Sono molte le cose che diamo per scontate.
Quando andiamo in auto, sappiamo che dobbiamo fermarci, se il semaforo è rosso. Non ci chiediamo, se sia giusto o sbagliato. Fermiamo l’automobile, e basta.
Da tempo, in Italia, si è smesso di chiedersi se un certo modo di trattare il lavoro delle persone sia giusto, o sbagliato.
E’ diventato “naturale” considerare “flessibile” il lavoro. Ci sono decine di tipologie contrattuali, con le quali si può essere assunti. E si può essere licenziati in qualsiasi modo possibile: in sostanza, basta attenersi ad alcune regole formali, e non vi sono conseguenze, per le imprese, che possono liberamente mandare a casa una persona.
La parola “flessibilità”, non indica più capacità di adattamento, e di risposta a esigenze diverse: indica, avendone pervertito il senso, subordinazione totale all’interesse d’impresa.
Un qualsiasi discorso politico sindacale, che affronti i nodi teorico-pratici di un sistema economico e produttivo così costruito, e delle sue conseguenze concrete sul piano sociale e politico, sembra essere un inutile esercizio accademico. Noioso e privo di effetti. Incapace di parlare alle persone, e di spiegare il complesso delle conseguenze, che esso produce: perché anche quelle conseguenze, sono vissute come “naturali”.
Esattamente come in un vecchio romanzo di George Orwell, sembrano essere scomparse, le parole capaci di descrivere una realtà diversa. E quando scompaiono le parole, scompaiono i concetti, e i pensieri non trovano modo di esprimersi, e ogni altra realtà possibile scompare, diviene impensabile.
Si può raccontare una favola, in cui compaia un unicorno. Ma se di quell’unicorno non si abbia esperienza reale, e ci si sia abituati a considerarlo un animale “da favola”, appunto, nessuno si preoccuperà di cercare un unicorno, dopo averne sentito il racconto. Nessuno penserà che si possa arrivare a toccare un unicorno, o che si possa vivere un incontro con esso.
Da tempo, quindi, ad esempio, è normale, in Italia, vivere l’esperienza di svolgere un lavoro, per ben nove anni di seguito, assunti con successivi contratti a termine, da una agenzia di lavoro interinale. Passando da una “missione” all’altra, sempre nello stesso luogo di lavoro, fin quando non si venga, alla fine licenziati.
Francesca ( nome di fantasia ), ha lavorato per nove anni alle dipendenze di una agenzia interinale. E il suo lavoro si svolgeva in una importante azienda chimico-farmaceutica di Aquila. Una azienda grande e ricca, quindi, non una piccola impresa dai margini ristretti.
Il rapporto di lavoro interinale, prevede che si sia dipendenti di una Agenzia, e che questa Agenzia, affitti il nostro lavoro ad una impresa, che lo utilizza.
Quindi, Francesca, inizia a lavorare con l’Agenzia interinale nel 2012. Prima con successive assunzioni a termine, e poi, con un contratto di formazione. Presta il suo lavoro all’interno dell’azienda chimico-farmaceutica. Sempre lì.
Ad un certo punto, la sua Agenzia interinale, le propone un contratto di staff leasing in esclusiva con quell’azienda. Lei sarà sempre una dipendente dell’Agenzia interinale, però a tempo indeterminato, e dovrà continuare a lavorare sempre all’interno della stessa azienda, poiché quell’azienda, ha, a sua volta, stipulato un contratto di staff leasing con l’Agenzia interinale. L’Agenzia interinale cioè, fornirà a quell’azienda, a tempo indeterminato, un certo numero di lavoratori, tra cui, appunto, Francesca.
L’azienda però, non utilizza i lavoratori dell’Agenzia, per gestire, ad esempio, dei picchi di lavoro, ma li inserisce stabilmente nella propria organizzazione del lavoro: come se fossero suoi dipendenti, per i quali lei, però, ha dei costi più bassi ( non serve in questa sede spiegare come si raggiunga questo risultato, per cui, due persone che fanno lo stesso lavoro, in forza di due contratti diversi loro applicati, sono pagati con salari diversi ).
Francesca, però, diventa madre, una prima volta, e, a distanza di tre anni, una seconda volta. I figli hanno dei piccoli problemi, per fortuna risolti, ma lei deve accudire loro. Utilizza, per poco tempo, lo strumento del Congedo Parentale, che le spetta per Legge e le consente di restare a casa, pagata al 30% del suo stipendio, ma, soprattutto, permessi non retribuiti, a fronte di presentazione di certificati medici che attestano i problemi dei figli.
Lei stessa, si ritrova ad avere un grave problema: un tumore, che la costringe a restare fuori dal lavoro, per quattro-cinque mesi. Problema che, per fortuna, sembra essere risolto.
Ma quando rientra al lavoro, inizia a comprendere che il clima nei suoi confronti, in azienda, è cambiato.
Arriva la pandemia da COVID, e l’azienda, coglie l’occasione per sfoltire gli organici aziendali. Tra i licenziati, due persone che potevano usufruire di permessi previsti dalla Legge 104, e legati ad invalidità; una persona che aveva provocato un consistente danno nel lavorare, e Francesca.
Francesca, nonostante sia dipendente di una Agenzia interinale, viene chiamata dai responsabili aziendali della società utilizzatrice, che le spiegano perché, lei viene allontanata. Anzi, a spiegarglielo, bene, è una dirigente donna, che le dice :
– Tu, hai deciso di fare la mamma, come priorità… –
L’Agenzia interinale, lascia Francesca senza lavoro, per il tempo prescritto che le consenta di mandarla via secondo Legge e contratto, e quindi la licenzia, salvo poi, richiamarla successivamente, per andare ancora a lavorare, con un nuovo contratto a termine, sempre presso la stessa azienda chimico-farmaceutica aquilana, a testimonianza del fatto che il suo lavoro e le sue competenze professionali non erano scadenti.
