Sei una donna di ventuno anni e magari qualcuno considera “normale”, il tuo primo impiego.
Lavori in un supermercato, ma non sei una dipendente del supermercato. Gli altri, almeno, hanno un contratto di lavoro subordinato; tu, invece, hai un contratto di collaborazione. Non si capisce bene, a cosa tu debba collaborare, e nemmeno quale progetto tu debba realizzare, per aver diritto ad un salario. Il tuo contratto lo prevede, un salario: è fatto di una parte, minima, fissa, e di una parte variabile, che dipende da quanti prodotti vendi. In quante ore riesci a vendere qualcosa, non interessa a nessuno; magari solo ai tuoi piedi, e alla tua schiena.
Sei una “promoter”, una persona cioè, che in un angolo del supermercato, vicino ad un banchetto provvisorio, prova a convincere chi sta facendo spesa, che può acquistare anche il prodotto che lei gli propone. Un caffè; un formaggio; un latte; una scatoletta… qualsiasi cosa.
Capita, di vedere queste lavoratrici ( in genere sono tutte donne ), mentre siamo al supermercato a fare la spesa, magari dopo una giornata di lavoro, e senza nessuna voglia d’ascoltare qualcuno che proponga un qualsiasi prodotto che, magari, non ci passerebbe mai comunque per la testa d’acquistare.
Quelle persone sono lì per mettere alla prova una vecchia regola della pubblicità: si possono investire tutti i soldi possibili, per promuovere un prodotto, ma, quel che funziona davvero, è quando di quel prodotto ci parla qualcuno di cui possiamo aver fiducia ( in realtà, questa è una regola che vale persino per la propaganda politica ). E quelle persone che sono dietro al banchetto di cartone, montato in un corridoio del supermercato, hanno il compito, in una frazione di minuto, di conquistare la nostra attenzione e la nostra fiducia e di venderci qualcosa, da cui dipende la loro paga.
Se ci pensiamo, anche un solo istante, ci dovremmo accorgere d’avere davanti qualcuno per cui lo sfruttamento, è forse il massimo legalmente possibile; o meglio, le leggi che regolano una simile tipologia di lavoro, sono in realtà, soltanto un velo poggiato davanti al massimo dello sfruttamento possibile, per farlo sembrare meno schifoso.
Quel lavoro non tutela la malattia; non ha orari; non ha un salario stabilito da un Contratto Nazionale di Lavoro; prevede una contribuzione bassissima che non si trasformerà mai in una pensione…
E’ questo il modo con il quale accogliamo i giovani al loro primo impiego.
Il secondo impiego, è un voucher: uno di quei pezzi di carta che, cambiato al tabacchino, valeva 10 euro, più o meno, per una prestazione lavorativa “accessoria”, qualcosa che non sembra essere neppure un lavoro, ma un accessorio, come un braccialetto, ad esempio.
E poi, sempre con i contratti di collaborazione, l’incontro con due call center cittadini, che vendono prodotti o servizi. Lei doveva telefonare alle persone, ma senza raccontare loro tutta la verità sulle offerte che si facevano. Capitava così di chiamare qualcuno che, precedentemente, aveva già aderito a quell’offerta, e che ancora ne stava pagando i costi nascosti; e toccava a lei, ascoltarne gli sfoghi, la rabbia e la frustrazione.
Viene da chiedersi cosa possa pensare una giovane donna, con queste esperienze di lavoro, quando sente parlare di “lavoro come strumento per realizzare sé stessi, e per partecipare appieno alla vita del Paese”; o cosa possa pensare, quando qualcuno le ricordi che l’Italia, “è una repubblica democratica fondata sul lavoro”…
Nel discorso pubblico del nostro Paese, sono pochissimi a porsi il problema della distanza esistente tra la qualità dei lavori disponibili; la competenza delle persone, e, soprattutto, il senso stesso di quel lavoro: la sua funzione sociale, persino etica potremmo dire.
Perchè non può, e non dovrebbe essere una condanna, per nessuno, dover accettare un lavoro qualunque, per costruire una propria indipendenza economica. Un futuro. E il futuro, non dovrebbe mai essere, un futuro qualunque.
A ventisette anni, poi, lei incontra un nuovo lavoro.
Aquila è piena di sale slot: luoghi dove si infilano soldi in una macchinetta, e si spera di vincerne tanti di più. Questi luoghi di lavoro hanno un privilegio, per legge, forse, o forse tutti hanno trovato un giusto escamotage per pagare meno le persone e contribuzione più bassa e facilitata: i lavoratori vengono inquadrati come se fossero lavoratori dello sport o dello spettacolo. Costano di meno, così. Non è un lavoro facile. Lei spesso è sola, con chi sta giocando. Qualcuno tra loro, molti giovani e giovanissimi, si avvelena la vita in questo modo.
