Il 12 ottobre 1981 veniva pubblicato il secondo 33 giri degli U2 “ October”.
Quarantuno anni fa, i dischi erano solo in vinile, e, spesso, comparivano con grande ritardo, sul mercato italiano, rispetto a quello inglese, o americano.
Era solo attraverso l’ascolto delle radio private, a partire da quelle locali, che si poteva apprendere di una nuova uscita, o di un gruppo magari sconosciuto alle classifiche della “hit parade” italiana.
Un tempo, chi stava dietro un microfono, alla radio, era libero di far ascoltare la musica che più gli piaceva. Al massimo, si concordava con la proprietà dell’emittente – che solo di rado pagava qualcosa che somigliasse molto vagamente ad uno stipendio, comunque senza contribuzione – che in una certa fascia oraria, si dovesse trasmettere musica “commerciale”, perché in tanti accendevano, ed accendono la radio, proprio per trovare la canzone più popolare in un certo periodo: quella sentita ad una festa, o presentata in qualche programma televisivo.
E c’erano delle persone proprio entusiaste, di trasmettere quel tipo di musica. Perchè più la musica era seguita, e più erano seguiti loro.
Altri invece, proponevano il proprio gusto personale o la curiosità di scoprire qualcosa d’inusuale che, magari, in altre parti del mondo invece era già piena cultura giovanile che riempiva teatri o palazzetti dello sport, quando non stadi addirittura, ad ogni concerto dal vivo.
Oggi, le case discografiche concordano con le proprietà delle radio, soprattutto quelle a diffusione nazionale, ma non solo, le cosiddette “playlist”: selezioni musicali preordinate che sono messaggio promozionale, più che ascolto libero e sperimentazione. Noiose, in generale, persino quando trasmettano bella musica. Ed è davvero difficile trovare, di questi tempi, trasmissioni radiofoniche che vogliano correre il rischio di presentare musica nuova, diversa, “strana”, e costruire storie, su questa: qualcosa di diverso, dal puro intrattenimento – pure importante – che è divenuta la radio.
Il mercato discografico è totalmente cambiato, dal 1981 ad oggi; sono cambiati i supporti sui quali si ascolta, o si compra musica.
I dischi si sono smaterializzati in bit, su Youtube o Spotify, o Soundcloud etc.
Quello che non è cambiato è il costo, spesso proibitivo, per potersi portare a casa un oggetto fisico da ascoltare a piacimento, da soli, o in compagnia.
Un giovane, ieri, per poter ascoltare qualcosa, era obbligato ad acquistare, e, per ciò stesso, doveva selezionare rigorosamente, cosa acquistare in base alle proprie possibilità economiche, e rinunciare invece a tanto altro.
L’unica scorciatoia possibile erano le musicassette; ma, in questo caso, si doveva conoscere qualcuno che comunque possedesse quel disco che si voleva riprodurre, e la riproduzione, il più delle volte era scadente in termini qualitativi.
Oggi, si dispone, potenzialmente, di tutto. Una qualsiasi uscita discografica ( anche se ormai è improprio parlare in questi termini ), può essere ascoltata in qualsiasi parte del mondo, un numero infinito di volte, più o meno esattamente nello stesso momento in cui venga pubblicata, cioè, in realtà, “messa in rete”.
Il mercato discografico, quello dei “dischi”, si è trasformato in una delle varie nicchie possibili del “mercato del lusso”, e forse anche per questo, la musica che si ascolta oggi, in larga misura, non è più un fattore identitario, individuale e/o di gruppo, come invece accadeva un tempo, ma solo un altro oggetto di consumo.
Un tempo, il nuovo disco del gruppo preferito, o di un cantante che, più o meno, si sapeva far parte di una certa specifica corrente musicale, era un vero evento, atteso, e celebrato con ripetuti ascolti e discussioni, nel gruppo degli amici. Esisteva addirittura un cosiddetto mercato “d’importazione”, dal quale provenivano dischi non stampati in Italia dalle case discografiche, ma direttamente dalla Gran Bretagna, ad esempio. I costi erano ancora più alti, ma, spesso, si trattava di musica davvero nuova e di altissima qualità, introvabile in altro modo, in una Italia in cui i canali distributivi erano misteriosi, e certi dischi si trovavano solo a Bologna, o a Roma, o a Milano o a Firenze.
Ed in queste città, c’erano negozi di dischi che richiamavano acquirenti da tutt’Italia. Veri luoghi di ritrovo per appassionati che lì si davano appuntamento, e dove, dietro la cassa, non c’era un commesso, ma ragazzi o ragazze competenti, che ascoltavano musica proprio come le persone che erano lì per comprare dischi, e con le quali si poteva parlare, scambiare opinioni, ascoltare consigli su nuove e sconosciute formazioni musicali e curiosità, o leggende.
