volta innalzato, mentre Ferretti canta che “la morte è insopportabile, per chi non riesce a vivere; la morte è insopportabile, per chi non deve vivere”, e somigliava ad un reperto archeologico di imperi trascorsi, tanto era magniloquente, e vuotamente, magniloquente. Una corona di fiori ad un funerale.

La bandiera rossa del PCI, invece, Annarella, l’ha sventolata orgogliosamente in parata, mentre le note taglienti di “Emilia paranoica”, rivendicavano un’appartenenza alle radici di un luogo simbolo, e al suo tentativo di trovare una propria indipendente strada, e, nel contempo, rivelavano l’attesa di “una emozione sempre più indefinibile”; una insoddisfazione, un orizzonte non raggiunto, una possibilità che si è sottratta alla nostra azione. La bandiera del PCI torna nel suo armadio di rimpianti, per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma la Storia è andata oltre; bisogna saperlo, elaborarlo e riprendere la ricerca.

“Non mi hai detto arrivederci, non hai trovato il tempo di mentire”, sono gli ultimi versi di “Bang bang”, la cover, di una delle tante cover italiane di un brano di Cher, tradotto da Francesco Guccini (fonte Wikipedia), ed è il brano cantato dai CCCP, subito dopo lo sguardo allucinato sulla trasformazione dell’Emilia Romagna. La storia di un amore che nasce nell’infanzia, e ferisce, da adulti, fino ad annichilire. Per un attimo, a Melpignano, tornano le atmosfere che hanno accompagnato la crescita di una generazione nata negli anni ‘50, dello scorso secolo ( come chi cantava ), e che io, nato negli anni ‘60, conosco per il suo sopravvivere, nella televisione in bianco e nero degli anni ‘70, che provava ad addormentare l’Italia, con le sue Canzonissime e i suoi Caroselli, ma lasciava trasparire inquietudini e trasformazioni profonde, in quei pochi programmi che sfidavano l’ovatta del conformismo clerical-democristiano. E la voce di Giovanni Lindo Ferretti, sorvola, dai simbolici spari di pistola che colpiscono, senza una vera ragione, un amore, fino ai missili che il Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Jurij Andropov, dà ordine di lanciare contro un aereo civile che, inavvertitamente, aveva violato gli spazi aerei dell’URSS ( “Spara Jurij” ): non è un auspicio, il suo, ma l’urlo strozzato di disperazione che non può opporsi agli automatismi del potere e del nazionalismo; l’urlo di rivolta contro quello che il realismo politico considera ineluttabile, anche quando costa vite umane; una, centinaia o decine di migliaia, non fa differenza.

Ed io l’ho sentita, nella piazza di Melpignano, l’incredulità, per questo grido che ancora oggi miete vittime. Innocenti, per lo più.

E forse non è un caso, se, subito dopo ancora, è Fatur, a mettersi al microfono, e a raccontare di un italiano che va in vacanza nei paradisi della prostituzione, anche minorile, mischiando il suo rap beffardo, con gli slogan di Totò, che invita a votare per il candidato Antonio La Trippa.

Quante volte, negli anni successivi a questa canzone, pubblicata nel 1989, abbiamo ascoltato le storie di un potere che mischiava il sesso mercificato, con la più retriva retorica tradizionalista e antiliberale ?

Se nel 1988 a Melpignano s’erano dati convegno i giovani “alternativi”, che, dal Salento, e con infiniti ritardi, riuscivano a percepire cosa si muovesse di più nuovo e interessante nel mondo, nel 2024, a Melpignano, c’era un consistente spaccato intergenerazionale, tra sessantenni e ventenni, con una larga prevalenza di trenta-quarantenni, che forse avevano incontrato la musica dei CCCP nei dischi dei loro fratelli maggiori, o, quando avevano ascoltato, per la prima volta, i CSI ( la successiva incarnazione musicale di Giovanni Lindo Ferretti ), e avevano deciso poi di cercarne anche le radici.

Penso siano le parole, ad aver unito i tempi di ciascuno.

Parole ancora oggi, nuove.

“Eri così carino, eri così carino, pigro di testa, e ben vestito”… Quante volte, capita d’incontrare persone così ? In un’epoca di autorappresentazione continua…

“Produci, consuma, crepa”… Un imperativo che ora si è esteso anche a quelle parti di pianeta che, un tempo, parevano distanti, da una economia di capitalismo autoritario.

“Soffocherai tra gli stilisti, imprecherai tra i progressisti, maledirai la Fininvest, maledirai i credit cards”… Parole cantate nel 1990, e capaci di presentire la prevalenza dell’apparire sull’essere; lo scolorarsi delle ambizioni riformatrici; la scelta di far divenire tutto, un commercio, politica compresa; un capitalismo finanziario di banche predatrici e complici di un sistema profondamente iniquo.

