Il sindacalismo confederale italiano ha saputo interpretare il cambiamento.
Ha costruito la sua organizzazione modellandola sulle esigenze dei Lavoratori, nel secondo dopoguerra, e poi negli anni della ricostruzione postbellica, e del cosiddetto boom economico. Ha saputo essere interprete di una grande stagione di riforme e di conquiste sociali, dalla seconda metà degli anni sessanta dello scorso secolo, e fino all’inizio degli anni ottanta.
Poi, ha interrotto il suo percorso di interprete del cambiamento.
E si è posto sulla difensiva, in una situazione in cui l’impetuosità del cambiamento economico, e tecnologico, non permetteva più alcuna difesa reale.
Il sindacalismo confederale italiano, anzi, ha difeso sin troppo bene, quel che poteva difendere; ma oggi si ritrova con una organizzazione pensata per aderire ad una economia fordista, fondata sulle grandi aggregazioni delle fabbriche e degli uffici, mentre invece il lavoro soffre di una tripla torsione e trasformazione. Il lavoro è frammentato dalla scelta di “porre in valore”, cioè di trasformare in possibilità di profitto, e quindi in impresa che persegue il profitto, ogni singolo anello della catena produttiva; il lavoro è frammentato da una radicale scomposizione territoriale su scala globale che nasconde al sapere collettivo e operaio e alla consapevolezza delle persone, le fasi di progettazione, ricerca, sperimentazione, prototipazione, e poi produzione, fornitura, assemblaggio e ricomposizione finale ed infine logistica e distribuzione di prodotti e servizi che, proprio per la loro scala globale assurgono a totem inscalfibili del consumo e di un sistema che ha bisogno soltanto di lavoro materiale totalmente sostituibile dalla macchina e ancillare rispetto ad essa: servile, quindi, ed asservito, di fatto, essendo riuscito a trasformare il lavoratore, almeno nel Nord del mondo, contemporaneamente, anche in un consumatore bulimico, interessato non più a cambiare il modo di produzione e a finalizzarlo ad una idea di progresso, ma solo alla vita ludica fuori dai cancelli del luogo di lavoro. Infine, il lavoro è ridefinito totalmente dalle reti di comunicazione e dalle procedure informatizzate che trasformano in una “appendice senziente” del processo produttivo e di distribuzione, ogni singola persona, le cui informazioni, ed il cui sapere, e la cui manualità, sono progressivamente incorporati dal sistema il cui unico scopo è minimizzare i tempi, e massimizzare i risultati.
Pensate al gesto della commessa del supermercato che passa sotto il lettore ottico il codice a barre di un prodotto che avete acquistato. Quel gesto si trasforma in informazione al magazzino, che, a sua volta, si traduce in ordine al fornitore e quindi in produzione, in tempo reale del bene mancante e in trasporto del bene sulla rete autostradale, fino a nuova consegna.
Il sindacalismo confederale italiano, si trova oggi ad essere superato, nella sua forma organizzativa, dal concreto svolgersi del modo di produzione, ed è quindi maturo per crollare.
Certo, esistono ancora le dimensioni affrontabili e comprensibili, in parte almeno, con parametri, diciamo, antichi. Il cantiere della ricostruzione dopo sisma; il campo delle carote nel Fucino. In una certa misura, persino i grandi servizi, come possono essere la Sanità, o la Scuola.
Ma, in realtà, in ciascuna delle attività in cui il lavoro di uomini e donne si è fatto complesso – mentre chi lo governa vorrebbe sempre più ridurlo ad ignorante propaggine di quelle funzioni che le macchine da sole non possono svolgere, e diretto da centri sempre più lontani ed invisibili – si è inserita una alienazione di sé stessi e della funzione sociale del lavoro, sempre più profonda e sfiancante, che ha convinto ciascuno della scissione tra il proprio io, impegnato a procurarsi un salario, ed il proprio io che è impegnato ad usare quel salario per sopravvivere, e per consumare il più possibile.
Questo enorme processo di ridefinizione è stato accompagnato dall’attacco alle funzioni e ai poteri dello Stato, che oggi è pienamente, o quasi, subordinato ad un flusso di capitali privati che ne condiziona i margini sempre più ridotti di intervento sull’economia e sullo “stato sociale”. Il centro sinistra di questo Paese, ha inserito nella Costituzione della Repubblica italiana, il vincolo del pareggio di Bilancio.
