Asim teneva suo padre per mano.
Un muratore alto e robusto, già in abito da lavoro, e, ai piedi, le scarpe antinfortunistiche macchiate di calce bianca; le mascelle chiuse, la barba non fatta.
Per Asim, quello, era un bel momento della giornata. Percorreva via Ettore Moschino ad Aquila, e parlava col suo nuovo papà, mentre passavano sotto al supermercato, al fianco di un’area chiusa, recintata e abbandonata alle erbe alte, che un cartello, prima d’essere strappato via, indicava come area di raccolta della popolazione in caso di sisma – se si fosse riusciti a scavalcarne la doppia recinzione arrugginita -.
Gli piaceva, sentire il suono della lingua dei suoi pensieri: il macedone segreto che parlava solo dentro casa, spingeva lontano i suoni confusi e veloci della lingua italiana, finalmente sul fondo della strada, come un rumore di macchine che andavano via.
Asim sapeva che suo padre Ibrahimi, era in realtà suo zio, che, dopo la morte – gli pareva di ricordare – in un incidente stradale del suo papà vero, di cui era il fratello, lo aveva preso da Kumanovo e portato ad Aquila, anzi, prima a Lucoli, un paesino vicino la città, dentro una casetta di legno, e poi, da poco, proprio in Aquila città, dove abitavano dentro un palazzo basso di via Ignazio Silone.
Anche a Kumanovo, c’erano le montagne, dopo la città, e i tetti spioventi delle case pronti alla neve, e Asim guardava spesso, verso il Gran Sasso, per cercare il cielo di casa.
Il papà raccomandava ad Asim di provare sempre a parlare italiano, perché ormai era qui, che avrebbe dovuto vivere e con italiani, avrebbe dovuto parlare.
E, anche quel mattino di ottobre iniziato da poco e nuvoloso, ma ancora tiepido, gli stava ripetendo che doveva provarci, persino mentre parlavano ora: avrebbe dovuto immaginare in italiano le risposte che dava in macedone.
Asim, invece, pensava sempre che sarebbe tornato presto a Kumanovo, e avrebbe ritrovato i suoi amici, che, sicuramente, lo avrebbero aspettato come se fosse solo scappato un momento nella sua vecchia casa a far merenda, dalla mamma che non c’era più, prima di tornare a giocare con loro nei cortili dei grandi caseggiati grigi.
La strada proseguiva in salita, e Asim e suo padre adottivo Ibrahimi, camminavano uno dietro l’altro ora, sullo stretto marciapiede che correva solo sul lato destro della strada e che, ad un certo punto, in corrispondenza con un piccolo largo, voltava proprio a destra, leggermente in discesa e quasi subito, lasciava vedere sull’angolo in alto a sinistra, l’edificio della scuola elementare intitolata a Gianni Di Genova, maestro aquilano buono e impegnato con associazioni di volontariato, a dare possibilità ai più deboli, morto in un incidente sull’autostrada, una sera di pioggia, anni prima.
Asim arrivava correndo al cancello della scuola, e salutava il padre con un rapido bacio sulla mano, prima d’entrare e dirigersi verso la propria classe, mischiato agli altri bambini in grembiule e giacchette leggere, lui che indossava una larga tuta da ginnastica e scarpe marroni di camoscio.
La maestra Rina, col suo volto rugoso e magro, seduta dietro la cattedra, leggeva le pagine di un libro, a voce alta e scandendo bene le parole, fermandosi, ogni tanto a guardare la classe, da sopra i suoi occhiali che teneva poggiati quasi sulla punta del naso, e cambiando tono di voce, mentre spiegava il contenuto di quel che aveva appena finito di leggere, cercando nelle espressioni dei ragazzi silenziosi la conferma d’essere stata chiara e comprensibile.
Asim, talvolta, senza riuscire ad ascoltare più, guardava verso le finestre della classe, sui vetri ove erano incollati disegni grandi e colorati di pupazzi di neve mai sciolta, e oltre, verso il piccolo cortile interno della scuola: lì, sul prato ancora verde, erano poggiati una casetta alta di plastica gialla e un basso tunnel blu e rosso, da percorrere pancia a terra e ridendo. Le parole della maestra Rina allora, gocciolavano come una pioggia la cui acqua era zittita da tuoni cupi che parevano, progressivamente, riempire il cielo ed ogni respiro dentro le orecchie di Asim.
Gruppi di genitori, fuori dalla scuola, attendevano l’uscita dei ragazzi. Le auto parcheggiate per metà sui marciapiedi, e per metà entro la sede stradale che, a malapena in condizioni normali, consentiva il passaggio di due auto su opposti sensi di marcia, contemporaneamente.
Tra di loro, un uomo giovane, che aveva in testa un cappello con visiera girato all’indietro e indossava un giubbotto di pelle, sopra una larga felpa colorata, e grandi scarpe da basket fluorescenti, parlava ad alta voce con una elegante donna snella dai capelli biondi lunghi, gesticolando a scatti, come se stesse spruzzando vernice sui muri intorno.
I bambini facevano già la Quarta Elementare, e l’anno successivo sarebbe stato l’ultimo, prima delle Scuole Medie. Non erano accettabili tempi troppo lunghi nel seguire i programmi previsti: non era corretto che una intera classe si fermasse ad aspettare che un unico bambino recuperasse il suo ritardo con la lingua italiana. Per uno solo, sarebbero stati penalizzati in tanti. Bisognava parlare con le maestre, no, meglio, con la Dirigente Scolastica. Per fortuna, forse, sarebbe arrivata una insegnante di sostegno. Così avevano rassicurato in segreteria, però già dieci giorni prima. Ma sarebbe stato comunque troppo tardi. Difficilmente, si sarebbe potuto recuperare tutto. La scuola era iniziata ormai già da un mese, e più anche. Certe volte sembrava che i figli stessero ancora in Terza, per come non parevano cresciuti proprio, e per i compiti che gli davano, e per come parlavano.
E come vestiva, certa gente.
All’uscita dalla scuola, alcuni ragazzi non sembravano voler andare via.
Asim era inseguito da diversi suoi compagni di classe, mentre correva intorno alla casetta gialla ridendo, insieme agli altri. Gli zaini poggiati tutti insieme in un canto.
Dall’ingresso, i genitori ascoltavano grida divertite, senza che fosse chiarissimo, cosa i ragazzi tra loro dicessero.
Colonna sonora: “Nudge it” – Sleaford Mods