Questi muri di sabbia rappresa
ruvidi, sulle dita,
come un ricordo di dolcezza lontana,
sì sgretolano, lenti, sotto il sole di estate
ferma e chiusa, dietro i cancelli alzati
su bracci di mare libero,
e tornano polvere sparsa al vento
di austro arido che traversa asfalti e
palazzi di ogni colore grigi.
I remi pesanti non muovono più
barche leggere sull’onda, nel silenzio
gocciolante acqua sudore e sale,
ma torna l’alba, ancora,
seppure graffiata e ferita
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Scavo con le dita, sul fondo della notte
per trovare il respiro e la luce
e togliermi le catene della paura.
Rifugiato, tra le tue braccia di donna.
E poi cammino verso l’alba
che forse riuscirà a trovarmi.
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Spero tu prenda posto, per me,
quando un vasaio trasforma la terra
e mentre la sabbia vola nel vento.
Spero tu prenda, per me, posto,
mentre una maga soffia fantasie e
quando un bimbo si stropiccia gli occhi.
Spero tu abbia posto, per me,
mentre sali su un ramo e raccogli un frutto
e quando torni, dai tuoi voli notturni
e se cerchi un randagio da carezzare.
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È quello che succede quando te ne vai.
Lasci il cielo che gronda di passione.
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Un pezzo di pane
mi basterebbe se non fosse
per la fame che ho di te e
un goccia d’acqua asciuga
la sete mia
quando non posso bere di te
che mi plachi
ogni arsura feroce.
Giorni e settimane
che aspetto le stelle al vento
di tramontana e il freddo
per scaldarmi di te.
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Ritornami
i prossimi baci e
le strade sul bordo dei fiori,
riportami
alle notti senza luna colme di te
e alle albe che domani
mi scioglieranno dal cordame
della paura.
E lasciami guardare
il tuo nudo corpo che sorge
a ogni mio libero pensiero.
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Ritrovo gli orologi che, sordi,
sgocciolano sabbia inconsapevole di castelli sul mare spersi e rotti.
Dimentico i pomeriggi chiusi
dietro le persiane buie a
sognare notti sole mai più.
Domani risalgo i gradini di
una mia chiesa sconfitta per
fermare il giorno e prendermi
almeno un brandello di cielo.
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Forse la tristezza sgretola
anche i muri di tufo sabbioso
che mi sono costruito intorno
al nudo cuore di musica
innamorata senza risposta
mai.
E forse il silenzio mi trapassa
ogni pensiero che non trova
parole, per dirti che sono nato
solo quando m’hai visto.
Sono seduto sul ciglio
d’una finestra aperta sul
lontano buio che ho tra le dita.
E ascolto, il mio sangue gocciare
e spandersi, mentre la luna tramonta.
Di mille ferite come chiodi indifferenti.
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Sai
che l’assenza oscurerà il mattino
né puoi fare scudo, con le mani
per allontanare il profondo
vuoto.
Non riesci,
ad abbandonarti al verso
dell’acqua fino al sale marino e
ti resta solo impotente pena
per quell’uomo che cammina,
nudo, fino allo sfregio
di un buio senza memoria.
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Dentro il cielo che perde il sole
le nuvole sembrano pensieri
veloci, e lenzuola grigie
stese sul corpo morto delle
speranze mie, e dormo,
tutto solo, amico mio.
Neanche una luna è alzata
per illuminare i nostri bicchieri
sotto il vulcano.
Quanto pesante è stato
lasciarti indietro.
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Bere, vorrei
fino a comprendere, che nessun vino
scuro come il mare fondo, può
darmi ebbrezza simile agli occhi
tuoi, che guardano me solo.
E camminare, vorrei
oltre la nostra casa, per capire
che ho casa solo dove tu sei.
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Di infinite scintille in cielo,
mi sono ubriacato, mentre
mi parevano contraddire la notte.
Appena poggiate sul dorso
di monti neri e ombra,
tremavano al vento dell’erba
ormai arida.
Avrei potuto coglierle tutte,
con un gesto leggero,
e spargerle poi, tra le tue mani.
O dare a tutte loro il nome tuo.
Ho preferito il silenzio dei sogni
sicuro che tu conoscessi già,
ogni desiderio io possa respirare.
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Smetti di correre cuore.