L’Azienda chimico-farmaceutica, e l’Agenzia interinale operano sulla base di un unico principio: quello del profitto. I loro margini di profitto non devono subire alcuna riduzione, semmai possono solo sempre essere incrementati. E non hanno alcuna responsabilità sociale nei confronti delle persone che, nei momenti di difficoltà, semmai, vengono scaricate sullo Stato, che se ne deve far carico ad esempio, pagando loro una indennità di Disoccupazione, o retribuendone i permessi per accudire ad invalidità.
E non c’è nessuna vergogna, o reticenza, da parte dell’Azienda, per l’occasione rappresentata da una donna, che rimprovera ad un’altra donna di non essersi votata interamente al lavoro all’interno della fabbrica, ma di aver addirittura scelto di essere madre, e di curarsi dei propri figli.
Naturalmente, noi, in Italia, abbiamo un Ministero per la Natalità, che però si guarderà bene, dall’intervenire sulla precarietà del lavoro e sui principi che guidano l’operato delle aziende: “creare valore per gli azionisti”, si chiama così, massimizzare il profitto e calpestare l’unica cosa “naturale” di tutta questa storia, che cioè una donna diventi madre.
Francesca non ha opinioni particolari sulla precarietà del lavoro. Per lei non ha molta importanza ( certo, preferirebbe un impiego stabile, ma si adatta, a questa condizione ), e da Sinistra non si aspetta granchè. La Sinistra, dice, è impegnata coi diritti degli omosessuali.
E’ iscritta, al Sindacato. Ma il Sindacato, per lei, quando aveva bisogno, non ha fatto nulla. Forse non avrebbe potuto comunque fare un granchè, perché le Leggi, sono scritte bene, per tutelare le imprese.
E, mi permetto d’aggiungere io, perché il Sindacato non prova, e non sembra avere ora neanche la forza per provarci, a mobilitare quelli che hanno un lavoro a tempo indeterminato, direttamente dipendenti dell’azienda utilizzatrice, per difendere i loro colleghi dipendenti dell’Agenzia interinale.
Trenta anni di legislazione costruita, da Destra al Centro, a Sinistra, per distruggere ogni solidarietà all’interno dei luoghi di lavoro, in realtà lasciano i Lavoratori di fronte ad un dilemma semplice: se fanno proprie le ragioni dell’impresa, possono sperare di non essere cacciati via; se pensano che quello che vivono non sia il migliore e più giusto dei mondi possibili, a loro rischio e pericolo, sanno di poter essere messi alla porta in qualunque momento.
La storia di Francesca mette insieme molte questioni.
Le Leggi, concrete, e il concreto funzionamento del sistema economico, lasciano le persone sole dinanzi al “Mercato”. E il Mercato le usa e le consuma come una qualsiasi merce, togliendosi anche lo sfizio di scegliere dirigenti donne, per dire ad altre donne, che essere madri le condanna a stare fuori da questo mondo del lavoro.
Ma Francesca, e come lei tantissime altre donne, e tantissimi altri uomini, hanno introiettato la “naturalità” di questo sistema e la sua immodificabilità. Nessuno, è capace oggi, di raccontare loro, e convincerle che sia possibile anche giocare con altre regole. Più giuste ed umane.
I soggetti collettivi che dovrebbero porsi il problema di dare un ordine diverso a queste vicende, sembrano essere senza parole. I partiti politici a Sinistra, in particolare, dovrebbero recuperare trenta anni durante i quali hanno pensato che parlare di “diritti” ( importantissimi peraltro ), potesse camuffare e nascondere, la loro sostanziale subordinazione culturale e politica, esattamente a questo sistema, cui hanno anche aperto parecchie porte.
Non c’è una morale, in questa storia.
C’è un senso di ripulsa morale, questo sì. Ma io non sono abituato a urlare che le cose fanno schifo, e a consolarmi in questo modo. Io preferirei lavorare perché le cose cambino, se ci fosse un luogo nel quale mi sentissi a mio agio per provare a cambiare lo stato delle cose presenti, pur sapendo che sarebbe assai difficile, lungo, e d’esito incerto.
Prima di tutto, però bisognerebbe conoscere, e guardare fin dentro le storie, come quelle di Francesca, per provare ad intervenire sulla realtà. Se si continui a pensare che l’unica realtà sia quella televisiva, o dei social, o di quel che resta della carta stampata, ( che pure rappresentano porzioni importanti di realtà ), si continuerà a far parte di un circo che rappresenta uno spettacolo, solo per nascondere quello che avviene davvero in città. E si continuerà ad ignorare le contraddizioni in cui siamo, tutti, immersi, al di là di slogan facili e propaganda.
Francesca, nel frattempo, da sola, ha trovato un altro lavoro, sempre per il tramite di una Agenzia interinale, e spera che le cose vadano meglio per il futuro.
E io, voglio ancora una volta però, ricordare, le parole di Mario Monicelli, uno dei più grandi registi cinematografici italiani :
“ La speranza di cui parlate è una trappola, una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli che ti dicono che Dio…state buoni, state zitti, pregate che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà. Intanto, perciò, adesso, state buoni: ci sarà un aldilà. Così dice questo: state buoni, tornate a casa. Sì siete dei precari, ma tanto fra 2 o 3 mesi vi riassumiamo ancora, vi daremo il posto. State buoni, andate a casa e…stanno tutti buoni. Mai avere speranza ! La speranza è una trappola, una cosa infame inventata da chi comanda. “