L’uscita della seconda fatica discografica del gruppo irlandese avveniva dopo un debutto ( “Boy”, pubblicato, sempre in ottobre, nel 1980 ), positivo, e si presentava quindi come un’occasione per confermare quanto di buono già fatto ascoltare, ma anche per andare oltre quanto già proposto al pubblico.
Lo spessore della musica si sente tutto, e però il suono complessivo dell’album sembra trattenuto, senza riuscire, se non in alcune occasioni, a muovere le viscere in una danza necessaria. I componenti del gruppo, all’epoca avevano tra i 20 e i 21 anni, e sembravano quasi timorosi di lasciarsi andare completamente, come se trattenersi, fosse una garanzia per evitare errori.
L’atmosfera generale del disco sembra ripiegata su se stessa, come se s‘avvicinasse costantemente ad una porta senza riuscire ad aprirla e ad entrarvi, e sconta una sorta di scissione interiore tra la musica, talvolta epica e capace di trascinare ( “Gloria” su tutte ), e i testi nei quali traspariva l’ansia di dimostrare la propria Fede, quasi per farsi perdonare il loro status di musicisti lanciati verso un successo planetario.
“ Voglio alzarmi presto, ma quando mi alzo cado”, canta Bono in “I fall down”, come se volesse segnalare, di già, una propria fragilità che chiedeva al Cielo d’essere sostenuta, quasi non credessero tutti, fino in fondo, alle proprie possibilità.
Eppure in “ I threw a brick through a window “, la batteria di Larry Mullen sembra già quella imperiosa di “ Like a song” dell’album successivo, mentre la chitarra di The Edge, e tutta la costruzione della canzone, che sembra un gospel di domande e risposte, anticipa certe atmosfere elettriche di “The Joshua Three”.
E torna, in “Fire”, il tema della caduta, o forse della paura d’essere Icaro, destinato a cadere per aver peccato di superbia…però quel fuoco che si ha dentro resta, anche se si cade, e quando si cade. Il suono è pieno, punteggiato di schitarrate celesti che scendono sott’acqua e risalgono a respirare.
“Tomorrow” contribuisce a dare a tutto il disco un’atmosfera autunnale. Bono con voce altissima racconta l’estrema illusione di un bambino cui sia morta la madre: non aprire la porta alla macchina nera che deve trasportare il feretro, permetterà che ci sia un domani, ancora, insieme, e il ritmo cresce, e diventa un grido di ribellione alla perdita. Voglio che torni domani…
E poi “ October”, col pianoforte ad accompagnare le foglie che, cadono e spogliano gli alberi: qui gli U2 stanno cercando la loro dimensione di ballata, di riflessione intima e lenta che produrrà capolavori, in futuro.
Con “With a shout – Jerusalem” torna la dicotomia tra la musica, che stavolta però fa più fatica ad alzarsi e il testo intriso del sangue della Croce, esattamente come per il brano d’apertura “Gloria”; se non altro, in questo pezzo, inizia a cogliersi il peso essenziale di Adam Clayton al basso, che è l’unico a dare una vera impronta al brano.
“Stranger in a strange land” sperimenta la capacità del gruppo a costruire testi su questioni universali, partendo da piccoli frammenti d’esperienza quotidiana, come può essere cogliere una specie di sorriso in un Vopo di pattuglia sul Muro di Berlino mentre guarda dall’altra parte e vede un gruppo di ragazzi, come lui, che però guardano per conoscere, e non per sorvegliare.
La chiusura del disco è affidata ad una marcia militare, attenuata dalle tastiere in contrappunto quasi, che impone di ritrovare gioia. Un nuovo imperativo del consumo. Gioisci. E guai a te, se non lo fai; e ad una domanda che potrebbe persino apparire come una premessa a chiudere, già lì, l’esperienza U2: “Is that all ?”
I ragazzi si chiedono se quello che stanno vivendo sia tutto lì; se sia tutto lì, quello che il mondo vuole da loro. Un brano che però non riesce ad aprirsi e pare girare solo su se stesso, come una domanda che ti devi fare, ma, in realtà, non sai se sia davvero la domanda che vuoi farti, perché ti pare che quello che è importante, sia altrove.
Per nostra fortuna, dopo il loro autunno precoce, gli U2 sono stati capaci di reinventare mille primavere. Ma questo vuol dire che può accadere, che gli sforzi di chi si sente un fuoco dentro non riescano ad arrivare dove li si aspetta, o dove si pensa dovrebbero arrivare. E allora bisogna aver pazienza e crederci. E riprovare ed andare oltre i propri limiti.
Ecco perché era importante ricordare questo album e riascoltarlo. Perchè, nonostante fosse un ottobre che ancora non mostrava lo splendore delle foglie che mutano colore ed intensità, ha lasciato addosso la voglia di ascoltare ancora, che, francamente, non s’è placata.