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– La Pace, e la guerra possibile –

Mar 26, 2024 | 2024, Commenti

Talvolta, prima di scrivere, è bene fare delle premesse.

Io non ho specifiche competenze, per discutere di diplomazia, o di politica estera, o di equilibri mondiali. Non ho informazioni sufficienti, né tanto meno, segrete. E non desidero atteggiarmi a politologo, o profeta, o indovino, e neppure a presuntuoso.

Sono un cittadino italiano, e provo ad osservare quello che accade e, se mi riesce, a capirne le dinamiche. E mi interrogo sul futuro.

Inizio col domandarmi se un cambiamento profondo, nella vita del pianeta, debba, o meno, necessariamente passare per eventi traumatici.

Se guardiamo alla storia passata, verrebbe da dire che profondi cambiamenti nella vita degli esseri umani del pianeta, vi sono quasi sempre stati, all’indomani di grandi eventi traumatici. Catastrofi ambientali, guerre, ad esempio.

La nostra specie, per quanto le fosse possibile, non ha mai prevenuto gli eventi; semmai ha esercitato le sue capacità, per adattarsi ad essi. Quando era possibile, ovviamente: quando il Sahara è divenuto inabitabile, l’uomo ha potuto solo migrare da lì, e cercare spazio altrove; che è anch’essa, una forma di adattamento.

Ma questa, è solo una lettura possibile, della nostra storia: non significa che sia l’unica lettura possibile, né che il futuro ci riservi sempre lo stesso copione.

Oggi, per quanto non ancora universalmente riconosciuto, e per quanto contrastato da Stati e aziende che ricavano enormi profitti dall’attuale forma nell’uso di energia, l’umanità intera è di fronte ad una crisi di tale portata, da non consentirle, in quanto specie, nessuna fuga adattativa. Il cambiamento climatico ridurrà le zone abitabili del pianeta, e su di esse si eserciterà la pressione dell’intera popolazione mondiale.

Qualcuno ha da offrire uno scenario diverso da questo, ma fondato su inoppugnabili dati di carattere scientifico ?

Nessuno, può farlo.

Per questo oggi, l’umanità sembra preda di una sindrome di rimozione di massa.

Noi tutti viviamo immaginando essenzialmente che, da una parte, il momento critico, sia spostato in avanti nel tempo, quasi certamente oltre l’orizzonte della nostra vita terrena, e quindi non si tratterà di qualcosa che, in prima persona riguarderà ciascuno di noi. Noi, nel frattempo, potremo solo vagamente attenuare il personale, o collettivo impatto sul clima del pianeta.

Dall’altra, immaginiamo, che qualcosa – una specie di attitudine benigna della Natura – possa comunque salvarci, magari, nonostante noi stessi: fidiamo in una sorta di religione della Vita, che, comunque, sarà capace di andare avanti, e portare noi con lei.

E nessuno sta intervenendo strutturalmente, per provare ad attenuare un cambiamento climatico che risente dell’attività umana degli ultimi 250 anni, almeno; comunque, quindi, non con la prospettiva di ottenere effetti positivi in breve tempo.

E nessuno interviene per questioni di potere, e di profitto insieme.

L’economia di Mercato, che ha avuto come motore energetico a basso costo, i combustibili fossili, non accetta che vi sia un cambiamento radicale, ma progressivo, in direzione del disimpegno da queste fonti energetiche.

E scatena, per questo, nel pianeta, continue e sempre più pericolose tensioni, tra Stati, e tra blocchi di Stati.

Una ridefinizione nell’uso delle fonti energetiche, inevitabilmente, produrrebbe una redistribuzione dei poteri, tra gli Stati, e tra le imprese, nel mondo, e anche un periodo in cui la profittabilità, nell’uso di fonti alternative, sarebbe ( magari in una prima fase non si sa quanto lunga ), compromessa, e comunque attenuata, rispetto alle attuali fonti energetiche fossili.

Per questo, la transizione ecologica è avversata, e, per questo, le potenze mondiali, ma anche singoli Stati, e imprese, e soggetti transnazionali della criminalità e del terrorismo, sono impegnatissimi nel tentativo di acquisire una posizione di preminenza, ora ( quando gli equilibri mondiali si sono resi instabili ), anche per porre un’ipoteca sul futuro.

Si ritiene, evidentemente, che questa forma dell’economia di Mercato, potrà in una nuova fase, forse, essere posta in discussione, e, per questo, coloro i quali da questo tipo di economia traggono profitti e potere, in questo momento, sono forti elementi di conservazione, e stanno stringendo ancor più la presa per assicurarsi della sua prosecuzione con questa forma, che non fa alcuna attenzione, o quasi, ai vincoli e alle regole poste dai singoli Stati, ma ne travalica sistematicamente i poteri, nella più totale indifferenza quanto agli effetti umani delle sue scelte.

