Strano mi appare
il ritorno della luna in cielo
perché mai mi accade
di ritrovare un mio sogno andato.
Una macchia di luce dentro
il nero di un cavallo ombroso
che mi calpesta, correndo libero
mentre alzo le mani a mia difesa
e resto, nel buio di questa parte di mondo
che ti perde, luna, e ti cerca
scansando nuvole e mare.
Splendi luna, tra le mie braccia,
domani, ti prego.
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Sono stato via,
senza andarmene mai,
da quelle canzoni raspose
come strade che non vogliono nomi,
ed ho febbre dei rami
e degli alberi e di film
ancora pieni d’ombre
e delle prossime albe
che canterò dentro di me,
ogni giorno che mi sarà dato.
Mi sono accorto d’aver fatto cose
di cui non ho vergogna
e di voler ancora dare
anche se non ci saranno mani
tra le mie.
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Oggi è uno di quegli altri giorni
che dal cielo piove un giorno che sembra uguale
a tutti quei giorni sparsi che
nella memoria, s’impastano col fango e col vuoto
e fanno freddo, perché non ho di che coprirmi
la pelle nuda e le ferite, che hanno smesso
di diventare cicatrici e persino di colare
sangue e,
restano solo aperte, come un fiore vinto.
E proprio oggi capisco
quanto fosse sempre così,
tutto spento, quando non soffiavo vento
tra le foglie, e allora, oggi diventa,
finalmente, un bel giorno senza speranza.
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Con te, avrei voluto traversare la notte,
e con te avrei strappato le vele al vento e
con te avrei contato ogni stella del cielo
e raccolto ogni granello di sabbia e
con te avrei salvato le luci di ogni candela
e, con te, avrei cercato le strade delle volpi
e percorso i voli di rondine e
con te avrei imparato ad essere uomo
io che sono sempre stato niente.
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Ho odore d’arancia, tra le dita,
e rosso di melograno
in un piatto sbreccato;
sul cotto di un camino, petali di tulipano
sono caduti da un bicchiere piegato
e guardo, oltre il vetro, la notte sorella
che m’aspetta, per rimediare
del giorno al dolore.
Ma senza riuscire mai.
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Sono uscito a notte
per accarezzare gli angoli di strada fredda
quelli senza luci e senza sogni
e gli ho raccontato
l’odore di una partenza
il suono della guarigione
i preparativi di una festa
l’attesa di una parola amata
e m’è sembrato di coprirli
come dentro un letto caldo
un abbraccio forsennato.
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Era aerea, nel camminare,
e i suoi piedi nudi non gualcivano
le foglie a terra cadute
e si scaldava l’aria, dei passi suoi.
Ero pesante io
più di un ramo spezzato dal vento
e ogni mio inchino
rompeva le tegole dei tetti.
Sfioravo le sue ali di farfalla
per imparare un suono antico
che non mi era dato
e ancora mi bacia quella musica.
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Non li sento più gli orologi
che mi separano dalla nostra casa
e neanche immagino il bisogno
di arrivarci.
Ho nascosto il sonno alla notte
e il respiro al giorno
e il mio volto allo specchio,
ma non riesco a scomparire.
Le vedo ancora, le mie scarpe
affondare nella neve e pure,
andare avanti
mentre non ho più, un luogo dove andare.
M’asciugo, di ogni lacrima e sentimento
come un’erba trasparente e senza più
pioggia.
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Eccomi
davanti alla mia notte.
Con un dito, ci scrivo sopra
tutte le parole che non mi hanno detto
e anche tutte quelle
che mai avrei voluto ascoltare.
Con una mano cancello i silenzi
e lascio la musica.
Abbraccio il buio che dentro mi scorre
e bevo, il freddo della mia vicina assenza.
Poi accendo un fiammifero
e mi brucio gli abbracci
che desideravo.
Eccomi,
entro nella notte
indifferente. Finalmente.
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Mi capita, che la vita mi passi accanto
e, appena, mi saluti.
Ha scelto di non guardarmi negli occhi
nè di fermare il mio volto in uno specchio
nè di chiedermi, se dentro, io vi veda qualcosa
oltre il mio niente
oltre il mio amore per lei, vita
senza misura, e senza ali.