“Non lo salverà dal cero il suo lucido pensiero, disinvolto faccendiero, del potere che verrà”… Già nel 1987 era visibile la trasformazione della politica, in pura amministrazione di interessi economici; una trasformazione, ancor oggi operante, che sarebbe esplosa in una corruzione generalizzata e in una indiscriminata predazione di risorse pubbliche, ma che avrebbe avuto un risvolto ancora più amaro: disamorare gli italiani dalla cosa pubblica; fargli pensare che tutti “sono onesti, e tutti sono pari, e tutti hanno le palle democratico-popolari”… e che la politica sia solo un altro mercato.

“E voi cosa volete ? Di che cosa vi fate ? Dov’è la vostra pena ? Qual è il vostro problema ?”… Racconta un mondo in cui tutto va bene, perché tutto deve andare bene, e se per caso sembri che qualcosa non vada esattamente come dovrebbe, basta imbrogliare il proprio cervello; con l’alcool, con la droga, col gioco, con le notizie false, con i complotti che servono solo a cercare un capro espiatorio, su cui scaricare la propria viltà e la propria incapacità di interrogare la Ragione.

I CCCP avevano provato, in varie forme, ad incontrare l’Est, e il Medio Oriente, immaginando la possibilità di una conoscenza che permettesse dialogo; forse, troppo ottimisticamente, avevano immaginato che la musica potesse unire le sponde del Mediterraneo. Come molti, non avevano immaginato che dalla guerriglia afghana contro i Russi, dal 1980 in poi, finanziata dagli USA, sarebbe scaturito un islamismo radicale che considera nemico tutto quanto non si attenga alla lettera della loro Sharia, e se nel 1984, potevano cantare, con una venatura di sberleffo, che “Allah è grande, e Gheddafi è il suo profeta”… a Melpignano, nel 2024, si domandano, colpiti dal terrorismo e dai morti innocenti, “Chi è grande ? Chi è profeta ?”.

Ma è sul lato B del 45 giri “Oh ! Battagliero” del 1987, che trovano le loro parole più sconsolate nel guardare la nostra umanità: “Un ciclo siamo macellati, e un ciclo siamo macellai”… questa terribile trappola della Storia, tra guerra e Pace, da cui non riusciamo ad uscire liberi; da cui non ci separiamo, espellendo la guerra dalla Storia, perché sembra quasi che ci piaccia non avere alternative, se non il ripetersi sanguinoso di una stagione in cui riempiamo i granai , e la stagione successiva, in cui riempiamo gli arsenali.

E il bisogno d’amore, infine, che, con parole mai pronunciate prima nella canzone italiana, così vulnerabili e arrese, fanno filtrare persino dal punk a perdifiato di “Curami”: “Curami, curami, curami, che ti venga voglia di me”, e fanno esplodere nel finale del concerto, con la struggente “Annarella” prima : “Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così, non dire una parola che non sia d’amore, per me, per la mia vita che è tutto quello che ho, è tutto quello che io ho, e non è ancora finita, finita”… e con l’ultimo brano, in versione acustica, allineati tutti sul palco: “Amandoti”, che prega: “Amami ancora, fallo dolcemente, un anno, un mese, un’ora, perdutamente. Amami ancora, fallo dolcemente, solo per un’ora, perdutamente”.

Non so bene, cosa abbiano fatto tutte le persone intorno a me, al concerto.

Io, per oltre due ore, ho cantato e ballato senza fermarmi mai. E tutto quello che ho scritto, m’è venuto in mente dopo, cercando nella mia memoria.

“Vorrei morire ora”, cantano i CCCP in “Svegliami”, che non era presente nella loro scaletta a Melpignano. Ma, se mi fosse accaduto, sarebbe andata bene così.

Non mi interessava ragionare sulla terribile svolta a destra di Giovanni Lindo Ferretti, o se questo tour, fosse un ulteriore omaggio, al loro presunto essere “Fedeli alla lira”.

Verso la fine del 2022, avevo letto di una raccolta di fondi, dal basso, per consentire ad un gruppo di giovani cineasti della SMK Factory, di realizzare un documentario, proprio sul concerto dei CCCP a Melpignano nel 1988, e io, nel mio piccolo, ho contribuito finanziariamente alla realizzazione di “Kissing Gorbaciov”, e mi sono guadagnato una copia della riproduzione dell’intero film, e sono anche io, un minuscolo pezzetto di “quell’embolo”, che proprio da Melpignano è partito, per dirla con le parole finali di Giovanni Lindo Ferretti, per far nascere in loro il desiderio di suonare ancora insieme.

Io non ho partecipato ad un rito di reduci.

Sono andato a sentire musica nuova e difficile, e mi è piaciuto parecchio; e mentre tornavo alla mia auto dopo il concerto, tra le campagne che profumavano del latte bianco dei fichi, ho pensato che, per una volta, avevo lasciato perdere ogni ragione, e m’ero solo abbandonato.

E’ un peccato, lo so.

Ma forse, a chi sia divenuto adulto, qualche peccato, può essere concesso.

Condividi su

Se hai trovato l’articolo interessante e vuoi discuterne con me compila il form sottostante o contattami all’indirizzo email:
messaggio@luigifiammataq.it

Consenso trattamento dati personali

14 + 8 =