La Storia è fatta di tante persone inconsapevoli che si trovano dentro un vento, e vengono trascinate, e portate dentro accadimenti di cui non riconoscono il peso e lo spessore, mentre provano, semplicemente, a sopravvivere. E queste persone, guardano la loro realtà intorno, e pensano sia tutta la realtà, e che non ci siano altre possibilità.
Due italiani affamati – sempre affamati gli italiani – da ubriachi, in un momento di estrema sincerità alcoolica, riconoscono in sé stessi e sintetizzano in modo perfetto la dimensione esistenziale e pre-politica del fascismo, e, perciò, senza rendersene conto, la sua “capacità di permanenza nel tempo”, per così dire :
“ Un uomo ha bisogno di sentirsi qualcuno; ha bisogno di sentirsi forte, non come tanti fessi che stanno in giro è per questo, che a me il fascismo piace… sì, piace anche a me, perché col fascismo, anche un fesso si sente forte “.
Nel 1962, a soli 17 anni dalla fine della II Guerra Mondiale, e a 40 anni dalla marcia su Roma ( con la stessa vicinanza di noi che parliamo del Mundial del 1982 in Spagna ), Dino Risi costruisce un film sommesso quasi, nonostante le altisonanti parole dei gerarchetti e dei loro aedi piccolo borghesi al seguito, che si esprimono con le parole incomprensibili ed involute di tanti intellettuali di provincia che, così, si sentono finalmente diversi dal popolo che disprezzano, e racconta la presa di coscienza progressiva, ma sempre incerta, di due persone guidate essenzialmente da bisogni primari.
Il racconto sente ancora addosso tutto il peso di una nazione che s’è lasciata ingannare da una minoranza violenta e senza scrupoli, affamata di potere ad ogni costo, pronta a contraddire tutti i propri proclami pur di arrivare a sedersi a Roma, e dalla complicità con essa, delle sue classi dirigenti: dei proprietari terrieri che li finanziarono; delle forze dell’ordine che fecero finta di nulla; dell’esercito che obbedì ad ordini contrari alla Legge; della gerarchia cattolica ben contenta di appoggiare qualcuno che contrastasse, armi in mano, quei senzadio dei socialisti; della monarchia che fu la vera responsabile del tradimento delle istituzioni verso sé stesse, immaginando inizialmente, e arrogantemente, come ci raccontano le battute finali del film, di poter controllare un movimento che, per primo in Italia, aveva sino in fondo compreso la capacità manipolativa della propaganda di massa, amplificata dall’uso indiscriminato della violenza, contro un nemico, i Bolscevichi, più immaginario che reale, perché il problema vero, era che, dopo aver fatto la Grande Guerra, gli Italiani, pensavano di meritare una vita più giusta: terra per i contadini, un salario migliore per gli operai, ma nessuno di quelli che gestivano le leve di comando della società, era disponibile a concedere loro quello che pensavano di aver meritato morendo, a centinaia di migliaia, nelle trincee.
Tanti italiani, dal canto loro, sempre impegnati nel pensare ai propri affari e indifferenti alla cosa pubblica ( Franza o Spagna, purché se magna, si sarebbe detto nei secoli addietro ), guardano scorrere i fascisti in camicia nera lungo le proprie strade, senza organizzare una difesa di massa; guardano molestare e insudiciare le proprie donne, senza reagire e li applaudono talora, nelle città attraversate, quando mettono a fuoco le Camere del Lavoro, perché, come spiega Rocchetti ( Gassman ), a Gavazza ( Tognazzi ):
“La dottrina non l’afferri: se loro c’hanno la libertà di stampa, noi c’abbiamo la libertà di bruciare”.
Questa Libertà che, per tanti italiani, non significa quasi mai dovere, o limite, o responsabilità collettiva ma, troppo spesso, licenza, individuale e di consorteria, soprattutto quando è esercitata dal prepotente e dal potente, in nome della propria forza che non riconosce degli altri, neppure l’esistenza.
Il reduce Rocchetti, e il reduce Gavazza, che non riesce ad essere contadino, umiliato anche dal cognato socialista che lo mantiene malvolentieri in casa mentre continua ad essere disoccupato e un po’ pigro, addensano in sé la somma di contraddizioni tipiche di noi umani – che non siamo affatto perfetti, e che cerchiamo spesso le scorciatoie più convenienti per non dover faticare ed ottenere, dal nulla e senza sforzo, quello che consideriamo essere nostro diritto – e sono anch’essi una rappresentazione senza tempo, esistenziale appunto, dell’opportunismo colorato di viltà, e sempre pronto ad inventare nuove narrazioni per autogiustificarsi ed assolversi, per incolpare altri, della propria condizione.
Solo davanti ad un brutale assassinio, e la storia del fascismo italiano è una storia grondante di brutali assassinii, le due anime incerte hanno un soprassalto di dignità, che le allontana dall’epilogo fintamente trionfante di una marcia che era solo la sanzione finale di un patto segreto e scellerato, che verrà replicato con l’ascesa al potere di Hitler, tra una destra estrema e violenta, bisognosa solo di autoaffermazione, ed una borghesia, piccola e grande, che non tollerava l’idea di una possibile eguaglianza, formale e sostanziale, che il popolo richiedeva, mentre invece doveva restare sottomesso e silenzioso.
Rocchetti e Gavazza, semplicemente, non possono comprendere le parole del giudice, cui fanno bere l’olio di ricino :
“ quando il fanatismo prende il posto della ragione, la strada è piena di inganni, e l’inganno peggiore è quello di chi crede di amare la sua patria, solo se nella sua patria tutti la pensano allo stesso suo modo: è così, che finisce per amare una patria di schiavi, e non si accorge di essere uno schiavo egli stesso “.
Ed è questa anche la grave condanna del liberalismo italiano ieri, e di un progressismo annacquato e distante oggi: segnati entrambe dall’incapacità di spiegare, ma anche di formare, una coscienza civica comune e diffusa; un patrimonio di valori laici, razionali e fondativi del vivere insieme tra idee diverse, e diversi modi si essere; una pratica politica non elitaria, ammantata di paroloni incomprensibili, ma partecipata, e sempre discutibile e contendibile.
Durante la marcia su Roma, ci racconta il film, qualcuno già vendeva medaglie e cartoline ricordo della marcia su Roma, e, infatti, durante il ventennio fascista, era una sorta di piccola onorificenza essere stato un “marcia su Roma”.
Rilasciata ad un numero spropositato di italiani.