Il più grande segreto di una storia, forse, consiste nella sua capacità di costruire processi di identificazione. Sentirsi come, o “al posto” di uno dei personaggi della storia, forse consente di penetrarne di più, il senso, o, magari, semplicemente, favorisce il flusso di emozioni; fa sì che quella storia ci parli, e sembri, magari, parlare specificamente proprio a noi.
Naturalmente, può essere possibile accostarsi ad una storia, anche provando a mantenere il profilo di un “osservatore neutrale”, e anche questo punto di vista, consente – dovrebbe consentire – riflessioni importanti; forse, una più corretta capacità di decodificare, la storia, di comprenderne più profondamente le origini, gli intenti, la sua capacità di cogliere aspetti universali dell’umano vivere, e quindi la sua forza, nel trasmettere una visione del mondo.
Questi processi, possono mischiarsi tra loro, naturalmente, e se ne possono attivare anche degli altri, sul piano psicologico, e della conoscenza.
Il film di Matteo Garrone “Io capitano”, nonostante racconti qualcosa di profondamente diverso, e certo non paragonabile, immediatamente, tuttavia, riporta alla mente l’incipit incredibilmente evocativo e straordinariamente potente di “Se questo è un uomo”, di Primo Levi.
La sensazione più forte, che traversa tutta la storia dei due ragazzi senegalesi, che vogliono raggiungere l’Europa, per dar corpo al loro sogno adolescenziale, d’esser loro, con la loro capacità di scrivere canzoni e fare musica, a fare autografi per i bianchi, è esattamente quella di essere tra coloro che, la sera, tornando a casa, trovino un piatto caldo e facce amiche ad attenderli, al contrario dei due protagonisti del film, e dei loro compagni di viaggio, che non conoscono pace, che muoiono per un “sì”, o per un “no”, pronunciato da qualcun altro.
Tutto il viaggio dei due ragazzi, è una progressiva discesa verso il grado zero della relazione umana. Il mondo che racconta Garrone, è il mondo in cui il Mercato Globale ha agito sulla società, fino a distruggere ogni legame relazionale e politico, e fino a ridefinire le interazioni tra persone, nel puro segno hobbesiano di uno stato di natura, al contempo predatorio ed indifferente, nel quale l’unico, flebile, antidoto alla lotta di tutti contro tutti, è solo l’appartenenza ad una medesima comunità nazionale o etnica, e, in casi rarissimi, il barlume di solidarietà che possa svilupparsi in un uomo adulto, accanto al quale giace un adolescente torturato e sanguinante che, in stato d’incoscienza, sogni solo di poter tornare da sua madre, per chiederle perdono, d’esser partito di nascosto, contravvenendo ai suoi avvertimenti e alla sua volontà di protezione.
L’Africa raccontata da Garrone, è quella della dignitosa povertà di una comunità senegalese, unita nelle sue tradizioni e nelle sue relazioni sociali e familiari, ma scossa, nel profondo, dal richiamo dell’opulenza occidentale: quella trasmessa nei canali televisivi o sui social, capace di nascondere anche le proprie interne contraddizioni, cui non è possibile credere, di fronte al luccichio abbagliante delle sue vetrine e delle sue promesse, e che, rapidamente, lungo le moderne rotte carovaniere che la merce uomo percorre per arrivare allo sfruttamento dell’Europa, si perverte in un mostruoso “Gioco dell’Oca”, in cui, ad ogni tirare di dadi, si sprofonda sempre più nella violenza, nella sopraffazione, dalle quali non vi è protezione alcuna, ma solo rassegnazione e ingenua sconfitta, in un progressivo subire la brutale legge della domanda e dell’offerta, senza alcuna possibile mediazione sociale, collettiva, statuale o di legge: quella legge che, in una classe senegalese, viene definita come la cultura comune di un popolo, e che, nel viaggio, assume l’unica caratteristica di “Legge del più forte”.
Penso che Garrone abbia voluto sottrarre sé stesso, i suoi protagonisti, e la sua storia, dalle facili banalizzazioni, ma anche dalle precostituite prese di posizione in merito al fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo, che ha pressochè monopolizzato il discorso pubblico nel nostro Paese, nascondendo ogni altra nostra drammatica contraddizione, da oltre trenta anni a questa parte.
Credo sia una operazione compiuta consapevolmente, per poter concentrare lo sguardo narrativo, esattamente sulle dinamiche di assoluto sfruttamento e di libera violenza cui sono sottoposti tutti coloro i quali partono alla volta dell’Europa, a prescindere dalle loro motivazioni. Quello che viene messo in scena, oltre al processo di scontro con la realtà, che per i due ragazzi significa, innanzitutto, la lotta per conservare il loro sguardo innocente, pur di fronte alla brutalità cui sono sottoposti, e poi anche il loro processo di acquisizione di consapevolezza e di crescita personale, di responsabilizzazione; è il risultato cui viene condotta, l’umanità delle persone, posta di fronte ad un unico metro di misura: il denaro.