Si ritiene inoltre che, in questa fase, in cui da tempo è venuto meno un equilibrio mondiale basato quasi esclusivamente su due blocchi di alleanze, sia possibile per molti attori, esercitare una propria egemonia, magari non totale, ma, per esempio, centrata su specifici campi strategici, in particolare nelle materie prime, e capace perciò d’influenzare le regole e i ruoli di potere nel pianeta.

A questo, s’aggiunge il venir meno di una legittimazione nell’uso del potere, centrato sulle forme della democrazia liberale e sul credito accumulato, vincendo il Secondo Conflitto Mondiale.

La moderna forma della economia di Mercato, non accetta più le regole della Democrazia, e pretende di esercitare il proprio potere senza alcun soggetto intermedio che protegga il singolo, il cui unico compito, è quello di produrre profitti per altri.

Questa forma di economia di Mercato, ha così delegittimato, dall’interno, i valori che tenevano insieme intere comunità statuali, e, nel contempo, ha operato senza mai dover render conto ad alcuno, degli effetti delle proprie scelte sulle popolazioni che ne sono state oggetto. Quegli stessi valori, oggi, non possono più essere presentati nei consessi mondiali, ammantati com’erano di “superiorità morale”; producono solo stridenti contraddizioni con la realtà, e il loro uso strumentale, li ha resi impresentabili ad ampie fasce di popolazioni, che ne hanno potuto constatare la distanza dai comportamenti effettivamente tenuti.

Una forma di economia di mercato, del tutto peculiare, per quanto storicamente fondata sul patto, spesso inconfessabile, tra imprese del settore e politica, è quella della Economia di Guerra.

In questo tipo di economia, l’impresa “fortunata”, realizza il sogno di ogni imprenditore: quello di vendere il proprio prodotto ( in questo caso allo Stato ), a qualunque prezzo possa richiedersi, poiché è divenuto un prodotto fondamentale, per l’esistenza stessa di quello Stato che lo richiede. E questo deve avvenire senza tensioni sociali, perché tutti partecipano dello sforzo dello Stato, di sopravvivere.

In questo momento storico, quindi, le condizioni perché un evento traumatico, o una pluralità di eventi traumatici, possano essere auspicati e pianificati, e posti in essere, per produrre un nuovo cambiamento, nel senso di un ulteriore asservimento delle persone, per un verso, ad una economia fondata esclusivamente sul consumo, e per l’altro, a forme di governo che richiedano sudditi e non cittadini, sembrano essere particolarmente favorevoli.

Le industrie militari premono per poter produrre sempre di più; le società civili sembrano essere travolte da spinte contrastanti, ma tutte facenti perno sull’idea di paura: dell’impoverimento ( e le diseguaglianze hanno raggiunto livelli non conosciuti prima, se non in periodi storici centrati sul feudalesimo, ad esempio, o nell’ancien regime ); del diverso. Le democrazie liberali sono poste in questione nei loro valori ispiratori da un Mercato che non ammette più alcun vincolo. Le autocrazie e le dittature, che sono la forma con la quale è governata la maggioranza della popolazione del pianeta, mentre subiscono, quasi per intero, le regole di un Mercato che non accetta limiti di sorta, comprimono ogni libertà al proprio interno, per consentire un controllo assoluto del potere che permetta alle classi dirigenti locali di perpetuare sé stesse.

Nel mondo non vi sono più modelli sociali, politici ed economici, che possano proporre sé stessi come “migliori”: il nazionalismo dei Paesi che un tempo erano colonie, e alcuni dei quali oggi sono potenze mondiali dotate di armi atomiche, spinge a rifiutare un modello “occidentale”, che percepisce come profondamente ipocrita ed ingiusto, anche nel non risolvere mai, conflitti che comporterebbero scendere a patti e riconoscere le ragioni di chi, da tempo, meriterebbe di autogovernarsi e di trovare soluzioni pacifiche per la propria sopravvivenza, come ad esempio il conflitto-simbolo tra Israele e Palestina, la cui incomponibilità è un formidabile pretesto per chiunque abbia interesse a sviare l’attenzione dalla condizione delle proprie popolazioni, e a mobilitare contrapposte truppe. E che percepisce anche come falsamente paritetico, per la sua pretesa di continuare a sfruttare le risorse mondiali per il profitto di pochi.

Dovrebbe essere grande, quindi, l’attenzione e la vigilanza, su ogni segnale, che conduca verso la ragionevolezza di un conflitto armato.

Da un punto di vista linguistico, il tema della guerra, e del conflitto, e della polarizzazione tra un “noi”, sempre più esclusivo e arcigno, e un “loro”, sempre più inaccettabile e persino culturalmente inconoscibile, è stato oggetto di una crescente tentativo di porre sé stesso al centro del pubblico discorso, negli ultimi anni, attraverso un uso militare dell’informazione e della comunicazione.