Rispondo, al suo saluto
e scompaio, ad un suo gesto della mano
che cancella
la mia vita.
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Vorrei a piedi nudi camminare per la città
sentirne le lacrime che piango
e il vuoto che mi riempie le vene
e ferirmi vorrei dei chiodi che mi fermano.
Sentirei l’aspro asfalto di ogni rifiuto
che ingoio e cerco e
non sarebbero freddi i piedi miei
ma caldi di desideri e vino.
Ogni strada calpesterei
e il bruttame e l’erba sfinita
perché voglio ancora camminare
nonostante tutto il dolore mio.
Unica cosa mia.
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In fondo ad un bicchiere di assenza
ci trovo il rosso del sangue
che ho scelto di avere ancora.
Sulle sedie vuote del mio tavolo
pesano le parole che non ti ho detto e
dalla finestra, il cielo vola via
lasciando squillare a vuoto un telefono.
Sto disegnando ombre con le dita
perché di luce, non me ne è rimasta
una scintilla neppure.
Ne ho abbastanza di freddo,
scalderà tutto il mio nuovo anno.
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Con pazienza, e amore, do forma
al vuoto freddo che m’ingoia e
con attenzione precisa
ascolto il gocciolante silenzio
della paura che si spande
come un vento caldo,
senz’alberi o monti a trattenerne brandelli.
E impegno pongo
a ricercare sulla pelle mia i segni
dei morsi del male nero,
lividi, senza gioco, gialli
come una lancetta rimasta ferma.
Conto impaziente i giorni
che mi separano dal cuore
estratto dal petto, e guardato
seccarsi, finalmente.
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C’era una strada,
che iniziava appena chiusi gli occhi
sul sole lento in cielo, d’estate,
nascosta dalle persiane ocra
dei pomeriggi di lenzuola bianche
e mani unite.
Dalla casa dei sogni arrivava alla stazione
senza bagagli e biglietti da pagare,
fino ai treni, presi per fuggire allo scirocco
e ai passi fermi che non volevano andar via.
Ora ha perso, quella strada,
le sedie la sera e i bambini fortunati,
ci sono giornali che rotolano via
e storie finite.
Per questo mi piacerebbe
spegnere l’orologio e andar via.
E di me, non avere pietà alcuna.
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Salterei, dal tetto di un letto
per finire un altro giorno di silenzio,
avvolto in una coperta fredda
d’indifferenza setosa e morbida.
Cadrei a terra, col volto rotto
e col mio sangue dal naso
che nasconda il rossetto sulle mie labbra,
ma senza farmi male tanto
solo quello che basta a smettere
di camminare in tondo cercando
tutte le porte chiuse su cui ancora
potrò sbattere.
Proverei, a rialzarmi, come sempre
faccio, dopo ogni tradimento,
ma non stavolta forza saprei d’avere
nulla e non m’importa però.
È ora che finiscano i colori della giostra
di splendere al sole. Inceneriti.
Da un gran fulmine senza temporale.
Che io torni polvere, che io sia, la polvere
che non ero mai stato.
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Le sento correre, le vene del collo,
per la fatìca di oggi,
che mi son rotto le unghie
a rampicarmi al cielo.
Senza successo e anzi
di più sono sprofondato
tra i carillon di giostra
senza riconoscere i miei ricordi
di bambino che guardava.
Arriverà il sonno, a portarmi nella notte,
dove s’accucciano i randagi
e dove le carezze non arrivano mai.
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Non torno a casa,
vado a raccogliere la mia strada,
lontano, dai passi che conosco.
Né cerco farmaci
che mi guariscano dal male.
Guardo in alto, verso la luna
e saprò dove trovarmi.
È dove sono stato sempre,
senza giochi e volti amici,
in un angolo di marciapiede
ad imparare a camminare
senza nulla tra le mani.
Solo le mie parole,
in esse credo.
Altro non ho.