Ci sono fiori che rompono mattoni
per crescere e dare colore
alla polvere scolata dall’egoismo
fino a terra.
E certi alberi, che bruciano dentro
rettangoli di terra cementata,
pure riescono a rinascere, di febbraio.
Solo tu, cuore mio, non rubi nulla
al cielo. Smetti di correre allora.
Non c’è nessun luogo dove
puoi andare.
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Aspettavo il momento, d’uscire,
dalla strada d’asfalto, e camminare
finalmente tra rocce ossute ed erba.
Attento alle ortiche e ai rovi e
alle nuvole basse, ma avanti
fino agli alberi di noce e ai campi
di grano falciato, come croci di
camposanto. Cercavo spighe nascoste
e semi di grano scampati ai corvi
e alle donne piegate, sotto il sole
acceso. Erano chicchi, rigati,
in attesa di parto e duri, dal sapore
marrone e di farina gommosa e
madia di ciliegio rosso e polvere.
E mi sedevo a guardare, verso
la terra che s’alzava al cielo e pensavo
agli uomini prima di me e senza me
al mondo che andava, oltre le stoppie
annerite, e di là dai cavalli bradi lontani,
pronti a correre fiatando, fino all’acqua.
Sembrava ardere il confine del mondo
a pomeriggio tardo e sudato ancora
e attendermi, per completare il silenzio
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Mi cade dalle mani
l’album delle foto
che non ho fatto
e sparge i suoi desideri
fino alla luna crescente.
Non raccolgo, quel che
è caduto e lo guardo
riempirsi di vento e fiori passiti.
Vorrei non aver
più cieli da solcare diffidente
ma solo la tua voce
da inseguire.
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Ha i piedi gonfi, la luna
come una vecchia donna di
lungo cammino e schiena piegata.
Poggia sui calanchi delle colline arse
per riposare dalle maree e dalle
preghiere d’amore infermo, cui
requie non può concedere.
Perché non s’abbassa il cielo
a darci più aria da respirare.
Resta alta, sulla torre pietrosa
ad ascoltare noi cani inquieti
abbaiare e piangere.
Soli, con lei sola.
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Ascolto il cielo abbuiarsi
e mi stride dentro, come ogni volta
avevo pensato d’aver trovato amici
ed era solo personale moneta a
muovere le parole.
Sento chiudere cancelli, lontani,
mentre s’annera il monte, e
guardo, i sorrisi rubati un istante e
tramontati poi, senza baci o mani.
Eppure persino le illusioni mie,
m’hanno dato da vivere
come una misera paga necessaria.
Ora però, non voglio chiedere più.
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Torcerei il silenzio, di questa sera ferma
e ne farei musica, col mio cuore che
sbatte, tra le pareti del petto per
uscire e col mio respiro spezzato
dalla solitudine feroce.
Suonerebbe sotterranea, come un
aspro pugnale nero, e veloce,
per fuggire al peso dell’orizzonte e
per arrivare sin dove la luna
mi custodisce i pensieri.
Lascerebbe una eco di sé
tra le cicatrici di un tronco e
l’aiuto richiesto da una pietra
scivolata via dall’unico muro che non chiude
ma s’apre.
A chi anche per un giorno solo
mi scaldi di stelle.
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Al correre della notte
mi sono lasciato andare
come legno spezzato in mare alto
portato da onde di randagi
e vento tra cespugli bruciati
mentre mi consumavo e
perdevo orpelli e sogni
e solo m’è restato secco
lo scheletro del mio cercare.
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Ci sono angoli spersi di mondo
chiusi alla luce e stridenti
come una polvere di sasso
asfaltata sulla pelle nuda.
E sporchi di assenze colpevoli
senza più pioggia o lacrime felici
e neanche giochi sbucciati di bimbo.
Anche lì, eppure, son capaci
di crescere fiori.
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Non voglio riposare
o dormire
o placarmi.
E nemmeno voglio il mio silenzio.
Tanto tramonto anche io e
nessuno sentirà più i miei
sassi piccoli.
Allora lasciami illudere di primavera
prossima e cielo di grano.
Vorrò essere cenere, nella tramontana.
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Ho imparato che arriva sempre
il momento in cui il mio sole
svanisce e sgretola ogni respiro
io possa immaginare.
È un’antica ferocia che torna a
spezzarmi, ma non ho sorte più
per rialzare gli occhi.
