Quando è successo, che la Storia ha preso la direzione che ci ha portato fin dove siamo oggi ?
Senza dirlo esplicitamente, il film “Empire of light”, suggerisce una data, o forse un periodo, breve ed intenso. Il biennio 1980-1981.
Muore il maresciallo Tito, ed inizia la disgregazione della ex Jugoslavia; viene fondata la CNN, il primo canale televisivo che trasmette solo notizie ventiquattro ore al giorno; si svolgono le Olimpiadi di Mosca, boicottate da una serie di stati, tra cui gli USA, per l’invasione sovietica dell’Afghanistan; nasce il sindacato polacco “Solidarnosc”; in Italia, si svolge la cosiddetta “Marcia dei Quarantamila”, che consente alla FIAT di sconfiggere, definitivamente, le Organizzazioni Sindacali, e di procedere alla ristrutturazione delle sue attività produttive in modo unilaterale; viene eletto Presidente degli USA Ronald Regan; l’Irpinia è distrutta da un terremoto devastante; nasce Canale 5.
Nel 1981, viene alla luce l’esistenza della Loggia massonica P2; apre in Cina la prima fabbrica della Coca Cola; viene scoperto il virus dell’AIDS; l’IBM lancia sul mercato il primo personal computer; il presidente egiziano Sadat è ucciso in un attentato terroristico.
La storia non procede per salti, ed ogni avvenimento ha radici nel passato, e produce rami e frutti, nel futuro. Per questo è sempre difficile indicare momenti simbolici, in cui il quadro, sin lì percettibile delle possibilità, improvvisamente, muta segno e direzione. Di certo, si può dire, che, appena un anno prima, con l’elezione di Margareth Thatcher a Primo Ministro della Gran Bretagna, prende il via il decennio che terminerà con la Caduta del Muro di Berlino.
Sam Mendes, il regista del film, dà a questi accadimenti storici lo spessore di uno sfondo incombente, di un cielo perennemente grigio; e ce li fa filtrare per accenni brevi, nei dialoghi tra i personaggi del film, o attraverso brani della musica di allora, che reagiva alla cupezza di quei tempi capaci di porre fine, per i quaranta anni successivi, e fino ad oggi, a quel grande movimento di progresso popolare, e di miglioramento delle condizioni materiali delle persone che era seguito alla fine del Secondo Conflitto Mondiale e che, unitamente ai processi di decolonizzazione del mondo, e all’affermarsi dello Stato Sociale nei paesi occidentali, era responsabile della relativa espansione della Democrazia tra le Nazioni del pianeta.
L’occhio di “Empire of light” è puntato su un microcosmo: il cinema Empire, in una non precisata località sul mare, a sud di Londra. Un cinema che ha conosciuto tempi migliori, quando era anche una sala da ballo e locale di intrattenimento, e che, in quel passaggio agli anni Ottanta, conserva una sua fisionomia anni ‘60, che lo fa apparire come una casa nobiliare in disfacimento. Piena di fascino, con i suoi arredi plastificati della terza Rivoluzione Industriale, ma destinata ad essere travolta da una innovazione tecnologica centrata solo sul risparmio di forza lavoro, e da una economia finanziaria il cui unico imperativo è la massimizzazione del profitto a breve termine, e ad ogni costo.
La Sanità inglese, che era ancora quella vittoriana di Chaplin, intesa al bene dei sudditi di sua Maestà la Regina, ma con piglio autoritario – perché il disagio psichico si cura solo con i ricoveri coatti e le pasticche di litio – tiene sotto controllo la meravigliosa protagonista del film. Una donna matura, e sola, colta un attimo prima dell’invecchiamento, mentre tutto sembra toglierle futuro, e condannarla ad una vita subordinata, abulica, anche negli scarnissimi affetti.
Hilary, è il suo nome; lavora nel cinema insieme ad un gruppo di persone che paiono naufraghi, aggrappati a questo contenitore la cui architettura, uscita da una matita modernista, sembra renderlo alieno al paesaggio circostante, come se fosse atterrato lì da mondi lontani.
Mentre, nella prima scena, i film in proiezione sono “The Blues Brothers”, e “All that jazz”, quasi a raccontare di una America trionfante sì, ma attardata nei suoi gusti musicali al soul blues anni ‘60 e al musical più classico, dentro, il personale del cinema è al centro di una rivoluzione musicale che, ancora una volta, dalla Gran Bretagna sta travolgendo il mondo, e sembra essere appena uscito da uno degli uffici di collocamento inglesi, raccontati musicalmente dagli UB40, e, al cinema, poi, da Peter Cattaneo e da Ken Loach.