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Cerco, luoghi dove nasceranno fiori,
tra le erbe arse dei monti
e pagine bianche colme di inchiostro
ancora da scrivere
e il rosso cerco
da cui emerga il corpo nudo
di un infinito desiderio
e dentro questa notte
non cerco più il sonno e la memoria placata
ma il mattino feroce
di luce ghiacciata,
mentre rompo a morsi la finestra
che mi separa dal mondo.
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Era solo un sogno,
aggrappato a un ramo
e il vento l’ha sperso.
Tagliato, in mille foglie
seminate in strada, in terra,
tra le mani di un bambino.
Strappato, in scintille
che saranno fuoco.
Ridotto in lacrime di pioggia,
raggrumate in risacca di nuvole.
Era solo un sogno, il mio.
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Tutto il vino, tutto questo vino del mondo,
di colore rosso, o porpora o ambrato,
o d’oro e anche di sangue scuro
senza un mare da nuotare,
tutto questo vino urlato dal vento,
schizzato sui muri,
sulla mia camicia bianca e le mani
e il volto, come una pozzanghera
che si contrae e respira,
tutto questo vino ho immaginato
coprirmi e farmi dormire magari
finalmente, gonfio come un sacco vuoto
di me.
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Avevo una promessa di cielo
nascosta in un quaderno
e forse s’è persa tra le righe,
o senza abbracci s’è gualcita.
Adesso ho una notte senza stelle
e la salsedine m’ingrigisce una conchiglia
che non ascolta più il mare.
Metto le mani in tasca e me ne vado.
C’ho lasciato il cuore
in quel quaderno di parole frantumate.
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Un muro scrostato, incontro camminando
tra i sipari di luce dei lampioni
e le ombre dei miei passi e mi fermo.
La pelle d’intonaco slabbrata disegna
un volto di donna che guarda
oltre me e l’angolo di piazza lontano.
Sei tu, disegnata su quel muro
dai miei occhi spersi e sebbene
allunghi le dita, non tocco
quelle linee pronte a svanire
col primo vento, per non perderti
ancora, e sempre.
Riprendo la strada, sicuro tu
mi stia guardando ora allontanarmi
e non mi chiami.
E vorrei non voltarmi.
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Inermi pomeriggi di gioco
dalla pioggia portati via
e dispersi, entro una finestra
a guardare il mondo, separato
dall’aria libera e dal desiderio
d’oltre andare sempre e mai
fermare il respiro e il cuore veloce.
Ho deciso d’uscire nel freddo
perché nulla mi porti via
il cielo basso di paura e la nebbia
ch’è foglia agli alberi e
questa terra bagnata
che odora di muschio e di tempo
che sarà ancora. Per me.
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Avevo promesso, che non avrei avuto
vele nere al vento, di ritorno
al mio porto.
Avevo promesso che mi sarei fermato
sull’isola tra i gabbiani e solo
sarei rimasto al faro
per guardare sulle mura di città a notte
se tu passassi ancora
e guardassi, oltre il confine del mare.
Avevo promesso che in ginocchio
avrei pregato la notte di andar via
dai tuoi occhi.
E tutte le promesse ho mantenuto.
Per questo ora ho freddo,
coi piedi nudi nella sabbia
da solo, come un cane bastardo.
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Niente mi difende
dalle mie mani fredde.
E niente mi difende
dal rumore dell’alcool e
nulla voglio che mi difenda
dalla semplice e linda indifferenza.
Sera, s’e’ fatta, anche tra le luci
che galleggiano sul mare del porto
e nessuna barca più rientra ora.
Sto seduto sul molo, coi piedi sospesi
ad ascoltare le corde tendersi sotto le onde
e dal fondo dell’acqua non mi difendo;
ci guardo il mio volto, deformarsi,
col vento uscito dagli orci,
portato via, dalla tempesta.
Da cui non mi difendo.
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Dicono che il cuore si fermi
col freddo.
Si ferma il cuore quando
nessuno lo guardi.
S’allontana allora in silenzio
come un ramo spezzato
da arroganza metallica
e lascia colare linfa, e foglie,
fino a terra
fino al giorno che sa d’essere notte.