Il denaro è la chiave per aprire le porte del viaggio; il denaro è il motivo sulla base del quale, diviene lecita ogni possibile furberia, prevaricazione, riduzione in schiavitù, sopraffazione violenta, senza alcuna protezione di alcun genere.
Il denaro cancella ogni possibile riferimento morale, e anche ogni gradazione possibile della crudeltà. Lo stesso metro di brutale violenza, è applicato a uomini, donne, ragazzi o bambini, e sempre con l’unica finalità di acquisire un compenso parassitario, lucrato sulla sofferenza, sul dolore, o sui sogni dei migranti vittime.
Nella nostra mente di spettatori, si affaccia invece, costantemente, il riflesso della nostra opinione, più che della nostra conoscenza, rispetto al fenomeno migratorio, e, presto o tardi, arriviamo a confrontarci col nodo di fondo, costantemente eluso nel nostro dibattito pubblico, italiano, e, cosa ancor peggiore, europeo.
Noi popoli del ricco occidente abbiamo concesso alle merci, ma soprattutto al denaro, la totale libertà di movimento al punto da considerare legittimamente possibile che sia il denaro a determinare l’esistenza stessa di uno Stato, le cui fondamenta possono essere fatte crollare da fenomeni speculativi sui mercati finanziari; ma non abbiamo concesso la medesima libertà agli umani. Gli umani devono, al contrario del denaro, rispettare i confini stabiliti; devono avere motivazioni consentite, per passare da un confine all’altro; devono pagare dazio; e, soprattutto, devono rispettare il divieto di non farlo, quando non sia loro concesso.
E’ questa contraddizione, a creare il Mercato degli Umani.
E nel Mercato degli Umani non vi è Stato Sociale: i neri, in ospedale non li toccano; le medicine si acquistano di contrabbando dal barbiere; il lavoro è solo servile, e serve solo alla pura sopravvivenza del lavoratore.
E grazie al Mercato degli Umani, noi, siamo esentati dal rispondere alla domanda decisiva: perché il denaro, sì, e l’umano no ?
Non somiglia, alle frasi iniziali del libro meraviglioso e terribile di Primo Levi ?
L’Italia, e l’Europa, sono incapaci di costruire una risposta politica, e nascondono la loro risposta morale nel denaro che finanzia regimi corrotti e dispotici, cui è affidato il lavoro sporco di selezionare e scoraggiare e bloccare, se possibile, l’umano che cerca di superare i confini.
Turchia, Tunisia, Libia, Marocco, ma anche Bielorussia etc…
Occorre confrontarsi, e fino in fondo, anche con la paura che il nostro Paese, e l’Europa, sia travolto da ondate migratorie destinate forse, a moltiplicarsi ancora, in quantità ed in qualità, per effetto dei fenomeni di distruzione climatica che continuiamo ad alimentare, e per effetto delle guerre, che continuiamo anch’esse ad alimentare o, quanto meno, a non disinnescare.
E’ credibile, una difesa, anche armata, dei nostri confini ?
Sono queste, le questioni che, strumentalmente, da trenta anni almeno, vengono alimentate nel dibattito pubblico, con lo stesso cinismo con cui un trasportatore di umano può lasciar morire qualcuno nel deserto del Sahara, senza neppure voltarsi indietro. “Per un sì, o per un no”.
Seydou, il protagonista, messo al timone di una vecchia paranza nel Mediterraneo, rotta verso Nord, sempre dritto, senza poter ricevere aiuto da nessuno, a sedici anni, assume su di sé la responsabilità di provare a salvare la vita delle persone. Ora non pensa agli autografi che potrà rilasciare. Ma al debito ancestrale con la propria terra; alla propria famiglia; ai suoi compagni di viaggio in pericolo; al suo amico e cugino ferito e bisognoso di cure.
Forse, l’umano, per scoprire la propria umanità, deve essere messo in condizione drammatica; e se è così, è ben triste constatare la nostra incapacità a pre-vedere, e prevenire. La nostra indifferenza a sentire la sofferenza altrui.
Ci aspetta, forse, d’essere travolti, prima di riuscire a dare risposte serie e vere, e questo costerà vite umane, e dolore.
E per questo, è osceno, e privo di ogni responsabilità, prima ancora d’essere ingiusto ed inutile, il modo con il quale abbiamo guardato al fenomeno migratorio, negli ultimi trenta anni, nel nostro Paese, ed in Europa.
Matteo Garrone, e i protagonisti della sua storia, non hanno risposte da fornire, e non era loro compito farlo, ma la loro missione, di raccontare il Mercato dell’Umano, creato dal Mercato Globale e finanziato sottobanco dagli Stati che preferiscono i tiranni e le mafie, all’assunzione di responsabilità, è perfettamente riuscita.
Anche quando fa volare leggera, un’anima rimasta uccisa, nel tentativo di arrivare ad un mondo, dove sia possibile tornare la sera a casa, e trovare un pasto caldo, e, intorno, volti amici.