Di nessuno, ci si può prendere totalmente cura.
Conoscere, e rispettare una persona, e volere per quella persona il bene, può voler dire anche rinunciare ad insistere sul proprio punto di vista, in una discussione importante con quella persona; accettare un rifiuto, o lasciar andare, addirittura, ma avere l’umiltà di sapere che si resterà sempre insieme.
Quando si incontri qualcuno, può nascere un legame. Senza che lo si decida. Semplicemente accade; qualcuno potrebbe evocare il destino, altri il caso; e se a quel legame ci si abbandoni, con l’innocenza di chi non pensi a cosa o quanto ricavarne, può nascere un sentimento molto strano, e particolare: l’amicizia.
Ci sono inattese regole, nell’amicizia.
Regole che si esigono da sé stessi, e regole che si esigono dall’altro. E sono quasi sempre le stesse regole, per entrambe. Sincerità senza mediazioni. Accettazione totale dell’altro. Comportarsi col rigore necessario verso sé stessi, perché è lo stesso rigore che ci si aspetta dall’altro. Lasciarsi trasportare dentro imprese che hanno a che fare con l’onore e la riconoscenza dovute a chi ci accompagna e ci stimola, e non hanno nulla a che vedere invece, coi concetti di convenienza o rilevanza. Divertirsi insieme senza un orizzonte che limiti le possibilità.
Regole che possono essere rimesse sempre in discussione, ma solo perché comunque si deve sempre star vicino all’altro, per fargli sentire la propria presenza; in ogni caso, anche a migliaia di chilometri di distanza, e a distanza di anni, in cui ci si è comportati, egualmente, come se l’altro ci fosse stato sempre vicino.
Somiglia all’amore.
Ne differisce forse, solo per l’assenza del desiderio del corpo dell’altro. Ma può trasformarsi, in amore.
Non si fanno classifiche, tra sentimenti. Quando esistano, somigliano a bambini che inventano il loro mondo insieme, ed è difficile immaginare qualcosa di più importante.
Il film diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersh, inizia esattamente dalle corse di bambini che s’abbandonano all’estate tra i monti.
E’ casuale, l’incontro tra i due protagonisti, interpretati ( nella loro versione adulta ), da Alessandro Borghi e Luca Marinelli. In un piccolo paese di montagna, gli unici bambini, sono loro due.
E’ un caso, o è destino, che s’incontrino ?
Somigliano al topo di città, e al topo di campagna, di una vecchia favola, ma, qui, i due topini, cercano il loro posto nel mondo, piuttosto che invidiare quello dell’altro, o scoprire, moralisticamente, alla fine, che è meglio che ciascuno resti al proprio.
Il padre del bambino di città prova a cambiare il futuro del bambino di montagna, ma, le decisioni dell’altro padre, impediscono, che questo avvenga. E può essere un caso, oppure un destino.
E il bambino di città, adolescente, guarda il proprio padre, e pensa di vedere in lui la somma di tutto quello da cui vorrebbe fuggire, e lo fugge, ma s’accorge, col tempo, di aver imprigionato suo padre in uno stereotipo, che non lo racconta, e non lo comprende, come persona.
La fuga, si conclude davanti ad un rudere, immerso tra monti selvaggi, e bellissimi, e aspri, e dolcissimi, esattamente come doveva essere il mondo prima che gli uomini pensassero di usare tutto quel che è stato dato loro dal tempo, come una loro esclusiva proprietà di cui abusare impunemente. Il rudere di una casa che il padre aveva comprato, e che il figlio, uomo di città ormai, insieme all’uomo di montagna, casualmente e nuovamente incontrato, o forse per destino ritrovato, iniziano a ricostruire, come se, mettere insieme quelle pietre, e quelle assi di legno, significasse edificare il luogo dove la loro amicizia potesse degnamente abitare, e, per questo, quel rudere diventa una casa che abita le loro anime, custodite tra valli, ruscelli e laghi, e alberi che non vogliono morire e fiori.
Una amicizia che è fatta di parole, quelle che l’uomo di città cerca per raccoglierle in un libro, e trovare così la strada che sente di avere dentro, e delle parole dell’uomo della montagna, che rifiutano l’astrattezza, ma cercano il contatto concreto con le cose, con le loro forme, col loro respiro, col loro odore. Ed è fatta dei silenzi notturni e delle cime, e del respiro della fatica materiale e del camminare, e del caldo del fuoco di legna.
