Tra pochi mesi arriveremo alle festività di fine d’anno.
Ciascuno di noi provvederà, secondo le proprie possibilità, a far spesa, probabilmente in un supermercato della Grande Distribuzione Organizzata, per reperire tutto quanto serva a celebrare le feste, insieme a parenti ed amici.
Ci saranno le file, alle casse del supermercato.
E, ognuno di noi, mentre attende, sperabilmente con pazienza, il proprio turno di pagare quanto acquistato, lascerà magari vagare la propria mente, dietro pensieri, auspicabilmente felici.
Come cucinare una certa pietanza, o quanto sarà bello vedere i bambini che scartano regali, per esempio.
Per un istante, dentro i nostri pensieri, potremmo provare anche a vedere le persone che lavorano alle casse di quel supermercato.
E’ buona abitudine, per alcune aziende della Grande Distribuzione Organizzata del nostro territorio, mettere alle casse del supermercato, anche delle persone che, in teoria, dovrebbero solo fare formazione, perché non sarebbero neanche lavoratrici, o lavoratori dipendenti, ma “tirocinanti”.
Il cosiddetto “tirocinio formativo”, non è un rapporto di lavoro, tecnicamente; è una misura della Regione Abruzzo, alimentata da fondi nazionali, che consente alle imprese di avere presso di sé, un lavoratore, o una lavoratrice, per sei mesi, normalmente a tempo parziale, per esempio quattro ore al giorno, che vengono pagati solo con i soldi pubblici, seicento euro al mese, a titolo di rimborso, diciamo così.
L’impresa utilizzatrice non ha alcun vincolo ad assumere regolarmente la persona, ma quella persona, che non è una lavoratrice, o un lavoratore dipendente, ha tutti gli obblighi, secondo l’azienda, di un normale lavoratore subordinato.
E quindi, invece di fare formazione, va alle casse a lavorare regolarmente come tutte le altre lavoratrici e tutti gli altri lavoratori. Solo che lo fa, a seicento euro al mese, dopo un paio di giorni durante i quali qualche collega ha spiegato, più o meno, come funziona il lavoro, e sapendo che non ha alcuna garanzia che il suo impegno possa poi tradursi in una effettiva assunzione.
Ma quel tirocinante, mentre sotto le feste di fine anno è alla cassa del supermercato, sente su di sé tutta la pressione delle tante persone che fanno la spesa, e che vogliono pagare velocemente ed andar via, e tutta la pressione di una situazione, in cui la persona che lavora, può fare i conti col proprio futuro, al massimo solo per i prossimi sei mesi.
Comunque nulla, nulla che dipenda dalla propria volontà o dal proprio impegno, sembra essere importante.
Forse, mentre siamo in fila al supermercato, se ci prendesse un pensiero del genere, guardando la persona alla cassa che fa scorrere i prodotti sotto il lettore ottico, ci rattristeremmo, o magari, potremmo anche pensare che sia giusto così.
“I giovani devono farsi le ossa”.
Potremmo pensare.
E lo pensiamo magari, mentre in televisione, qualche ricco imprenditore, o qualche politico, accusa quegli stessi giovani di non voler lavorare; di non voler fare sacrifici. E lo pensiamo, magari, mentre qualche politico, in televisione, spiega che gli italiani dovrebbero fare più figli, altrimenti, gli italiani del futuro, non avranno più, solo la carnagione rosata, come se fosse il colore della pelle a stabilire l’appartenenza ad una cultura condivisa, ad un territorio, ad una comunità.
Chi ha potere, economico e politico, invece di mettere in atto politiche complesse che facilitino il futuro dei giovani, scarica su di loro, contemporaneamente, il peso della competizione economica, a tutto vantaggio delle sole aziende più furbe e ciniche, e la richiesta di assumere responsabilità per un futuro che non gli viene fatto vedere, per Legge.
La persona di cui racconto la storia, è una giovane donna di venticinque anni d’età.
A diciotto anni, ha cominciato a lavorare in un bar, con un breve contratto a tempo determinato. Poi, ha lavorato con qualche voucher, e infine, ha incontrato il tirocinio formativo, con una azienda della Grande Distribuzione Organizzata.