Questo enorme processo di ridefinizione è stato accompagnato anche dalla scientifica demolizione di ogni tutela sul mercato del lavoro, rendendo la persona umana, persino prima del Lavoratore o della Lavoratrice, una pura funzione, sottomessa alle esigenze di produzione e distribuzione e di profitto.
In migliaia di realtà produttive e di servizio, non vi è più alcuno schermo giuridico al puro sfruttamento della persona, usata e gettata via quando le esigenze di fare utili di bilancio lo determinino.
In questo quadro, gli strumenti consueti del sindacalismo confederale italiano, come la contrattazione nazionale, e quella più vicina al luogo di lavoro o al territorio, e l’interlocuzione con i livelli di governo, locale e nazionale, si sono drammaticamente ristretti nella loro capacità di ricomprendere in sé le mutate forme della produzione del servizio e della distribuzione, e logorati, quanto a capacità di incidere realmente sulle condizioni materiali delle persone, e del lavoro; sul salario e sui diritti; si sono sempre più fermate, nella migliore delle ipotesi, ad un puro livello consultivo, quando si è trattato di discutere e ragionare di bilanci degli Enti locali, e del Governo nazionale.
Da dove, si riprende per dare futuro al sindacalismo confederale italiano ?
Innanzi tutto, occorrerebbe avere il coraggio di guardare alle proprie strutture, ad ogni livello, e cercare di comprendere cosa, e chi, sia adeguato alle sfide che ci attendono, e cosa e chi, invece, vada accompagnato fuori dalla possibilità di incidere e dirigere.
Il sindacalismo confederale italiano dovrebbe studiare, i processi produttivi, le filiere, il loro ramificarsi sul territorio, le reti di comunicazione e la rappresentazione che di queste strutturazioni viene data; dovrebbe provare a ricomporre le reti di servizio e di stato sociale in una relazione dinamica con il territorio ed i suoi bisogni; con la contrattazione delle condizioni di lavoro, della organizzazione del lavoro, dei salari e delle professionalità. Un percorso tutto da inventare e costruire, dal basso, innanzi tutto, per ricostruire rappresentatività e potere contrattuale, e alleanze e relazioni tra chi ha lavoro stabile e chi non ha lavoro stabile e vive nella rassegnazione del ricatto occupazionale.
Come pensiamo di discutere del lavoro nella Sanità, se non saldiamo una lotta per il riconoscimento delle competenze, ai bisogni ? Se non teniamo insieme la spiegazione materiale delle “Liste d’attesa”, con le carenze di organico o le scelte che privilegiano la Sanità del profitto, a scapito del servizio pubblico ? E come interveniamo, se non siamo capaci di declinare la sanità territoriale, la prevenzione, con i pronto soccorso mobili, in una realtà di piccoli paesi sottoposti a processi di spopolamento e di isolamento anche infrastrutturale e di servizio ? E come ripensiamo tutti i processi di riabilitazione se non li connettiamo all’invecchiamento della popolazione e ai bisogni sempre più diffusi di integrazione e di cura, del disagio, e della cronicità, e non li sottraiamo alla pura logica delle risorse scarse che servono a pagare affitti milionari della ASL provinciale, per esempio, o gli sbilanciamenti drammatici, tra quanto personale sia impegnato in processi amministrativi, e quanto invece effettivamente nella cura delle persone ? Per non parlare di quanto sia programmaticamente lasciato alla sanità del profitto, in termini, non solo di processi riabilitativi, ma anche di diagnostica, ad esempio. A scapito della sanità territoriale, delle guardie mediche, della medicina sociale e della prevenzione dalle dipendenze.
Il sindacalismo confederale italiano dovrebbe essere percorso da un sussulto di generosità, che gli consenta di investire risorse lì dove ci sarebbe più bisogno della sua presenza, e non dove invece si tratta solo di amministrare rendite di posizione e di potere.