Il senso comune delle persone, attraverso i mass media tradizionali, e ancor più attraverso i social, ha sedimentato, e dato loro legittimità, nel mondo, a culture separatiste e autocratiche; violente e razziste; irrazionali, in generale. Queste culture fanno rumore, si muovono; conquistano consensi attraverso una lettura semplificatrice e consolatoria della realtà, e premono per il conflitto contro “l’altro”.

Non sono maggioritarie, ma si comportano da maggioritarie, ed aspirano ad esserlo, in senso anche totalitario, secondo la specifica definizione costruita da Hannah Arendt.

E quello che diventa “pronunciabile”, diventa possibile.

In questo caso, per meglio dire, sta rendendo possibile un conflitto globale, quello che un esercito di persone impegnate davanti allo schermo di un computer, pagate da governi, e anche imprese, ha diffuso nel tempo, come “cultura”, per influire sulle opinioni pubbliche di Paesi considerati nemici, o avversari, o potenziali e fondamentali mercati. Questo esercito invisibile ha combattuto attraverso notizie false e stimoli diretti a disinformare e contrastare valori ritenuti “empi”.

La Russia ha esplicitamente parlato dell’uso di armi nucleari, nel conflitto in corso con l’Ucraina. In Europa, le diplomazie, e i circoli militari, prendono in considerazione una ipotesi del genere. Inevitabilmente, qualcuno, per una simile occorrenza, starà pianificando una risposta.

Bisogna fermarsi prima.

In realtà, bisognerebbe fermare tutto, e restituire potere alla possibilità di negoziare in una Assemblea delle Nazioni Unite cui venga conferita nuova e più forte responsabilità.

E in quella sede trovare composizione anche per altri conflitti che, storicamente, insanguinano il nostro mondo, e che potrebbero insanguinarlo in modo ancor più drammatico ( basti pensare alla situazione esistente tra Taiwan e la Cina ).

L’Europa ha una enorme responsabilità; e alcuni Stati dell’Unione, potrebbero parlare in questo senso, insieme, anche prima delle prossime Elezioni europee, e, soprattutto, di quelle americane. Occorre avere coraggio.

Non si può consentire ad automatismi nuovi, rispetto a quelli che hanno innescato la Prima Guerra Mondiale, ma eguali, nel loro costruire una ineluttabilità meccanica, di portare il mondo intero sull’orlo di un conflitto che potrebbe non essere solo traumatico, ma addirittura devastante per le sue conseguenze, ed in grado potenzialmente di pregiudicare l’esistenza stessa della vita.

Occorrerebbe anche una nuova forma di attivismo social, che cessi di interpretare tutto nel dualismo amico/nemico, ma che incoraggi invece le possibilità di incontro e confronto; di mediazione dei conflitti.

Occorrerebbe che le Democrazie cancellassero da sé tutti quegli elementi di ipocrisia internazionale che le rendono oggi un interlocutore debole e non credibile; ed occorrerebbe che le Democrazie fossero capaci di emendare sé stesse introducendo al proprio interno elementi giustizia sociale e di redistribuzione delle risorse e di responsabilità globale.

Sono le Democrazie, le uniche che possono cambiare e prevenire il conflitto. Nessuno può aspettarselo dalle dittature o dalle autocrazie.

E dentro le Democrazie, questo compito di stimolo, spetta, in primo luogo, a quei soggetti sociali e politici che si richiamano a valori di Libertà, di Giustizia, di Eguaglianza, di Fratellanza.

E concludo scrivendo, che esiste certamente una “sindrome di Monaco”: la paura cioè che concessioni fatte a dittatori e autocrati di vario tipo, produca non un loro ridimensionamento, ma la legittimazione a più ampi e terribili appetiti. Si tratta di un rischio che può essere evitato, se si sia consapevoli che è necessario essere, nel contempo ed in modo nuovo, un possibile modello per il mondo. Un modello che abbia in sé la possibilità sociale della Giustizia e dell’Eguaglianza; un modello che cerchi di ampliare la partecipazione e la responsabilizzazione delle persone, e non la loro indifferenza. Un modello che si prenda carico, generosamente, del progresso degli altri; un modello che, attraverso un principio non indifferente di laicità, consenta a tutti di manifestare la propria fede, se questa non collida con gli ordinamenti fondamentali dello Stato. Un modello che preveda, nel rapporto tra Stati, la vera ricerca di reciprocità e pari dignità di interlocuzione.

Un modello capace di parlare ai popoli del mondo, per mostrare loro una possibile e conveniente strada di convivenza.

Spetta alle Democrazie, il primo e coraggioso passo per disinnescare i conflitti in corso e avviare, nel tempo, un percorso di pacificazione.

Io, francamente, spero di essere in errore su tutta la linea.

Spero che non esista il cambiamento climatico, e neppure le tensioni internazionali presenti. E spero che vada tutto bene madama la marchesa, in Italia compreso.

Ma la mia speranza, ultimamente, è spesso tradita, ed in modo assai doloroso.

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