“Erin Brockovich, forte come la verità”, è un film del 2000, protagonista Julia Roberts.
L’attrice interpreta una segretaria di uno studio legale che si appassiona ad una vicenda emotivamente molto dura e, seguendo un suo senso di giustizia, aiuta le vittime di un inquinamento ambientale, provocato da una grande impresa, a costruire una causa legale di risarcimento del danno, per le morti e le sofferenze che il comportamento criminoso dell’azienda ha provocato.
Lo spettatore che segue il film, “tifa”, per la protagonista, vincitrice anche di un premio Oscar, per la sua interpretazione, perché condivide il suo impegno morale e si sente appagato quando, contro tutti i pronostici, i deboli, e le vittime, vincono, e strappano un risarcimento milionario a chi, scientemente, e con indifferenza, ha provocato loro terribili sofferenze e morte.
Le cause di risarcimento del danno, hanno aspetti molto prosaici.
Non si tratta di stabilire la colpevolezza di qualcuno sanzionandola con una pena che restauri l’equilibrio sociale rotto da comportamenti configurabili come reato; ma si tratta di risarcire in denaro, ex post, chi abbia sofferto, per un comportamento criminoso, o colposo, o negligente. La parte attrice, chi richiede cioè l’intervento della giustizia civile, quantifica in denaro il danno che dichiara di aver sofferto: anche il danno morale subito, per la perdita di una persona cara, ad esempio.
Sin dal codice di Hammurabi ( XVIII secolo avanti Cristo ), la vita umana ha un prezzo; talvolta il prezzo di un’altra vita umana, secondo quella “legge del taglione”; altre volte un prezzo in denaro, se si tratti di uno schiavo, ad esempio, il cui danneggiamento, o morte, prevedeva il pagamento di una ammenda.
Per questo, leggere una sentenza di un Tribunale Civile, riguardante il risarcimento del danno sofferto per la perdita di una vita umana, è straniante.
Perchè tutti noi pensiamo che la vita umana non abbia prezzo.
Mentre invece ha un prezzo.
Dipende da quanto si sia giovani o anziani; dipende dal lavoro che si svolgeva, e dal reddito che si percepiva e che si sarebbe potuto percepire se si fosse rimasti in vita. Dipende se si sia uomini o donne.
Qualcuno è chiamato a fare dei calcoli, a cercare dei termini di paragone; a stabilire delle cifre.
Chi abbia perso una persona cara, viene chiamato a dare un numero da associare al proprio dolore. Probabilmente, questo, causa nuovo, e più acuto dolore.
In dibattimento, le parti chiamate a rispondere si difendono; o chiedono di pagare meno, o chiedono sia riconosciuta la responsabilità anche di altri, per poter pagare di meno loro, in caso di sentenza sfavorevole, o magari scaricano la responsabilità su soggetti neppure presenti nella causa in corso.
Si assiste ad un mercato, sulla vita umana. Ed è però questa, la logica di una causa di questo tipo.
Il lavoro svolto dal giudice che è intervenuto per emanare una sentenza, in merito alla richiesta di risarcimento formulata dai parenti delle vittime del crollo di un edificio in via Campo di Fossa, ad Aquila, a seguito del sisma del 6 aprile 2009, è stato un lavoro molto complesso, che ha richiesto studio, e attenzione, rispetto ai precedenti in materia, in ogni grado di giudizio; rispetto alla giurisprudenza consolidata; rispetto alle parallele cause che si sono susseguite in sede penale e civile; rispetto alle ponderose perizie cui si è fatto riferimento per delineare responsabilità precise, in quel crollo; rispetto alle numerose e complicate evoluzioni legislative che le norme, importanti per decidere sul tema, hanno avuto dal 1964 ad oggi; ed infine, rispetto alle delicatissime scelte di merito, che il giudice ha effettuato, ritenendo con esse, di soddisfare il pieno diritto di tutti i convenuti in Tribunale, oltre che di servire la Legge, come sarebbe giusto che sia.
Qui, non c’era una Erin Brockovich immediatamente identificabile come il simbolo di una lotta che, per una volta, consente ai deboli, di vincere sui forti, riequilibrando la bilancia dei torti e delle ragioni, e facendo coincidere, per una volta, la Legge con la Giustizia
Nelle vicende giudiziarie che si sono susseguite ad Aquila, dopo il sisma del 2009, vi è stato chi avrebbe voluto ottenere la sanzione di un atteggiamento colpevole, dello Stato, di fronte ad una comunità intera che chiedeva una protezione che non ha avuto, e che anzi, nel momento più delicato di una crisi legata ad una lunga e crescente sequenza sismica, è stata ingannata.
