logo-studio-medico-multispecialistico-lasermillennium-dr-franco-muzi
logo-studio-medico-multispecialistico-lasermillennium-dr-franco-muzi

Storie

Home / Rubriche / Storie

Arena Rivellino

Feb 8, 2023 | 2023, Storie

Nel porto, gli odori soffiano col vento.

Ci vado quando mi sento solo. Ascolto il verde acido dei motori entrobordo. Mentre è rosso, invece, lo scirocco giallo dei pesci attaccati per terra, seccati dal sole e dal sale: i pezzi rimasti dalla fame dei gabbiani e dei gatti veloci. Le reti messe ad asciugare, sanno di corallo e alghe nere e aghi d’avorio. Il legno delle barche odora di sudore e castime, quando il mare soffia a ponente maestro e bisogna rientrare, prima di non sentirsi più neanche parlare, da una murata all’altra. Sullo scivolo, dove il cemento scende a mare, il lippio profuma di sughero e coccioli, e per non cadere, in barca s’entra a piedi nudi.

Le cime tese sui nodi a bocca di lupo inverdiscono di muffa appassita e schiuma di onde. Da qualche parte, si sente ancora il sego degli scalmi.

Le paranze è da un po’ che sono rientrate, e l’asta è finita con le cassette di polistirolo impilate tutte nei congelatori, o già partite sui furgoni verso nord. C’è sempre qualche cane, in giro, che annusa assenze, e quando il vento sta fermo, viene a disturbare il puzzo di motore d’auto. Il Corso, sta a meno di cento metri, da qui, ma da qui, non si sente. Qui si sente solo l’acqua che si spiaggia sotto le chiglie. E sbatte, come un cielo che cerchi un soffitto sopra di sé.

Quando è ora di tramonto, mi piace stare qui.

Il sole che cala dietro Gallipoli vecchia, sgretola i muri con la sua luce spezzata, come il richiamo di una madre ai figli.

Se sto qui, mi pare meno grave, che nessuno mi pensi, o si ricordi di me, o mi chiami. E se nessuno mi cerca, o mi scrive, credo, alla fine, è solo perché non sono poi così importante. Su questo molo, ci stanno nasse talmente abbandonate, che deve essere morto, chi ce le ha lasciate. Ma nessuno le tocca, perché un giorno, un marinaio potrebbe venire a reclamarle, ed è giusto che le trovi. Finisce che pure io, sono come una di quelle nasse. Ben costruita coi giunchi intrecciati e forti sotto il mare, e lasciata però a scolare di tempo; dimenticata. Libera di zavorra, ma inutile. Magari una maglia slabbrata, da qualche parte, per l’urto con uno scoglio che l’ha strappata, e dentro di me c’entra troppo mare e non trattengo più nulla, e tutto mi scivola addosso e dentro, chè sono fatto solo di ossa senza carne più, né carezze. Da ricevere. Perché forse ne ho date tante, ed è ora che smetta di pensarci, di meritarne qualcuna.

Con lo sguardo, provo a seguire una singola onda che si muove dentro il mare, sino a riva. Ma non ci riesco, granchè. Basta qualche secondo e l’onda, ne diventa un’altra , e un’altra poi ancora. E non lo so mai, se è proprio l’acqua, a spostarsi, o se resta invece ferma e s’increspa soltanto. Quest’acqua di mare non viene dalla Sicilia o dall’Africa lontanissima o da Grecia. E’ sempre stata qui e dura da cento anni intorno. E’ passata sotto tutte le palastre del ponte e conosce tutti gli scogli sotto, e s’illude solo, d’esser nuova, e d’aver viaggiato.

Ci somiglio, in fondo. Per quanto io possa pensare d’aver camminato e corso, o viaggiato, penso d’aver scelto di non essermi mai tanto spostato da qui. Forse perché ho immaginato che, qui, esattamente come altrove, in posti del mondo ben più conosciuti di questo, esattamente come qui, si nasce, si cresce, si va a scuola, si gioca e ci si innamora, si perdono le persone che s’amano e si lavora, o ci s’ammala e, comunque, alla fine, esattamente qui, o altrove, si muore, e il sole cala dietro il faro e quando risale, da Otranto, trova gente nuova, e se io non ci sto più, su questo molo, non cambia niente, ma niente proprio.

Però, se proprio potessi scegliere, come andarmene via, mi piacerebbe staccare la cima da una bitta e tagliarla, per non averne più, sulla barca, per non avere nessun altro posto dove sia possibile fermarmi, e mi metterei a remare verso l’orizzonte. Un bel remare lento, muovendo il polso, mentre il remo è nell’acqua e spingo con tutta la schiena, e lascio sospesi i remi, un istante senza respirare, fuori dall’acqua, per farli scolare e guardare la scia che si divarica dalla prua. Senza voltarmi dietro.

Ci sarà un momento in cui tutto diventa buio.

Quando qui diventa buio, le luci si disegnano sull’acqua e galleggiano danzando colorate, senza affondare. Solo la mia faccia, non si vede più, come un abbraccio che ho provato a dare, ma senza che nessuno mi passasse le sue mani strette dietro la schiena mia.

Però, qui, smetto, di sentirmi solo.

Ci ritrovo le mie storie e le persone che ho conosciuto e quelle che mi sono passate davanti agli occhi. Ci ritrovo persino le persone che ho immaginato e quelle che non mi hanno mai aspettato.

Dentro il castello che entra nell’acqua, c’era un cinema, un tempo. Aveva le sedie di legno verniciato e ferro. E funzionava solo d’estate, col cielo aperto anche ai temporali.

Io ci lavoravo dentro. Staccavo i biglietti da dietro il vetro e le tende del botteghino. Prendevo i soldi, e davo il resto. Ridotto per donne, militari in divisa e fanciulli.

Non mi guardava mai nessuno, in faccia. Guardavano tutti le mie mani, che staccavano i biglietti di carta sottile dalle matrici, e restituivano qualche moneta indietro, talvolta. Preso il tagliando, mi giravano tutti le spalle. E andavano via veloci. Come se il film non li aspettasse.

Coppie che si tenevano per mano. Bambini che correvano via ridendo e signori anziani in camicia e cravatta e capelli impomatatati anche quand’era faugno.

Si poteva fumare, nel cinema, e dopo ogni spettacolo, passavo io a spazzare via le cicche. Di notte gli uccelli dormono, e non ci passano davanti allo schermo illuminato. E quando qualcuno suona il clacson sulla strada a fianco, non si sente, dentro il cinema senza tetto.

Se guardo in un certo modo, qui, dal porto, il cinema non si vede più. Sta oltre la mia vista, chiuso da anni, e senza memoria. So che c’è ma se non lo vedo, non c’è. C’ho una età ormai. E nessuno si ricorda più di me. Nessuno mi guarda, infatti.

Stanotte, dentro i miei occhi, c’è Spencer Tracy che rema sulla sua barca. “ Il vecchio e il mare”.

Ci stanno troppi squali che intorno mi mangiano tutto, e io ho deciso di staccare la lenza, e lasciarmi andar via.

Condividi su

Se hai trovato l’articolo interessante e vuoi discuterne con me compila il form sottostante o contattami all’indirizzo email:
messaggio@luigifiammataq.it

Consenso trattamento dati personali

7 + 9 =