Portami al mare.
Appena luce, stamattina, portami al mare. Non serve mettere in auto la sedia a rotelle o le coperte. Tu aiutami a vestirmi, a mettere le calze e ad allacciare le scarpe, che sai che non mi piego più bene, tanto. Il resto lo faccio da solo. E poi dammi il bastone e tienimi sotto braccio.
Parcheggi lungomare e mi aiuti a scendere. Ci sono solo pochi metri di sabbia, fino al mare.
Il mare è il solo posto dove posso mettere da parte, per un po’ la paura. Così la affronto, la paura. La scosto. Non te le racconto a te, le mie paure. Ti dico solo che voglio respirare.
Ormai peso pochissimo, e fatica non ne fai, nemmeno se ti casco addosso a peso morto. Ma, cascare, non casco. Ho imparato a camminare, sulla sabbia, io, novantacinque anni fa. E ci posso camminare ancora. Lo sento, sotto i piedi, il peso che si sfrange, e basta andare piano e non alzarle tanto le gambe, per tenere equilibrio. Io poi, non è che ho tutta questa forza di saltare, con le gambe. Non li striscio, però i piedi. Non mi piace, quando la punta delle scarpe si macchia di sabbia che ci resta attaccata. Mi sembra d’essere in disordine, che gli altri mi guardano, e non mi piace. Li alzo, i piedi, il giusto e, cammino.
Posso ancora camminare.
Se so che ho ancora un po’ di forza per fare qualcosa da solo, non mi sento già andato via e inutile. E non sono un peso, spero. Non ho mai voluto esserlo. Ma forse mi illudo solo, di non esserlo, e di non esserlo stato. Forse mi giustifico, perché mi son sempre detto che era meglio andar via, se non fossi stato più io. Che era meglio prendere una pillola e andare via, se non mi fossi più riconosciuto; un attimo prima, di smettere di riconoscermi, al mattino, nello specchio, per farmi la barba.
Ma sono, ancora io. La mia testa mi permette d’essere ancora io. E va veloce la mia testa, di più assai delle gambe e delle mani.
Torna indietro a ricordare e scatta avanti, fin verso dove, non lo so.
Ho un po’ di freddo, dietro il collo. Alzami la camicia.
Qui, davanti al mare, anche quando l’acqua mormora soltanto, un filo di vento lo senti sempre. Riesce a scivolare oltre gli alberi, e le case, e le dune, e viene di tramontana, stamattina. Da Porto Selvaggio, e dietro Nardò, e da sopra Brindisi, e dalla Jugoslavia, forse. Non si chiama più così.
Si chiamava così dopo la guerra.
Avevo quindici anni, e poi sedici, quando bombardavano e ci nascondevamo in campagna. C’era un pagliaro tutto rotto, verso Alezio. Chi poteva bombardare Alezio, che non c’era niente ? E noi, tenendo mamma per mano, e con una coperta sulla testa – a che ci serviva la coperta sulla testa, contro gli spezzoni di mitraglia ? – ci nascondevamo lì, ogni sera illuminata dai traccianti.
Sulle pietre del pagliaro c’era una scritta di vernice nera. Molti nemici, molto onore.
Scappavano tutti. L’onore era rimasto in piazza quando c’erano solo loro, tutti vestiti a festa. E coi manganelli minacciavano l’aria. Appena sono arrivati gli inglesi, hanno buttato via tutti i vestiti neri, e i cappelli, gli stivali no… a mare li hanno buttati, quand’era buio, dietro al molo foraneo. E poi la corrente glieli ha riportati a riva. Me li ricordo io, che non li raccoglieva nessuno, e manco li guardavano, e stavano lì a fare le alghe. I gabbiani pure si tenevano lontani.
Sembravano pupazzi morti senza braccia, e piedi, scomparsi. Non c’erano mai stati e invece stavano tutti lì, nascosti come le serpi ad aspettare il caldo. Perchè tanto, il caldo per loro, per quelli che stanno nascosti, arriva sempre.
E io avevo paura, di loro.