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Poggio la testa su un cuscino e
sento respirare veloce il cuore
che scrive col sangue, su un fazzoletto
bianco, una favola da bambino
vivace, che sbatte e lacera,
la pelle e lascia arcobaleni
sui sassi, e corre, dietro un pallone
di cuoio rosso e blu, diventano
le labbra, fredde, come il ghiaccio,
sul naso, che piange, e cola, perché
s’è fermato il cielo, di andare
dietro le nuvole; draghi e fantasmi,
viste da terrestre fantasia, prima,
che io smetta, finalmente,
d’aver paura, a dormire, col mio cuore
veloce, pieno di niente.
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Da qualche parte, farà caldo,
e ci saranno sguardi amichevoli
e risate, e mani che si tengono insieme.
Da qualche parte, ci saranno passeggiate aperte
e abbracci, che sciolgono il freddo.
E da qualche parte ci sarà vino,
e fame, e parole e risa.
Da qualche parte ci saranno storie e
senza spine fiori, e promesse.
Io sto sotto la luna che cresce
ho in tasca schegge di terra
e una corda antica.
Cerco una scala, per arrampicarmi
al cielo.
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Certe volte, mi siedo, nel buio.
Provo a respirare piano
per non disturbare l’aria e
ascolto, ogni assenza che ricordo
e risale in me, come se potessi
raccogliere un ciottolo, dal fondo
della luna, nel pozzo.
D’essere stato chiuso, a chiave,
nel buio, ricordo, e le mura
avvicinarsi a me.
Aspetto il buio che non ha tempo.
Muovo la mano, e scrivo
le parole che vorrei ascoltare
e cancello, quelle che ho detto,
senza ascolto mai.
Ci trovo mie luci nel buio,
timide, fragili, incredule
a te le affido,
perché tu possa farle essere fuoco.
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Poggio, i piedi nudi sul pavimento
e sento la sabbia scura d’inverno,
cammino, e il desiderio d’arrivare
nasconde il freddo.
Il mare feroce era solo una sfida
a scendere più al fondo, per trovare
acqua calma, appena spinta dalle onde,
il rumore restava lontano,
come un dolore in tregua.
Riemergere, per urgenza di respiro,
restituiva solidità alla paura e necessità,
alla riva salda.
Ora alla finestra buia avvicino le dita,
e resto separato dalle ombre, e non ho
luoghi che m’aspettino e rompo
il vetro, col sangue del mio orizzonte.
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Da ridere di me, mi viene
da lasciarmi appeso a una sedia, mi viene
da andarmene via, mi viene
da ogni posto dove sia stato
da ogni strada dove abbia strisciato
e da ogni parola io abbia detto.
Solo il mare, mi terrei,
perché ci affogherò dentro un giorno,
come fosse una bottiglia di rosso
vino buono e caritatevole
con me, che nuoto, fin oltre
ogni mio respiro.
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A volte, i rumori lontani
faccio finta siano l’annuncio che desidero,
una parola immaginata, una traccia
nell’erba, una carezza che rincorro.
Io lo so, che sono un tuono,
un vento, una caduta, o un albero
che racconta.
Ma mi piace illudermi,
mi piacciono le storie che
mi racconto.
Perché mi fanno andare,
fino a quell’orizzonte che mormora e
m’inganna. A restar fermo
di morire, mi pare.
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Ci sarà un’ultima volta
che camminerò al buio
e un’ultima volta che
ci sarà una casa, ad aspettarmi e
un’ultima volta ancora, in cui
scrivere potrò le mie dita vuote.
E quando sarà
questa volta ultima io
lo saprò che è l’ultima,
come sapevo l’ultima carezza
che ho sognato, di ricevere.
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È fondo il mare, di notte.
Scintilla di luna e d’occhi segreti
di preda in cerca.
Io son seduto, sulla sabbia bruna
ad ascoltarne le storie.
Di quell’amore che avevo,
perso tra le stelle e la schiuma
tra le mani mie che avrebbero carezzato
le spine anche, purché sue.
La fine del mare è una linea perla
solcata dalla luce del faro
ad ogni battito del mio cuore
che si ferma, aspettando
la prossima onda calda
che mi sommerga magari per sempre.