Non c’è acqua per il mio deserto
e non c’è alcun senso al giorno
che mi resta.
Adesso, mi è tempo di uscire.
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Non più, può inseguire il cielo
quel girasole: testa chinata nera
in attesa di una falce di luna, che
ne tagli i semi e sparga, cenere
di petali e foglie raccartocciate,
sulla terra grigia d’arsura.
Trema, sullo stelo alto e fragile
come un bimbo cui ogni carezza
sia negata, senza motivo
o luce.
Arriva sera, e, di nascosto,
se ne consuma la vita.
Il giorno nuovo, più nulla riconosce.
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Nessun destino che hai scelto
mi terrà da te lontano.
E nessuna perfezione disattenta
misurerà quanto ti amo.
Rosso di carne e bianco d’onda
mi accendono ricordo e desiderio.
E anche se non so, quello che serve
resto sul sole, a bere tutta la mia ingenuità.
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Se ci fosse uno sguardo da cui vorrei
essere trapassato, dovrebbe spuntare
da dietro un vicolo color mattone cotto e
restar fermo sorpreso, un istante
scontroso e poi comprendere che
dentro gli occhi miei stanchi, quello
sguardo sarebbe un gioco di cui invento
regole ed usi, solo per farti vincere,
perché i tuoi occhi soli, più di inermi
fiammiferi accendono il cielo e
le gambe mie spezzate di vecchio
soldatino senza musica, fanno danzare
mentre muoio, se non ci sono gli occhi
tuoi muoio io.
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Mi cerca, il silenzio del cespuglio di ginestra,
duro e tagliente, aspro come una ferita senza fiori.
E’ l’ombra mia che voleva essere ascoltata,
quando cercavo nido ad ogni dolore,
e che ora affonda nella terra per asciugare lacrime.
Si può bere il sale
per spaccarsi le labbra di te
e si può pregare, senza credere in altro cielo
che non sia il tuo ventre.
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Come sia fatta un’anima
non lo so.
Se fosse la mia, sarebbe nuda,
da tempo, sotto una pioggia
di tagliente sabbia veloce.
Se possa sanguinare, un’anima,
non so pensarlo.
Ma se fosse la mia, la terra a me vicina
fumerebbe di ferro rosso e dolore.
Dicono non possa aver morte, un’anima.
Se fosse la mia, da lontano
potrei guardarla, mentre smette di nuotare
a notte, tra gli scogli dove già piangeva.
E non ha luna, il mare.
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Le mie parole scivolano, a notte,
come foglie sulla corrente di fiume
e corrono al mare, urtando mani
senza nessuno abbracciare, in
questa estate arida che m’asciuga
anche le lacrime, e il dolore inutile.
Tra le onde di schiuma finalmente
potrò affogare, e scomparire e
tornare nulla.
E nutrire coralli di fondo, rossi
come labbra mai baciate.
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Il sonno ha la forma di un’acqua sperduta,
che cerca di fuggire dal letto disfatto
e vorrebbe riempire la stanza di sogni
senza memoria e luce spezzata
in lampi di paura e orologi fermi
e donne da baciare e assenze dolorose
scure come il buio oltre la finestra,
di notte ancora lunga e calda e
occhi chiusi oltre il silenzio degli alberi
che fermano la luna appena bruciata
da un sole ostinato, dalla parte del mondo
opposta, che non ha sonno, ora,
e ferma l’acqua e l’asciuga, e sete,
mi mette di respiro innocente.
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Nudo vorrei stare
sotto quest’aria fredda di pioggia
trascorsa in equilibrio su un muro
vecchio, di pietre storte e tenaci,
per sentirmi la luna dentro
mentre scivola dietro il monte
e mi lascia di luce nostalgia.
Indifeso, alla notte che mi arriva
addosso, e ai rumori lontani.
Cerco una mano da tenere
fino ad ogni prossimo mattino.
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Mi ferisce, il ripetersi di parole
copiate e stanche, vendute per nuove.
E mi graffia la pelle, l’indifferenza
delle strade sicure e grondanti
consenso di maniera, mimetico,
statico, come una putrefazione dimenticata.
Preferisco imparare.
Impararti, se solo volessi insegnarmi
di te, e dei pensieri tuoi più veri.
Muore, quello che è vecchio.
Non io.