Il ragazzo che, di fronte alla travolgente musica di quel biennio, a partire dallo ska revival dei gruppi della Two Tone, che univa insieme, per la prima volta, ragazzi neri e ragazzi bianchi del proletariato urbano, conservava una nostalgia inascoltabile per i Supertramp, mentre cercava d’avvicinarsi alla sua collega dai capelli cotonati che ascoltava i Joy Division nel suo walkman. Il proiezionista, chiuso nel suo silenzio di adulto, e nella sua stanza inaccessibile, dalla quale la luce faceva sgorgare storie sullo schermo bianco, quando s’apriva il sipario rosso.
A loro, s’aggiunge Stephen, l’altro protagonista, giovane ragazzo d’origine caraibica, che guarda quel mondo fermo nelle sue dinamiche, con occhi nuovi, e lo perturba, e lo cambia.
Mendes racconta con grande delicatezza, l’avvicinarsi tra loro dei due protagonisti, diversissimi eppure capaci di comunicare, e con una fotografia straordinaria, che sembra sospendere tutto il racconto, come se fosse appena uscito dalla penna del Morrissey di “ Everyday is like sunday “ ( il cui video, su Youtube, ricalca esattamente le stesse atmosfere del film ).
Questo lungometraggio non può definirsi, come una storia d’amore, ma, certo, come una storia di progressiva rivelazione dei lati più fragili e vulnerabili di ciascuno di noi, gli unici, di cui vale la pena aver cura; e ciascuno di noi, avrebbe bisogno di una gita al mare, su un vecchio bus a due piani, guidato dalla parte sbagliata delle corsie, mentre ci si tiene per mano e s’osserva il mondo scomparire, oltre i finestrini.
E sono le storie; o meglio, la possibilità di accedere alle storie, che, ancora una volta, consente ai personaggi del film di ritrovare il proprio posto dentro la realtà. E, ancora una volta, ritroviamo la stanza di proiezione di un cinema, decorata di tutti i volti della nostra educazione sentimentale collettiva, da Fellini a Brando, da Giulietta Masina a Peter Sellers, a Dustin Hoffman, a mille altri.
E’ una stagione di film che sembrano celebrare la fine del cinema, così come lo abbiamo sino ad oggi conosciuto, come luogo di condivisione collettiva delle storie; capace di ergersi come un baluardo contro la cieca rabbia di chi non tollera differenze o deviazioni ( e non a caso, nel film, il cinema Empire è assaltato dai fascisti del National Front inglese ), ma sconfitto forse, oggi, dal capitalismo delle piattaforme on line, che celebrano una visione tutta solitaria ed individualista delle storie che pure, come umani, siamo ancora capaci di inventare.
Vien voglia di cercare, per leggerle oggi, le poesie che la protagonista, in modo sempre inatteso, offre, per punteggiare i momenti di svolta del racconto.
Vien voglia di poter tornare dentro quel tempo, il biennio 1980-81, pieno di musica straordinaria, e di arte, che non riuscì però ad opporsi alla voglia di rivincita di un capitale senza freni, che ancora adesso, in modi inediti, continua ad usare la rabbia degli esclusi, per rivolgerla contro chi vorrebbe migliorare la vita redistribuendo le ricchezze, e per continuare a sfruttare indiscriminatamente e a depredare il pianeta; e vien voglia di sognare un possibile intervento diverso, allora, su quegli sviluppi storici che non fummo in grado di vedere, per provare a non ritrovarci nel 2023 gravido di paure e pericoli che abitiamo, persino, francamente, con poca musica straordinaria intorno.
L’impero della luce, è la luce del mare che filtra dalle vetrate, ed è la luce accesa dai carboncini dentro le macchine di proiezione che permette di vedere le storie del cinema, e quando per la prima volta, la protagonista assiste ad un film, diventa la luce delle sue lacrime, e del suo sorriso finale, forse libero, finalmente, dalle angosce del passato e che ci consegna un futuro attuale, forse possibile, se di quel biennio, recuperiamo le parti belle, e generose; tra le altre, quella dei ragazzi bianchi e neri che, insieme, facevano una musica bellissima.