D’un amore che avevo
blu come l’ombra di una sorte avversa.
Le storie del mare pregano
alle mie ginocchia coi colori delle piastre
nelle chiese vuote coi legni
che odorano di salsedine.
Mi copro, perché non ho fuoco
né amore più da dare,
solo una bottiglia vuota
piena di baci che non ho dato e
la butto in acqua
perché trovi un’isola di maghe
e mi bruci, in eterno, questa sola
lampada che ho in me,
per tenere il buio lontano ancora
dalla mia via.
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Del mio mattino scomodo, e freddo
ho orgoglio,
e delle mie mani semplici, e vuote
ho orgoglio
e anche dei sogni che non tocco più
ho orgoglio
e della mia fatica, piccola,
penso bene,
delle mie parole senza profitto,
ho piacere, anche se ignorate.
Del mio orgoglio, del mio piacere,
del mio bene, non ho cura alcuna.
Vivere, ora, è solo un fiore passato.
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Immagino, il sapore del cielo a notte,
trafitto dalla luna. E di una nuvola
che mi si spezza nel petto ascolto
il tuono.
E colarmi il sangue dalla fronte sento
per il colpo d’una spada e
sulla schiena mi brucia la frusta
del vento, acceso.
Sola la bocca resta secca
d’acqua e di sogni.
Potrei tenermi tutto dentro
e invece mi urla
questo dolore del vivere
e lo vado a posare
sulla soglia di una porta chiusa.
Che resti li. Da me lontano.
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C’era una schiena di luna,
oltre il monte, nel cielo lontano
e io non potevo toccarla.
Saliva da levante,
come un sole notturno
che aspettava i lupi,
e non potevo toccarla.
Aveva luce sabbiosa
dietro le nuvole pigre
e oscurava le stelle e
io, non potevo toccarla.
Vado a nuotare, nel mare di notte
quando è marea alta e tempesta
ci sarà un’onda pietosa, che
prima d’arrendermi all’acqua
mi porterà fino alla luna
per toccarla, e poi respirare
più, mai.
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Di notti che non devo pensare
è piena la mia borsa
e pesa sui muri
che mi sbriciolano le mani.
Certi odori di mais
non posso più cercarli
tra i monti rossi di tramonto insieme.
Certi pezzi di carta
mai più tagliati infinitesimi
da lasciare nel vento
non posso ricomporli che in me.
Misuro solo la distanza
che mi separa dall’alba
che ignoro, e che indifferente
mi porta alla luce, spenta.
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È solo un raggio di sole
che arde il buio nella stanza
entra di sbieco, da una finestra
e tra i rami,
e posa sulla mia mano.
È tutto quello che ho.
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Non mi va più, di contare
i pomeriggi andati via e
le stelle che non trovo, di giorno.
E non mi tengo più, un dito sul collo
per sapere se ho un cuore.
E cammino neanche perché
non ho dove andare.
So solo che non mi arrendo
e non mi nascondo
alla corda che si stringe.
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Cammino solo
per strade che non ricordo
tra fogli di carta mossi dal vento
e persone che non mi guardano.
Le luci, le insegne, i fari delle auto
moltiplicano ombre veloci
in terra e sui muri
e io non ho un volto più.
Non voglio sapere,
dove, forse, vado.
In tasca ho un vecchio biglietto di cinema;
volevo guardare ancora, quel film con te.
Vorrei restituire tutto quello che ho avuto,
e restare senza il nulla che sento,
per scrivere ancora,
sulle pagine buttate in strada.
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Era un odore di terra smossa
e passi pesanti
che rompevano pietre e radici antiche,
e mi lasciavano nuda la pelle
sotto un cielo colmo
di sole freddo e senza vento.
Avevo corto il respiro
e le parole perse in gola,
mentre guardavo le braccia dei monti
stringermi aspre, e severe, e lontane.
Cercavo un albero,
di corteccia fragile,
cui raccontare tutta la mia tristezza vera
e dove stridere le mie mani,
sino al sangue, che almeno a lui
desse nutrimento.
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Ho gelo, alle mani vuote
ho fame, e arde la gola di sete
e cammino, tra i ruderi
dei miei pensieri travolti.