Ma, forse, non era in un Tribunale, che avrebbe dovuto essere cercata questa sanzione, perché in una sentenza non si da un giudizio “politico”, di una vicenda, bensì si ricerca la responsabilità, individuale, o collettiva, in merito ad una serie di accadimenti posti all’attenzione dei giudici.
Se Aquila ha avuto un problema, è stato esattamente questo: cercare cioè in Tribunale, l’elaborazione di un giudizio “storico” e politico che la politica stessa, locale e nazionale, non è stata in grado di formulare, tanto meno con responsabilità unitaria, né di far sedimentare nella coscienza dei cittadini.
Bertolaso, figura emblematica degli eventi del 2009, è stato l’uomo che ha costruito l’inganno mediatico della Commissione Grandi Rischi, e, contemporaneamente, l’uomo che ha realizzato il Progetto C.A.S.E., con il quale ha dato un tetto a molti aquilani terremotati, agendo nell’ambito di un potere monocratico ed indiscutibile durato per oltre un anno e mezzo, dopo il sisma.
Come è stato giudicato l’operato di questa figura che qualcuno vorrebbe anche vedere far parte del prossimo Governo della Repubblica ?
E’ evidente, che nella coscienza degli aquilani esiste una frattura, che non si può chiedere ad un Tribunale di ricomporre; né ad un Tribunale si può chiedere di discernere, fino in fondo se in quei comportamenti umani, che in quel momento storico incarnavano funzioni statuali, vi sia torto, o ragione; poiché un Tribunale potrebbe eventualmente essere chiamato solo a valutare se quei comportamenti umani, rivestiti di responsabilità statuale in quel momento, siano stati, o meno, rispettosi del dettato legislativo, che comunque è insufficiente a definire un giudizio morale.
Spetterebbe al dibattito pubblico, uscire allo scoperto e ricostruire una storia comune di quei momenti, indicando con chiarezza le terribili responsabilità che ci sono state.
Il Tribunale Civile che ha giudicato del crollo di un palazzo in via Fossa, ha discusso di altro: certo, per rinvenire una responsabilità, è intervenuto anche sulle motivazioni del comportamento delle vittime, ma lo ha fatto dentro una discussione che verteva sulla ammissibilità o meno di un risarcimento del danno, e non sulla correttezza, o meno delle informazioni che, in quel momento storico erano a disposizione dei cittadini aquilani, ed in questo caso, delle vittime di quel crollo.
Chi ha costruito un inganno mediatico, convocando ad Aquila una finta Commissione Grandi Rischi, col solo fine di placare un ordine pubblico agitato e preoccupato, e le cui conclusioni non avevano valore legale, e forse neppure scientifico, come abbiamo scoperto dopo tre gradi di giudizio, si è assunto una rilevante responsabilità politica, sulla cui coscienza dovrebbero pesare molti dei lutti che hanno squassato la città la notte tra il 5 e il 6 aprile del 2009.
Ma forse non poteva essere perseguito da un Tribunale.
Di certo, avrebbe meritato una riflessione politica collettiva della città, che è stata invece oggetto, per mesi, dopo il terribile colpo del sisma, di una campagna mediatica forsennata, tesa a santificare un certo tipo di intervento pubblico sul territorio, effettuato senza che mai, i cittadini ed il territorio destinatario di quegli interventi, ne abbiano potuto davvero discutere la natura e le finalità, e le conseguenze che, ancora solo in parte, oggi vediamo dispiegarsi; pur se quell’intervento pubblico, tra contraddizioni e semplificazioni e spreco di denaro pubblico, ha consentito comunque alla nostra comunità di iniziare, faticosamente, a risollevarsi e a trovare requie e riparo.
In Tribunale, vi erano delle persone che chiedevano un risarcimento del danno, e dei soggetti, fisici e giuridici, coinvolti in quella richiesta.
Interessiamoci per un momento dei soggetti giuridici chiamati a rispondere delle loro responsabilità, per quel crollo: Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, il Ministero dell’Interno, il Comune di Aquila, e, indirettamente, due compagnie di Assicurazione.
Come si difendono ?
Tutti i convenuti, compreso il Comune di Aquila, chiedono che la richiesta del danno sia respinta per avvenuta prescrizione.
Se comportamento sbagliato vi sia stato, esso è talmente lontano nel tempo ( il palazzo viene edificato negli anni ‘60 ), da essere considerato estinto sul piano delle responsabilità.