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Mi scende addosso come una notte,
lo spreco di ore, e di parole
che, come una serpe, ristagna
sguardo e respiro e incupisce
orizzonti celesti di alba appena
immaginata e di dita, impiastrata.
Mi empio le tasche
di sudore e passi e attese e vento
per più leggero andare
fin dove finisce l’acqua,
scesa da un monte d’erba aspra,
e posa, alla luce d’una candela
fragile.
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Ricade, la scintilla, più leggera
dell’aria scura d’un fuoco e
cade cenere deserta, e presto
fredda.
Ho riunito la sabbia del mio passato
vivere, e ho visto un monte sottile,
che frana, al minimo movimento di dita.
Non sono riuscito, ad immaginare
la prossima polvere.
Prima devo ardere, per poi cadere e
prima devo scaldare tutto,
quello che posso amare, tutto,
e poi vorrò smettere d’avere sangue.
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Una notte di mare grosso è il vento
che scava la mia coscienza e lascia
sulla riva incerta, un tronco snudato
d’albero offeso, e spezzato, grondante
sale e lacrime, entro le sue vene
di linfa verde e viva un tempo, mentre
ora, pare affossarsi nella rena grigia,
come un osso ignoto e antico,
non più gigante volto al cielo
ma scheggia, di vita passata,
nemmeno più capace d’ardere.
Accetterò il mattino, anche nudo,
anche se mi farà male.
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Ho vissuto dentro mura,
tra mura giuste e sante.
Mura che proteggevano e
mura che chiudevano il mare.
Mura che segnavano potere
e proprietà invalicabili e
mura che nutrivano la notte.
Riconosco solo mura di sabbie antiche
e muschio seccato come stelle gialle,
perché fanno ascoltare le onde
e i gabbiani e sono aperte
al profumo delle storie dei vecchi
seduti davanti ai portoni che
danno vita alle mura e le aprono
come vele al vento di bambini che
salgono sulle scale, fino ad ogni soffitto.
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M’ero accorto, d’essere sbagliato,
perché guardavo dritto e non sapevo
parlare, con le voci degli altri e
m’ero accorto d’essere meno,
perché sudavo, nella corsa e
avevo capito d’essere brutto
quando il vento mi portava via i
capelli, pettinati con una riga
di reggimento e silenzio.
Mi sono accorto d’essere insufficiente
ogni volta che sono stato tradito
e che il sole mi bruciava la pelle.
Nuoto però, ancora, fino
ad un’isola pietrosa, dov’essere
io, non sia una colpa senza perdono.
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Ti ho vista, sulla spiaggia,
camminare a piedi nudi, col vento
tra le vesti bianche e i capelli volare,
oltre i gabbiani e placare le onde.
La piega delle tue labbra trapassava
i ricordi miei, diventati salmastro,
tra le pieghe acute degli scogli e
bruciava l’acqua del tramonto.
Dietro i tuoi passi fioriva
ogni tremore del cuore mio
felice, di sanguinare tra le tue mani.
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Ho sbagliato a credere
e ho sbagliato ad aspettare.
Sbaglio sempre, a tacere
e ingoiare.
Forse arriva tempesta dal cielo
e io me la andrò a prendere
in mezzo a un prato
dentro il mio mare
tra le nuvole dei monti.
E sarà bello, bruciarci dentro.
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Balla con me,
dentro il mattino di pioggia
e fulmini, coi piedi nudi e colorati
di terra ed erba che rinasce.
Il tempo batte,
tra gli scuri delle finestre
e la luce ti accarezza gli occhi
scendendo da un ombrello
portato via dal vento e dalle risate.
Uniscimi le mani
dietro le tue spalle,
più elettriche di fulmine smarrito.
E baciami.
Un bacio che sia il sapore della libertà
tua, e della furia mia.
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Stanno sul fondo del mare
le mie conchiglie e i quaderni miei
pieni di errori.
Sulle onde di sabbia del fondale nudo
sta, il mio respiro trattenuto
ogni volta che mi sono illuso,
e tutto quello che ho buttato
per il dolore di vederlo ancora.
Appena oltre, il nero profondo
della mare lontano, stanno le mie mani,
che nuotano, lente, per perdere
la forza loro, infine, e portarmi sotto
dove smette la luce ed ha pace
quella strana speranza mia
di essere.