Bisognerebbe andare a cercare i giovani, e i lavoratori precari lì dove sono. Nei lavori temporanei dei negozi e dei ristoranti e nella filiera del turismo, per cui andrebbe aperta una lotta di riqualificazione, anche ad Aquila ed in provincia. Quanti sono i camerieri che conoscono le lingue straniere ? Dovrebbe essere una domanda cui rispondere, prima, di pensare ai cannoni sparaneve che non c’è.
I giovani, italiani e no, sono nei cantieri di una ricostruzione affrontata senza Piano Regolatore e senza visione della città e del suo territorio, e senza concrete azioni per il dopo, quando le risorse pubbliche saranno finite; ed allora bisognerebbe pensare oggi a processi di riconversione delle imprese e dei lavoratori; di esportazione dei saperi maturati nella gestione di situazioni emergenziali e straordinarie, di restauro, conservazione e riqualificazione del patrimonio abitativo.
Ma senza una idea organica della provincia aquilana e del suo peculiare territorio, e del suo futuro, questi processi saranno gestiti solo dalla logica del mercato, e di chi, tramite protezioni politiche, si difende dal mercato. Senza una idea dinamica di cittadinanza, il rapporto con quanti sono venuti in Italia, e ad Aquila, a lavorare per ricostruire, diventerà un rapporto di separazione ed esclusione e conflitto.
I giovani italiani, e non italiani, cercano spazio dopo aver studiato, ed impattano con un sistema corporativo e chiuso. Come, il sindacalismo confederale italiano interloquisce con i tanti giovani che escono dalle Università e non trovano il modo di esprimere il loro sapere se non in percorsi di precariato umiliante talora e separato dalle posizioni strutturate, negli uffici e nei servizi pubblici, nella stessa scuola ed università, o nei luoghi di lavoro e di servizio ? Oppure il sindacalismo italiano pensa di continuare a spendere risorse sui Pensionati per pensare di avere futuro ?
I giovani, italiani e non, sono sui social network. Cercano lì le loro informazioni, talvolta le loro relazioni; hanno lì le loro reti mutevoli di riferimento e confronto. E può il sindacalismo confederale italiano continuare ad ignorare questi fenomeni, sia nel loro portato di modificazione dei processi reali, che nella loro capacità di incidere sul sentire comune, che nelle loro potenzialità di aggregazione e costruzione invece di legami reali ?
Il sindacalismo confederale italiano, è diventato anche una grande agenzia di servizi: nella tutela individuale e nell’assistenza fiscale e vertenziale. Ma deve scegliere. Se trasformarsi in un soggetto di mercato, o se deve dare ricomposizione politica alle richieste di servizio che le persone e i lavoratori e le lavoratrici pongono. Al sistema dei servizi del sindacalismo confederale, non servono direttori che non interloquiscono e non costruiscono potere contrattuale con le Agenzie delle Entrate, l’INPS, o l’INAIL, o con gli Enti Locali. Servirebbe invece essere integrati nell’azione contrattuale confederale in tema di sicurezza sul lavoro, ad esempio, o sul mercato del lavoro, o nei processi di relazione dei cittadini stranieri con la realtà italiana, o in tema di riconoscimento delle problematiche invalidanti, nei rapporti con le ASL e nei concreti meccanismi di funzionamento dell’INPS o dell’INAIL.
Il sindacalismo confederale italiano deve sciogliersi dall’abbraccio con una politica che si è trasformata in comitato elettorale permanente, e deve ritrarsi dalle logiche di consorteria e di potentati che mortificano la voglia di lavorare di delegati e dirigenti sindacali. E deve guardare bene in faccia sé stesso, quando non riconosce che, tra molti dei suoi dirigenti maschi, c’è una idea predatoria della presenza femminile.
Anche nei luoghi di lavoro del sindacalismo confederale italiano, esistono relazioni e dinamiche tossiche di potere e prevaricazione, che colpiscono in particolare le persone generose e le mortificano, ed occorre rompere consolidati sistemi per i quali taluni gruppi dirigenti si sentono proprietari di strutture e luoghi. E lo si può fare solo se si recupera il protagonismo e la partecipazione dei delegati e dei lavoratori, anche attraverso accurati processi di selezione e formazione. E lo si può fare solo se ci si apre alle voci esterne e si rende la cultura protagonista.