Facciamo per un istante finta, che il tirocinio formativo, sia stato utilizzato correttamente, dall’azienda. Facciamo finta per un momento, che, quindi, per sei mesi, l’azienda abbia formato la lavoratrice, a svolgere il proprio lavoro presso le casse del supermercato.
Al termine dei sei mesi, l’azienda, secondo la legge, non ha alcun obbligo di assunzione nei confronti della lavoratrice, che dovrebbe esser comunque contenta, d’aver imparato un lavoro; d’essere stata formata. Una formazione che potrà inserire nel proprio Curriculum, quando dovesse presentarsi in altri luoghi a cercare un nuovo lavoro.
( In realtà, nel nostro caso, il tirocinio formativo ha finito col durare dodici mesi, per una sospensione dal lavoro, durante il periodo del COVID ).
E invece, accade che l’azienda assuma la lavoratrice.
Ma la assume con un contratto di apprendistato, a termine.
Il contratto di apprendistato, è un contratto, si dice, “a causa mista”, vale a dire cioè, che prevede, sia una formazione, che vero e proprio lavoro.
Quindi, l’azienda della Grande Distribuzione Organizzata, dopo aver fatto lavorare, per sei mesi, alle casse di un supermercato, una persona che avrebbe dovuto essere formata, la assume, con un contratto a termine, per formarla a fare un lavoro che già svolge.
Tutto legale.
E nulla, di giusto, o corretto.
Nel nostro Paese, le leggi, sembrano essere fatte apposta, per eludere il loro senso stesso.
Un tempo, si potrebbe dire sin dal Medioevo, l’Italia era un paese di botteghe, anche di altissima arte, e di altissimo artigianato. Nella bottega si andava ad imparare, talvolta anche duramente. Giotto, ha imparato da Cimabue. Leonardo, ha imparato da Verrocchio.
Il contratto di apprendistato, dovrebbe essere una forma contrattuale che introduce una persona ad un lavoro complesso. E un datore di lavoro che abbia interesse a formare il sapere di una persona, dovrebbe essere doppiamente interessato a tenere poi con sé, quella persona che ha formato, secondo propri criteri e necessità.
Il contratto di apprendistato ha almeno tre caratteristiche appetibili, per le imprese; è un contratto a termine, senza alcun vincolo ad una assunzione futura; prevede consistenti sconti sul pagamento dei contributi; consente di avere in forza una persona retribuendola secondo un livello di inquadramento più basso, rispetto alle mansioni che svolge.
La funzione stessa del contratto di apprendistato è stravolta, quindi, dalle imprese, che se ne servono solo per avere le mani libere su una persona, e per abbassare il costo del lavoro.
Conseguenza non secondaria, causata dall’atteggiamento dei padroni, è che le aziende italiane non investono in formazione, in ricerca, o in innovazione, ma si limitano a scaricare il peso della competizione sul mercato, solo sul costo dei lavoratori e delle lavoratrici, che, quindi, deve essere tenuto il più basso possibile, e, per tenerlo il più basso possibile, è necessario esercitare un potere preponderante, nei confronti della lavoratrice e del lavoratore, che perciò devono essere soli, di fronte all’impresa e sempre posti di fronte alla disoccupazione, come unica alternativa rispetto a salari non dignitosi e trattamenti spesso inaccettabili.
La giovane donna, è quindi assunta con un contratto di apprendistato, che per lei, è comunque un progresso, rispetto alla propria condizione precedente, e, naturalmente, vive in modo positivo, i tre anni di durata del suo contratto. E’ disponibile; lavora spesso in doppio turno, e quindi ad orario pieno; spesso lavora il sabato o la domenica. Per aumentare il proprio salario, per mostrare all’azienda che, per lei, è importante, quel lavoro, che compie senza mai permettersi un’assenza, o andando a lavorare anche con la febbre.
La giovane donna vive ancora in casa dei suoi genitori, e quindi, una parte del suo salario, può risparmiarla, mentre poco illustri economisti, magari prestati ad una poco illustre politica, si lamentano dei giovani italiani “bamboccioni”, che non abbandonano le case dei propri genitori.