Sorrido alla luna nascosta
e cerco stelle sperdute
sulle tegole dei tetti caduti.
Ci sarà dietro un angolo
un abbraccio
che mi sciolga le ginocchia
e finestre che s’aprano
e parole che io possa sfiorare.
A camminare continuo
fino alla prossima alba senza sogni.
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Me lo tengo, un sorriso
per quando romperò uno specchio
senza ferirmi il futuro.
E me lo tengo per quando cadrò dalle scale
senza rompermi il cuore.
Mi tengo un sorriso per i giorni
scoscesi, quando non saprò salire al cielo
e nemmeno toccare il mare.
Mi tengo un sorriso per me,
per regalarlo,
quando qualcuno ne avrà bisogno.
O per lasciarlo in un angolo
un sorriso almeno, buio non fa.
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Avevamo camminato insieme
su quella strada antica
affacciata su una spiaggia scura
dove il sole tramonta sanguinando,
sulle corde che tengono le barche ferme
a carezzarsi tra loro, in quiete.
E ora cammino, mentre il mare
mi minaccia, e la notte odora di tufo
e conchiglie su quella sabbia
che sotto i tuoi occhi,
sapeva di fiori e corpi infiniti.
Ci vengo a cercare il tuo nome
che avevo scritto su una pietra
che m’ero tolta dal petto.
Lo ritrovo su una vela
gonfiata dai miei respiri e
scolorata dalle mani che l’han tenuta
per non lasciarla strappare dal libeccio aspro, e ci piango sopra.
Perché è l’unica parola che ricordo.
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Mai ho saputo
da dove arrivino tronchi d’albero
nudi sulle spiagge d’inverno
scavati d’acqua e sale,
i rami mozzi alzati al cielo
in preghiera isterilita.
Strappati forse da un fiume gonfio
e trascinati al largo dal capriccio
di correnti cieche, e poi ancora
come vele strappate, spinti
da venti fuggiti dalle caverne
di illusioni finite, abbandonati sulla rena
a macchiarsi di sole bruciante
prima di tornare polvere, col tempo
di giorni indifferenti.
Li ho sempre carezzati
quei monconi d’albero senza gemme e nidi
come fossero il mio volto allo specchio
tagliato dal dolore
invisibile infine, col primo buio.
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Desiderio è una porta chiusa
da cui filtra alba e battito di cuore,
lontana, e che solo una mano
può aprirmi mentre corro
urlando la mia pelle
urticata dalle giornate facili
e placide, che m’avvicinano
la fine.
Desiderio sei tu
da mille e mille anni prima
che io nascessi
e decidessi di scomparire
ogni volta che pronuncio il nome tuo.
Mio.
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Avrei voluto oggi
fosse già domani, e poi ancora
fino a te.
Avrei voluto oggi
sentire sulle dita
le tue parole di resina profumata
e cancellare il deserto
del tempo attraversato.
Avrei voluto oggi
non avere la paura che ho
e avrei voluto sentirmi
primavera nel sangue
che mi spezzi le ossa e
le rinasca.
Avrei voluto.
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Guardo il cielo buiarsi
come un respiro che diventa quieto
dopo una corsa lunga
per giungere finalmente
ad un prato aperto e attendere
che arrivi la luce di desideri lontani
d’un abbraccio prezioso
di occhi che mi guardino e
di luna che consoli
l’albero di mele nudo ancora
e ritorto, senza frutti di peccato
gioioso e dolce.
Ho addosso la fatica di attendere
che ci sia un giorno
dopo quest’altra notte che arriva
e non avrò sonno e
sarò a spingere l’alba
perché mi porti da te.
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Sono questa terra
appena di pioggia bagnata
e sete ancora mi consuma
di te.
Questa terra, sulla pelle
annerita poco, dal cielo avaro,
cerca in sé i semi
che fecondino l’aria e
plachino, i denti d’angoscia arrotati.
Se camminassi tu su questa terra,
nudi i piedi tuoi,
s’ascolterebbe vento che apre porte
e sbrana l’acciaio delle catene e
mi libera, di notte eterna.