Che potevano rialzarsi dalla rena e inseguirmi, e riportarmi in adunata, e menarmi, col calcio del fucile, nei fianchi, se non marciavo bene e cantavo. Avevo i pantaloni corti e le gambe nude, e strette, come adesso. Solo che allora i muscoli ce li avevo. E i lividi, per le botte, come adesso, senza botte, che le vene non mi tengono più il sangue.
Solo davanti al mare potevo guardare la paura e nuotarci dentro.
Avevo una maschera, tonda, e ci entrava un filo d’acqua, ferma salata appena sotto il naso, e un boccaglio di gomma. E ci restavo ore, davanti a questi scogli bassi, a testa in giù, a cercare conchiglie colorate , e a stare attento a non pestare i ricci neri, e a guardare sarpe in branco e trigliette bianche. L’acqua m’entrava dentro le orecchie e tutto smetteva di avere suono. Solo il ticchettio delle spine dei ricci che si muovevano. Era come dormire e guardarmi il letto dall’alto del soffitto bianco. Le mani del mare mi tenevano a galla, senza muovermi nemmeno. E ogni tanto mi ricordavo della paura, se vedevo sfuggire dentro una tana il cerro di un polpo che poteva fermarmi, e tenermi affogato sotto allo scoglio, o se immaginavo il cielo annerirsi sopra di me e i fulmini, appena dopo la pioggia calda che vedevo punteggiare le onde scurite.
Aiutami a sedermi, posso sporcarmi un po’ di sabbia oggi. Non è bagnata. Si scrolla via subito. C’erano i bunker di avvistamento, qui intorno, di malta pietrosa, come elmetti piatti e con una feritoia davanti. Ci andavamo a pisciare dentro. Tanto, non c’era niente da guardare. Non c’erano le navi dei Turchi, e il nemico arrivava con gli aerei.
E tempo dopo, quando la gente veniva qui, la domenica, con gli ombrelloni e gli stanati di parmigiana, sono scomparsi dagli occhi, anche se c’erano sempre. Ci buttavano dentro le bottigliette di spuma e gassosa, e ci andavano anche a cacare, dentro. Qualcuno a fare l’amore.
E io avevo paura delle donne.
Così belle, con le gambe nude e le braccia lisce. Non le potevo guardare, che arrivavano i fratelli a minacciarmi. Dovevo solo far finta di niente. E se mi guardavano loro, io lo sapevo, di essere brutto e insignificante. Pure dopo, con tutta la scuola e il militare fatto.
Solo davanti a questo mare, potevo piangere, di nascosto, sotto agli scogli che nascondono da strada, quando sono arrivate le auto, fino a quaggiù, che era tutta pineta e ginepri e cannizzi. E le lacrime sembravano salsedine.
Avevo paura del cielo, che è più profondo, del mare, e se lo guardi, steso, a pancia in su, gli occhi si perdono, a cercare un punto fermo dentro tutto quel celeste dorato dal sole, tanto che, quando arrivavano le nuvole, e diventavano un cane, o un cavallo, mi ci aggrappavo, per non scivolare fino al fondo del cielo altissimo, che quasi diventa nero di universo, e poi non c’è più niente e manco io, nemmeno ci sono, staccato da terra e volato in alto, senza mai ritrovare, una terra, mai più.
Cercavo sempre il punto in cui, lontano da me, cielo e mare si univano, appena più in basso di una sottilissima striscia nera di orizzonte curvo, che, sapevo, di non poter oltrepassare.
E’ sempre stato come se, sapessi che ci sono cose che non avrei mai potuto avere o portare sin lì e lasciare. Come la paura mia. Di mamma che piangeva e papà disperso in Africa.
Adesso, fai una cosa, vattene.
Lasciami qui. Non preoccuparti per me.
Io mi stendo un po’, su questa sabbia. Di fianco e con le mani insieme sotto la faccia e gli occhi li chiudo. Faccio finta di nuotare.
E scendo giù, trattenendo il respiro.
Tu, vieni a cercarmi, solo quando s’è fatto notte.