Ma, da sola, con quale salario avrebbe potuto pagare un affitto, bollette, spesa giornaliera, vestiti, automobile e benzina, cure mediche ?
Con quale salario, avrebbe potuto costruirsi una famiglia, se lo avesse voluto ? Certo, in questo caso, avrebbe potuto ascoltare i consigli di un poco illustre politico, cui altri poco illustri politici hanno recentemente pensato bene di intitolare un aeroporto, e provare a legarsi ad un uomo ricco che la mantenesse…
Viviamo sotto un gigantesco torchio che ci stritola, e tutti ci spiegano che dovremmo essere felici, mentre ci mozzano il respiro.
Naturalmente, un mese prima, che il suo contratto di apprendistato scadesse, l’azienda della Grande Distribuzione Organizzata, ha provveduto a chiamare altre persone con un nuovo tirocinio formativo: servivano per sostituire lei, che, poi, sarebbe stata mandata a casa, senza più lavoro, e aggirare così, quelle normative che prevedono, a certe condizioni, un blocco temporaneo delle assunzioni, quando si licenzi qualcuno.
Il ciclo può ricominciare, per una azienda incurante di ogni effetto sociale del proprio comportamento.
Resto sempre sorpreso, dal vergognoso mutismo delle associazioni d’impresa ( Confindustria, Confcommercio, e tutte le altre ), che tollerano, tra i propri associati, comportamenti lesivi di una corretta concorrenza. Francamente, la loro funzione, ormai, è limitata solo a piangere risorse pubbliche, e a promuovere condizioni ancora peggiori per lavoratrici e lavoratori. Nessuna attenzione al futuro del Paese, che vorrebbero legato solo ai propri egoismi di breve periodo.
Mentre siamo in fila, alle casse del supermercato, durante le festività di fine anno, proviamo a immaginare i pensieri di chi viva, tutta la propria giovane vita, sempre sotto l’orizzonte di un termine posto al proprio lavoro. Un termine, che nemmeno tiene conto dell’impegno e della volontà di una persona nello svolgere quel lavoro.
Sono pensieri caratterizzati, in larga parte, dalla paura. Anche quando non li si racconta.
Le persone devono, aver paura. E’ così che si accettano le imposizioni del potere.
Dopo questo ultimo licenziamento, la giovane donna, decide di ascoltare la voce delle proprie passioni, e desidera dedicarsi al lavoro della cura del corpo. Usa, una parte dei suoi risparmi, per pagarsi costosi corsi formazione privata. Vuole aprire una propria attività.
Qualcuno riesce ad immaginare una giovane donna che si rechi in banca, e chieda di essere sostenuta per dar corpo al sogno di svolgere un lavoro che coincida con le proprie passioni ? E, ancor più, qualcuno riesce ad immaginare una banca che le conceda credito ?
E questa è un’altra grande strozzatura italiana.
Un sistema del credito, che concede risorse solo a chi già abbia potenti garanzie finanziarie, o potenti amicizie politiche, e che, quindi, anche per questa via, svolge l’unica funzione di perpetuare le diseguaglianze, e di impedire che chi sta in basso, possa prendere un ascensore che lo porti più in alto.
In basso si nasce, e in basso si deve restare. Chi sta in alto, non si discute.
La giovane donna, dice di non vedere il proprio futuro; lo stato emotivo che meglio conosce, è l’ansia. Eppure, ha una vita, davanti a sé. La sua storia può cambiare.
Ma la storia cambia, solo, quando si comprenda che se si continui a percorrere la strada che ci ha portato sin qui, quella stessa strada non può portarci altrove.
Occorre cambiare strada. Uscire dall’asfissia. Guardare la realtà, per come è davvero, e cambiarla.
Oggi, quella giovane donna, decide di contare solo sulle proprie forze.
Le posso solo augurare di riuscire, e di trovare un’altra strada da percorrere.
Io, per me, mi tengo la rabbia che si può provare, quando tanti pensano d’essere di fronte al mare, e sono solo seduti sulle rive di uno stagno, dall’acqua ferma, e maleodorante.