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Interrompe la luna, un pensiero
respinto, che vagava, alto
sulle cime di un ricordo.
Il dolore non proietta ombra
sulle nuvole, dissolte dal vento
come una delusione spezzata.
Non è freddo fuori, non quanto
le mie mani.
Continuo ad andare, perché so
che ho qualcosa. Me stesso solo.
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Ti ho sognato
anche se tu non lo sai
e nuotavi, come tanto tempo fa,
quando si poteva nuotare
nel fumo di un camino,
col profumo di castagne e
il sole diviso in raggi,
dalle nuvole sipario,
tra un tempo e l’altro,
dei miei sogni dove
eri sempre tu, perché
dimentico tutto, quando non sei tu
a sognarmi, nei miei sogni
che mi restano negli occhi
e tra le dita, solo se
tu, ci sei, dentro.
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Se conoscessi l’amore
direi che guarda, dall’alto di mura notturne
e scende, da lì fino a terra, e al mare e
oltre il cielo quando finisce, perché
non può essere lontano, dal suo
letto d’ulivo, più infinito
d’ogni porta d’accesso
e necessario, come una terra
d’acqua fertile e musica
cantata anche prima del primo istante
in cui muoio.
E se mi avesse incontrato, l’amore
un giorno, all’ingresso di una casa,
in nessuna altra casa più entrerei
senza quegli occhi che mi guardino
e mi scavino, fino al telo del mio
ultimo lenzuolo.
E se io potessi imparare,
ad amare,
nasconderei, quanto amo,
nella notte, perché sia libero
chi amo, di non amarmi anche.
Perché, se conoscessi davvero, l’amore
saprei che non vuole nulla.
Solo che sia felice, chi amo.
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Una sottile goccia di linfa
non permetteva ancora,
ad un ramo spezzato dal vento,
di cadere nella notte.
Era cuore fresco di legno carnoso
ferito e senza difesa.
Un’altra torsione d’aria indifferente e
nessun suono più sarebbe arrivato
dai nidi e dall’acqua di cielo.
Ma restava fermo, mentre le fratture
cercavano pace, e indomabile forza
pregava vita e primavera nuova.
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Vento.
Nuvole dorate.
Rumori di tramonto.
Qualche linea di freddo.
Pere rosse e melograno.
Un libro da inventare.
Le mie mani vuote.
Vento.
È sabato pomeriggio: forse viene a trovarmi una favola. Magari mi faccio trovare.
Magari le cambio il finale.
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Ti do appuntamento
sotto una foglia che vola via
tra i rami d’un albero scosso.
Ci sediamo su una panchina
bagnata di pioggia e stelle e,
rannicchiati, parliamo al vento.
A voce bassa raccontiamo
il fuoco e il vino scuro e
le braccia nostre aperte.
E tempesta ci prende
e scuote e d’un turbine rapisce,
per portarci dove è solo gioia nostra
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Guarda un albero, come cresce
da una carezza in un unico nodo
e di lì gorgogliano fiumi di ritorto
legno e verde sangue rugoso,
incerti, del luogo da prendere ma
sicuri verso il cielo, a preghiera.
D’acqua, di baci, di sole,
di elettrici fulmini e nidi da proteggere.
Rami di pensiero solo
dimentichi quasi, di gemme.
Guarda, quanto ti aspetta, primavera.
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Le sento cadere
le gocce di una pioggia passata.
A lacrime somigliano e
io non ho ombrello, ma
a terra, nutriranno nuove erbe.
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Immagino acqua, cadere, spostata dal vento,
sul grumo di spine di rose spezzate,
e sfrangersi sui petali gualciti e
sciogliersi a terra, come un’argilla grezza ancora.
Mi sporco le mani di fango
e non m’importa, se posso raccogliere
quello che non ho avuto mai.
È uno sguardo che m’interroga, se
sia possibile una pulizia d’occhi così;
di alba stupita d’essere, così potente
e alta, e temo, d’accarezzarne il volto
per non lasciare segno sacrilego
delle mani mie, sulla sua ombra,
ché altro non sono degno.
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Lo guardo sgocciolare sulla finestra, il silenzio.
E’ trasparente, come il buio senza luce
come la mia faccia riflessa sul vetro,
che nessuno vede e ferma.
Non riempie nulla, il silenzio;
neppure i giorni trascorsi urlando,
e secca la gola, come una malattia del respiro.