E tutti i convenuti, compreso il Comune di Aquila, in ogni caso si oppongono alle richieste dei ricorrenti, sia nel merito, che in ordine alle cifre richieste.
Nel merito, i Ministeri delle Infrastrutture e dell’Interno, sostengono che loro non c’entrano: le competenze di sorveglianza, sono passate alle Regioni, da molto prima che il sisma avvenisse, e in ogni caso, la vera colpa del crollo, è dei progettisti, della direzione dei lavori, della ditta costruttrice, dell’incaricato della prefettura che avrebbe dovuto vigilare, del Comune di Aquila, che non avrebbe dovuto concedere l’abitabilità.
E i Ministeri, chiedono, in ogni caso, il concorso di colpa delle vittime, come loro soggettiva responsabilità.
Il Comune di Aquila dichiara di non avere responsabilità, e non contesta di aver rilasciato un certificato di abitabilità per un immobile la cui realizzazione era stata difforme da quanto invece previsto nei progetti iniziali: nel 1964 infatti, la concessione dell’abitabilità atteneva a sole questioni urbanistiche ed igienico sanitarie, non certo a questioni antisismiche, sostiene il Comune; piuttosto, afferma il Comune di Aquila, il crollo dell’edificio è colpa dei calcoli errati del tecnico progettista.
In ogni caso, secondo il Comune, a pagare dovrebbe essere l’Assicurazione che il Comune aveva all’epoca stipulato.
E l’Assicurazione, chiamata in causa, intanto, dichiara la prescrizione delle pretese dell’Assicurato, cioè del Comune, il quale comunque, non era assicurato per danni da terremoto ( ad Aquila, infatti, nessuna struttura pubblica era assicurata per danni da terremoto, tranne la ASL – il che dimostra che si può amministrare anche con prudenza e diligenza – il cui manager dell’epoca autore di quella scelta, non a caso venne immediatamente rimosso dalla giunta regionale di destra che si appropriò del premio assicurativo, oltre 40 milioni di euro, per abbattere il deficit sanitario regionale, lasciando la ASL aquilana ancora oggi parzialmente da ricostruire e caricandole addosso fitti milionari, da tredici anni a questa parte, per la riallocazione di sue funzioni operative, amministrative e direzionali ). Contesta al Comune, comunque, l’esistenza di un massimale, e di una franchigia, in quel contratto che, sostiene, è stato stipulato ben dopo che l’abitabilità era stata già concessa. L’Assicurazione, comunque contesta sia il merito, sia la cifra richiesta di risarcimento.
Senza voler entrare nei dettagli di tutto il dispositivo della Sentenza, ne guardiamo ora il cuore.
Il Giudice ritiene fondata l’eccezione del concorso di colpa delle vittime, costituendo “obiettivamente”, scrive, condotta incauta trattenersi a dormire dopo le due forti scosse che precedettero quella devastante delle 3,32. Le vittime, recita la sentenza, si privarono così della possibilità di allontanarsi immediatamente, al momento della scossa decisiva. D’altra parte, era legittimo che le vittime pensassero d’essere al sicuro entro un palazzo fabbricato in cemento armato, e, pertanto, il concorso di colpa delle vittime, è fissato in un 30%.
Tale decisione si conforma ad una serie di altre decisioni simili, in particolare quando vi sia una causa in cui sono coinvolte le Assicurazioni. Alle vittime è quasi sempre assegnato un concorso di colpa. E’ una scelta di carattere economico, che abbassa la somma che i citati in giudizio devono pagare a titolo di risarcimento del danno. Ma, se vogliamo, anche di carattere “filosofico”. In linea teorica, sarebbe quasi sempre possibile tenere comportamenti diversi da quelli che si siano effettivamente avuti.
La sentenza ritiene in questo modo di stabilire un equilibrio, tra le richieste di chi ha promosso il giudizio, e la difesa di chi si è opposto, e ritiene evidente di rispettare pienamente il dettato legislativo.
Ma è una sentenza “giusta” ?
Si può chiedere ad un aquilano, che da dicembre del 2008, ha cominciato a sentire scosse di terremoto, giornaliere, quasi, talvolta persino più volte al giorno, e via via sempre più forti, di abbandonare il luogo dove si trovasse per portarsi in una situazione in cui una scossa potenzialmente letale non fosse in grado di danneggiarlo ? Per quattro mesi di seguito. In ogni posto di lavoro, in ogni scuola, in ogni negozio, in ospedale; di giorno, o di notte.
Si può chiedere una cosa così ?