In questi anni, la CGIL di Aquila, e nazionale, avrebbe dovuto portare il teatro, il cinema, la musica, nei progetti C.A.S.E. e nelle frazioni per sperimentare nuovi processi di socialità e di ricomposizione urbana. Avrebbe dovuto discutere seriamente le reti infrastrutturali e di comunicazione, con Sulmona, con Avezzano, con Castel di Sangro e Carsoli; con Roma e con Pescara, e costruire vertenzialità su questo, invece di restare muta di fronte alle sparate propagandistiche del collegamento Pescara-Roma o della triplicazione delle corsie sull’Adriatica quando l’autostrada L’Aquila-Roma non arriva neanche a Teramo.
La CGIL di Aquila avrebbe dovuto provare a diventare un attore vero della ricostruzione che i suoi lavoratori materialmente compiono nei vari “crateri”, del 2009, del 2016 e del 2017. E nella prevenzione antisismica per Sulmona ed Avezzano. Provando a dare una massa critica a quelle reti di interlocuzione sociale che hanno attraversato la città e la provincia. Dagli studenti, ai comitati per la ricostruzione delle scuole; da chi ha lottato per l’acqua pubblica e reti infrastrutturali sostenibili ed intelligenti; sui gasdotti e per il recupero di spazi abbandonati come a Collemaggio; da chi difende i parchi e le riserve naturali a chi vuole cercare modi di saldare turismo, difesa del territorio e dell’ambiente, economie circolari e produzioni tipiche locali.
Nelle difficoltà terribili, che si sono vissute e che si vivono, per guardare un futuro possibile, si dovrebbe individuare una specifica realtà complessa, che intrecci tutti i temi importanti di questi anni, e scegliere di farne un luogo che sperimenti una contrattazione confederale, contemporaneamente verticale ed orizzontale. Che ricomponga i processi produttivi e l’organizzazione del lavoro; che intrecci la vita dentro il luogo di lavoro, con i servizi e lo stato sociale fuori dal luogo di lavoro; con i trasporti, la scuola, l’università e la socialità degli anziani e dei bambini.
La Giunta Comunale aquilana vuol cambiare il nome all’Asilo Primo Maggio di Pile; considerando irrilevante il Primo Maggio, e ponendolo, strumentalmente a confronto col terribile lutto cittadino che ciascuno di noi ha sentito per la morte del piccolo Tommaso.
La Giunta Comunale di Aquila, finge di non sapere che il sindacato confederale dell’Italtel, aveva, nella contrattazione integrativa con l’azienda, rinunciato ad una parte degli aumenti salariali dei Lavoratori, per trasformarli in contributo, col concorso dell’azienda, al finanziamento della costruzione di quell’asilo, nella consapevolezza che le donne, per poter lavorare, avevano bisogno di strutture pubbliche educative per i propri figli.
La CGIL non deve aprire una discussione sulla intitolazione di quell’asilo. Credo invece che debba ridare valore al Primo Maggio, e dar vita a discussioni contrattuali che abbiano quella lungimiranza e quella capacità di intrecciare vertenza salariale e sociale.
Le grandi correnti della storia; il convergere di crisi climatica, conflitti bellici, pandemia ed attacco profondo alla democrazia e all’eguaglianza di uomini e donne, ci mettono di fronte ad una sfida che va affrontata nel cortile delle nostre case, ed a livello globale. Non possiamo pensare di avere in tasca bacchette magiche o risposte buone per ogni stagione, ma si dovrebbe partire invece dalla consapevolezza che si è chiuso un ciclo storico, e noi siamo dentro un processo che definisce il prossimo tempo, e non possiamo permetterci di non essere umili e generosi, attenti all’ascolto e allo studio; aperti e rigorosi, con noi stessi e con gli altri.
E’ il momento di cogliere, ma anche di provare a determinare, le linee che ci possono portare ad una maggiore giustizia sociale ed equità, abbandonando luoghi comuni e strade confortevoli. Se non faremo questo, avremo la responsabilità storica di aver disperso un enorme patrimonio di persone e pratiche che hanno reso l’Italia migliore di come era, quando la CGIL nacque nel 1906 prima, e nel 1944 poi.