Guardo una foto in bianco e nero,
che non posso toccare,
e questo silenzio, mi sembra solo
inutile.
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Spengo ogni luce, a me intorno
e guardo solo le scie dei pensieri
e le scintille di paura
e il tremare di una speranza al vento.
Non ho nulla, oltre questo buio di luna
e il freddo delle mie labbra.
Oggi, ho preso il mio cuore e
l’ho sentito correre
come se fosse vivo;
fermarlo avrei voluto, regalarlo.
Dentro il buio che mi sono conquistato,
ho un cuore che ancora mi segna il tempo
e che cerca ragioni, per questo suo vizio
d’essere vivo.
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Ero nella pioggia
i miei piedi, avevano colore d’asfalto
le mie gambe erano muretti secchi
a recinzione, e cancello, di portoni chiusi;
il mio petto, talora, aveva odore d’albero,
talora, secondo i passi, grigio di cielo basso;
le mie mani erano ali d’uccelli lontani
e il mio volto, le foglie confuse d’una ginestra,
senza fiori.
Ero non visibile,
non ero.
Forse, non sono mai stato.
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Sul fondo di ogni singolo mio dolore
c’è un cielo.
È rosso, e azzurro anche e rosa
quando nasce, dalle dita del mare
e mi aspetta, quando corro
per fuggire da me.
Sono nulla, per ogni cielo,
quando s’ombra di luce fino a notte
e però lo guardo e lo cerco e lo scavo
fino al sangue delle mie dita.
Io assalto il fondo del mio cielo
senza far guerra, senza voler nulla
vincere, per salire oltre il dolore mio.
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Io so, quanto posso nuotare
nel mare di notte, e so
che traverserò le onde
senza legno e senza porto
eppure fino a riva, e so
che aspetterò scendere
il tremore e la risacca di scoglio feroce.
M’alzero’ allora a terra, spezzato di paura
e vivo, e feroce d’aria e vino.
Scavato di salsedine aspra e lacrime
guarderò la luna, come se fosse
prima volta, per me.
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Prendi il tuo tempo, a sera,
e guardalo fuggire via
come i fari accesi di un’auto
che nulla di te sa, e passa.
Ascoltalo portare le tue parole
alle sole stelle ancora accese
sulle cime degli alberi neri e
guardale cadere, sconfitte foglie
di una stagione migrata.
Sentilo dentro le tue gambe
che vogliono correre ora
fino a non placarsi mai
di vita.
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Io non ho destino
il mio nome è scritto solo su un muro
nascosto, dietro un mercato,
ed è scritto insieme al tuo.
E non ho risposte
pur se scavo nella sabbia
tra le onde e dentro la notte.
E non ho paura
nemmeno del lontano abbaiare
di un male senza nome.
Io ho solo questo mio respiro
senza orologio e peso
e tu sai, che t’appartiene.
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Esco di notte
e vado a cercare un deserto
di pietre secche e spine
perché so
che dentro questa assenza, di orologi fermi,
ci troverò un fiore.
Luminoso come una marea di luna
e pieno di colori senza ombra
e dolce,
come una testa che s’abbassa per pudore.
E mi basterà guardarlo
fiore sveglio a notte,
per sapere che avrai giorni
e giorni ancora, di infinita vita.
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Ci sono mille tatuaggi
sulla mia pelle.
Sono le parole che mi hai detto,
quelle che hai lasciato sulle mie labbra,
quelle che ho sognato mi dicessi.
E ci sono mille graffi
sulla mia pelle.
Sono le parole che hai pensato e
quelle che scorrevano sul tuo seno nudo
e quelle che hai chiuso nella tua bocca.
Ed è spoglia la mia pelle.
Perché aspetta i tuoi prossimi sorrisi
e i tuoi passi sul confine della musica,
e i tuoi occhi, che non mi appartengono
ma cui appartengo io.
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Questo rumore d’acqua,
che ardere d’un fuoco pare,
fa ancora più vuoto tra le mie mani
mentre me le stringo addosso.
Io cammino e non sento
i passi miei e gli occhi
mentre ogni albero gocciola di te.
Mi riempio di pioggia le tasche
perché non ho una sufficiente moneta
per pagare la sete di vita
che mi dai, e so,
che l’alba m’ostina ad andare.
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