Si può seriamente affermare che durante una scossa come quella delle 3,32 del 6 aprile 2009, fosse possibile uscire di casa, scendere le scale di un palazzo alto vari piani e correre fuori tanto lontano da evitare che un eventuale crollo colpisca e faccia del male ad una persona ?
Si può presumere che un aquilano, la notte del 6 aprile, dopo due scosse molto forti, avesse tali nozioni di geologia e sismologia da poter prevedere che ne sarebbe giunta una terza, terribile, quando nessuno scienziato degno di questo nome si azzarderebbe a formulare una qualsiasi ipotesi previsionale, ma si limiterebbe a dichiarare che esiste una possibilità, e non una certezza ?
E se questo aquilano avesse avuto tali iperboliche capacità previsionali, allora sì, sarebbe da considerare incauta la sua condotta.
Il giudice, nella sentenza, ignora formalmente il dibattito intorno alla responsabilità, o meno, della Commissione Grandi Rischi ad aver “rassicurato” gli aquilani. Ammesso che tutti gli inquilini dello stabile avessero visto in televisione le interviste di chi invitava a berci su un bicchiere di Montepulciano.
Stabilisce invece una “obiettiva” assenza di cautela. E ne quantifica economicamente il peso.
E il punto, è proprio questo.
La ripugnanza che proviamo nel dare un valore economico ad una scelta che è costata la vita alle persone.
Ma siamo dentro un processo civile che ha proprio questo, come suo oggetto: la verifica di legittimità ad ottenere un risarcimento economico per il danno subito da condotte omissive, o negligenti, o peggio criminose, e la quantificazione economica di questo risarcimento.
E non ci si capacita di come, una volta che il giudice accolga la tesi secondo cui vi sono effettivamente state condotte sanzionabili, in particolare da parte dei Ministeri coinvolti, e da parte della Ditta che ha edificato l’immobile, e non da parte di altri, come ad esempio la Commissione Grandi Rischi che non compare mai, né nella causa e neanche nel dispositivo della sentenza, non siano queste condotte, da sole, a giustificare tutto quanto accaduto, e si debba ad esse aggiungere la volontà “obiettivamente” priva di cautela delle vittime.
Questa sentenza, a voler essere generosi, presenta quanto meno rilevanti elementi di ingiustizia, e di insostenibilità.
Ma, possiamo nel processo apprezzare anche il comportamento degli Enti Pubblici: Ministeri, e Comune di Aquila.
Nessuno di loro assume una responsabilità del proprio comportamento: tutti cercano di scaricare la eventuale colpa su altri soggetti.
Nessuno riconosce il proprio debito nei confronti delle vittime: tutti chiedono, per quanto possibile di pagare meno, e, in parte, vengono accontentati.
Se lo Stato è stato negligente nel dare indicazioni corrette agli aquilani, nel pieno di una crisi sismica poi sfociata in conseguenze distruttive, lo è anche nel suo tentativo, articolato secondo i gradi di competenza territoriale, di sfuggire, semplicemente, alle proprie responsabilità senza nessuna assumerne, e questo vale anche per il Comune di Aquila, non condannato semplicemente perché i riscontri di legittimità e di conformità che all’epoca gli spettava di compiere, erano poco più che formali, per quanto comunque sbagliati – circostanza quest’ultima che il Comune non si preoccupa nemmeno di contestare, ma di cui accolla responsabilità ad altri -.
E diviene lo Stato, con una sua sentenza, rispettoso dei principi di compatibilità economica, meno, “obiettivamente”, di quanto non lo sia di un elementare criterio di giustizia.
Le persone morte a seguito del sisma, non hanno traversato un incrocio, nel quale avevano la precedenza, procedendo ad una velocità 5 km/h più elevata del limite prescritto, andando così a sbattere contro chi, invece di dar loro la precedenza prevista dalla segnaletica, era entrato prepotentemente nell’incrocio senza rispettare le regole del Codice della Strada.
Resta aperto il punto del giudizio storico e politico sulla vicenda del sisma aquilano, e della sua gestione successiva, e di come una narrazione comune possa sedimentarsi nelle coscienze dei cittadini e delle cittadine di Aquila.
Forse, la Manifestazione del prossimo 23 ottobre ad Aquila, presso la Villa Comunale, potrà contribuire a costruire una coscienza collettiva su questo tema.
Capace di articolare le riflessioni e di spogliare, finalmente, la tragedia che abbiamo vissuto, dalla oscena propaganda, e dai continui tentativi di strumentalizzazione che l’hanno caratterizzata.