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Dal tempo della luna sono separato
e le gambe mi bruciano
di tensione, come un vetro di finestra
sbattuto, e sbattuto ancora dal vento.
Ho iniziato a contare il tempo,
da quando ho dolore.
Amico mio dolore
che mi rombi nelle orecchie
e mi tremi le mani.
Sono nato mentre il cielo
si chiude e raccatto da terra
ogni mia parola e in tasca,
la conservo, per non scomparire io
senza peso, senza più nulla.
Non hai luce, dolore,
ma io non sono buio.
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Fuori
da questa stanza c’è
una strada veloce di curve buie
e stelle, tra i rami pietrosi.
Ho chiuso gli occhi
per graffiarmi la pelle
senza profumo e senza sogni.
Sono stanco.
Mi macina dentro, il silenzio
della mia musica a volume alto,
vado a scegliermi un sipario
da cui entrare nella notte.
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Se solo potessi
essere i miei occhi
quando ti guardano
o la mia voce
quando chiama il tuo nome
se solo potessi essere
le mie mani sul tuo seno
se solo potessi essere
le labbra mie
che ti sfiorano,
sarei davvero io e
non i sogni che m’accompagnano
ogni giorno dentro la mia vita.
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Ancora un po’
e finiranno, questi giorni miei.
Questi giorni in cui nulla
merito e sono.
Me ne tornerò dentro le onde
con mio nonno a remare
fino al tramonto.
Avrò le mani piagate di salsedine
e gamberi e corda
e il cuore leggero.
Affonderò dentro l’orizzonte nero
col maestrale bianco di schiuma
e gabbiani affamati
e finalmente,
sarò solo una cosa inutile
come un sughero galleggiante
staccato dalle nasse
sulla corrente che porta via.
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Sempre, voglio avere occhi
di giovane innamorato,
e di indifeso bambino,
e di marinaio di infiniti mari,
e di donna che s’incanti e
e di vecchio come io sono.
Per imparare favole nuove
e capire i passi che incontro
mi vengono.
Per chiuderli, alla fine
dentro un bacio che mai fugga da me.
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Lo salto oggi
e vado dritto a domani
a mai, a sempre,
a un giorno qualsiasi
pur di guardarti
da lontano, da vicino
pur di correre da te.
Subito capisco
che non è tempo,
senza te il tempo.
Me ne vado a dormire
appena posso,
perché ti sogno
e perché sei il mattino,
quello di domani
e quello di oggi e ieri
eri con me
dentro di me, almeno
come ogni istante che esisto.
E anche quando avrò deciso
di non esistere.
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Sfiorita, una rosa accarezzo
i colori piegati
ad un sole disceso
ombrati di tempo
e perdute occasioni.
Ma ho sempre profumo
tra le dita e
morbidi i petali
m’innamorano più ancora
che primavera.
Perché siamo respiro, insieme.
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Sono quest’albero
arido per l’inverno colmo di lacrime
e senza pioggia blu e fresca.
Ho la scorza ferita, scomposta,
dall’indifferenza spinosa e ghiaccia.
Provo,
ad affondare nella terra le mie radici
per fame e dolore di coltello,
e a scardinare il ferro che mi recinta.
Tocco la luna coi miei rami,
aspri, la notte, invocando.
E prego
fulmini e vento
di schiantarmi.
Perché non più
frutti ho da dare.
Né occhi coperti da piume
di volo appena nate.
Nulla, ho.
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Nulla puoi fare
per cambiare i pensieri miei.
Sono miei adesso e
non riscaldano le mie mani
mi cadono addosso
come un sole che piove
dolore.
Che belli, i pensieri miei
fioriti sotto una pietra scura
e dimenticati.
Spersi, di tarassaco senza terra
insolenti,
sorridono al buio, prima di
spegnersi.
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Io non so, se gli uccelli cantino
veloce una primavera che arriva,
la musica loro a me
è il tuo nome tra le valli
del mio morire
e la tua pelle e
le tue vene e ferite
che sono tutto il respiro
che posso avere.
Il vento non ne sperde la musica,
ma ne nasce ogni battito
del cuore mio.