L’uomo di città viaggia per otto montagne, ed otto mari, per incontrare, infine, le proprie parole e l’amore. L’uomo di montagna resta fermo, al centro, per restare fedele ad una idea di sé stesso, che suo padre voleva portargli via, e che ritrovava invece nel padre dell’amico, col quale percorreva quelle montagne che il figlio fuggito, poi, ricammina, per cercare le parole di suo padre, ed il suo amico, che, in sua assenza, diventava fratello.
Le parole che si scambiano, lasciano segni, del caso, o del destino, sul ciglio della strada; le ossa dei morti impastate con la farina, in Nepal, lasciate alla fame degli uccelli, ed il divertimento, a scendere dalla montagna innevata, con gli sci che non si sanno usare; come a tracciare un finale che si conosca, già dall’inizio della storia, che è il racconto di come le casualità della vita incontrano la personalità, di uomini e donne, mettendole alla prova e deviandone i percorsi, verso esiti imprevedibili e lontanissimi, durante i quali, uomini e donne lottino, per la dignità dei loro sentimenti, delle loro emozioni, della loro dolorosa voglia di vivere.
Ma può anche essere il racconto di come uomini, e donne, cerchino, invano, di ribellarsi al proprio destino già scritto, che li attende, indifferente, al disgelo dell’inverno, o su un campo di calcio dall’altra parte del mondo, ma sempre tra montagne custodi del segreto più intimo della vita.
Il destino, dovrebbe essere quel filo che unisce tra loro momenti di apparentemente “normale” vivere, e, proprio in quei momenti, segna invece la sorte di ciascuno, come una antica figura mitologica di donna che taglia, esattamente un filo, che smette d’arrotolarsi. Ma il destino, è anche qualcosa che gli uomini non conoscono, e non possono interpretare, se non dopo che i fatti siano accaduti. Allora, e solo allora, ogni storia, ed in essa ogni suo passaggio, certifica la necessità di quel finale, e solo di quello.
Dove sarebbe, allora, la libertà umana ?
La libertà umana, è nell’acqua di una cascata di primavera, che sappiamo fresca, e dolce, e sappiamo che cadrà, dall’alto verso il basso, e sappiamo che si poserà, lontano non sappiamo quanto, in un fiume, o in un lago; ma non sappiamo quale sasso deciderà di levigare, e su quale farà crescere un’alga o un muschio; e non sappiamo se sarà traversata da bambini che s’arrampicano, o da un camoscio che esplora il giorno; e non sappiamo se sarà bevuta da una donna, e se ne laverà il corpo nudo.
Siamo consapevoli, da umani, del nostro cammino: sappiamo come inizia, e dove finirà, ma, di quel cammino, non conosciamo nulla, se non che possiamo cercare, in quel cammino, di renderlo degno e bello; sappiamo che possiamo provare a toccare i nostri desideri e a rimarginare le ferite che subiamo, e quelle che abbiamo inferto; sappiamo che possiamo provare ad essere quello che, dentro di noi, sappiamo di poter essere, e di voler essere, e sappiamo che in questo possiamo fallire, o essere sconfitti, e riprovare, e ancora.
E’ preferibile ribellarsi al proprio destino, pur essendone consapevoli, ed essere sconfitti, piuttosto che accettare che il mondo ci porti via quello che pensiamo essere la parte più importante e vitale di noi stessi, e rassegnarsi alla sua perdita.
Le Otto Montagne, non ci indicano una strada.
Ci dicono solo che la vita accade, come le stagioni che tornano e cambiano, e che ogni conquista, piccola o grande, che riusciamo a raggiungere, ci regala il senso profondo di tutto quello che ha ragione di essere, e ci riempie, nel nostro destino umano che attende la fine.
Costruire la bellezza e coltivare l’amore. Cercare risposte e interrogare le stelle o cieli alti. Correre a perdifiato e cadere, e rialzarsi. Sentirsi addosso un dovere e non fuggirlo.
Dal cinema si esce piccoli, come davanti agli occhi di una madre, o alle falde di un infinito monte che tocca la luna. Ma senza voglia di arrendersi.