Qualcuno, se perde tanto, dà di matto. Lei deve fare tutto, lì dentro, contabilità compresa: ma, quando arrivano persone che devono sostituire i codici delle macchinette, o fare loro manutenzione, tutto è chiuso, e, insieme a loro, nel locale, può entrare solo il gestore.
Lo Stato autorizza questi Casinò per persone che non vanno a giocare in abito da sera; consente che i lavoratori di queste aziende vengano pagati poco ( non si sa che fine abbiano fatto le previsioni di legge che prescrivevano che, una parte della tassazione legata ai giochi elettronici fosse utile a contribuire alla ricostruzione di Aquila dopo il terremoto del 2009 ); e poi chiede alle sue strutture sanitarie, di provvedere alla riabilitazione e alla salvezza personale, di quanti sviluppano una ludopatia, magari rovinando economicamente sé stessi e le proprie famiglie.
Infine, tramite una agenzia di lavoro interinale, entra in fabbrica, con un vero contratto di lavoro subordinato, per quasi due anni, interrotti da un periodo di disoccupazione e, ora, nuovamente interrotti, dalla fine dell’ennesimo contratto a termine.
Senza reali prospettive di proseguimento, stavolta.
Oggi lei dice che le sarebbe difficile, tornare indietro, da un punto di vista economico: accettare di nuovo lavori che non consentano di accedere ad uno stipendio dignitoso.
Aveva pensato di andare a vivere da sola, ma non può. Per fortuna che c’è la famiglia: una “normale” famiglia con un padre lavoratore dipendente, ed una madre casalinga.
Qualcuno in televisione, periodicamente, se la prende con questi giovani che s’ostinano a restare a casa dei genitori.
E questa gente parla in totale assenza di una politica sociale sull’abitazione, ed in presenza invece, di una legislazione sul lavoro che considera le persone, una pura appendice di un processo produttivo: utile fin quando non disturba il profitto dell’impresa, poi, una merce da scartare.
E si scartano per prime le persone che appaiono diverse.
Quelle che non accettano di essere in un luogo di lavoro che pretende da loro di non far domande; d’essere solo accomodanti coi capi; di riferire loro magari, come si comportano gli ultimi arrivati.
Quelle che non accettano di essere in un luogo di lavoro che, tra le sue prime regole, ha quella della competizione tra lavoratori: chi ha un contratto a tempo indeterminato, nei giovani che entrano, magari più veloci e scolarizzati, vede un concorrente; qualcuno che potrebbe mettere in discussione la stabilità del loro lavoro. La solidarietà tra persone, è impedita in partenza: ognuno è concorrente dell’altro.
Se qualcuno le avesse chiesto, dieci anni fa, dove si sarebbe vista, da lì ai prossimi dieci anni, lei si pensava all’interno di una famiglia propria, con dei figli, magari; se le si chiedesse oggi, dove si vede, tra dieci anni, lei, francamente, non lo sa. Non lo sa più.
C’è la tentazione d’andare in Spagna, dove è già stata, e dove vive un suo parente.
Lì, le persone sembrano, e sono più libere che in Italia, meno egoiste di noi, più disponibili ad aiutarsi reciprocamente.
L’Italia è solo un posto dove non ci sono differenze vere, tra forze politiche ( se la sentisse suo padre, uomo di Sinistra, s’arrabbierebbe ): per tutti, esiste una incolmabile distanza tra le parole che si dicono in campagna elettorale, e i fatti che si realizzano davvero.
Una storia, questa, lunga undici anni.
Undici anni che hanno, forse, spento entusiasmi e voglia di essere. E che lasciano indietro, solo rottami senza reale peso e importanza; come se non fosse mai stato possibile navigare il mare, ma solo lottare, costantemente, contro il naufragio, a bordo di una malconcia zattera.
Nella cultura politica dominante, è della persona, la colpa per la propria condizione materiale di precarietà, o di disoccupazione.
Si è costruita, negli anni, una società che esalta il successo, il denaro, e il potere, e considera colpevoli ed inferiori, quelli che non arrivano al denaro, al successo o al potere.
Questa società non ha alcuna cura della persona umana e nemmeno delle sue fragilità. Al massimo, può mostrare qualche gesto “caritatevole” con un “bonus” che attenui per qualche istante una condizione di strutturale disagio.
Lo Stato Sociale, negli anni, è stato ridotto a pubblica misericordia e i primi a pagarne il prezzo sono stati e sono i giovani, nei confronti dei quali si scaricano tutti gli squilibri e la propaganda; degli ultimi quaranta anni, in special modo.
Spesso si parla di statistiche.
La donna giovane, diplomata, ad Aquila, è la più diffusa figura di persona disoccupata.
Ma, dietro le statistiche, ci sono le persone, la loro vita, la loro carne, i loro pensieri e i loro desideri.
Credo sia ora di smettere di accettare di vivere in una società che ignora le persone vive che la abitano.