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Era un angolo di strada vecchia,
i muri delle case erano geografie
d’umido e frasi spray.
Io ci stavo fermo e solo
a guardare i muschi crescere.
Avevo tempo e nessuno
che m’aspettasse.
Guardavo linee di cielo
oltre i tetti di strade nude, e strette;
e non c’erano mai stelle
dove erano i miei occhi.
Eppure lì
senza nessuno e nulla, tra le mani
m’ostinavo a vivere.
Una malattia antica
che non conosce vergogna o orgoglio
anche quando è orfana d’amore.
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Quando spegni il cielo
non arriva l’alba,
ma solo un foglio di calendario
grigio, e senza attesa di te.
Oltre le finestre
tutto è ancora inverno
come nelle mie vene bucate.
E io non ho
coperte abbastanza
per proteggermi dal buio.
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Oggi il cielo
è un pane senza sapore
e non ne nasce canto d’uccelli in inverno
affamati, ma di sole aperto
odoroso di mani unite
e danze che scaldino l’aria.
Devo trovare
un caffè che ti goccioli dalle labbra
e che possa io cogliere
con le dita tremanti sullo stelo d’un fiore
che non voglio tagliare
perché la musica metta disordine
tra le nuvole e scopra il tuo seno luminoso.
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Questa terra indurita
da mesi di cielo agro
è la mia pelle stanca
di steppi aridi e pietre
taglienti, crepate,
da lame d’aria sabbiosa
e calda di mare infecondo.
Non ha carezze, mia pelle.
E piove ora
da stento cielo
che non mi disseta
né placa, il profondo delle ferite
che ogni giorno
il silenzio mi infligge.
S’avvicina mia notte pietosa
col suo lino di telaio antico
per me senza requie mai.
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Rubami tutto, buio
le speranze che non ho
le spezie senza più odore
il rumore del mio cuore
le mie mani bagnate di mare
i miei occhi che non ti guardano.
Permettimi solo
di scrivere ancora i giorni
rifugiato in una casa di legno
tra i monti e i cavalli
al caldo delle tue braccia.
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Sono io, anche qui, sono io.
Mura strette e letti scomodi
finestre lontane, e odori che
più non conosco.
Ma mi tocco
e sono io.
Senza specchi e vento da sud
anche se mi sciolgo
come una candela vecchia
sono io.
E mi troverò il mio mare
da nuotare.
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Incontrami, nella stanza dei pesci volanti
tra i coriandoli rossi sul pavimento sparsi
e tienimi per mano sulla musica di violini
zingari, e balliamo al fuoco della notte e
del liquore aspro dal sapore di muschio.
Si solleva da terra il girotondo
dei nostri abbracci e supera
ogni peso di catene e rimorsi
e il vento comanda docile
di portarci sulla cima dell’alba.
Perché il sole impari
come tu colori il mondo.
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Sto imparando a chiudere gli occhi
ad ogni mio inutile sogno
e ad ogni goccia di pioggia
che dai fiori mi sale in gola.
A me basta chiudere gli occhi
per camminare fin dove
vorrei essere.
Non cado, e non trovo ostacoli
e nessuno scappa
senza guardarmi.
Non voglio vedere più
il tempo girarmi intorno
e il desiderio bruciarmi dentro
in questa notte eterna.
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Era vuota la piazza
le strade ferite, non suturate, ancora
e camminavo senza cercare una porta
che mi facesse entrare;
quanta nebbia avrei voluto
per non trovarmi più mai.
Dicono ci attraversi la vita
prima del tramonto,
presto non avrò vita più da cercare
prima di dormire tra foglie di limone.
Ricordo solo le tue braccia
e mi perdo tra le ombre
di liquori e bar.
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Ieri
tornavo dove vivo
tra cose provvisorie e mura
che non conosco ed era
come oggi
che solo conosco
il mio tempo provvisorio
e non ho mura
su cui scrivere le mie parole
secche, asciugate
da nuvole di deserto
muto
come un grido che non posso
pronunciare e mi preme
dove il petto fortissimo
pulsa e brucia
e duole.