Le assi di pino erano catastate in terra, sotto l’ombra del muro di tufo, e odoravano di muschio ancora.
Infilava la punta del coltello dal manico d’osso nero, dove finiva il tronco ed iniziava la corteccia terrosa, e ne allargava, piano, il confine, d’una zona che provava a staccare sempre più ampia, e ci lavorava dentro, infilando la lama sempre più profonda, cercando di ferire il tronco, più che la scorza, pur se sapeva che, quando i lavoranti del cantiere se ne fossero accorti, si sarebbero arrabbiati, pel legno rigato.
Sarebbe stato lontano, per allora, sperava.
Adesso, in quell’ora di mattino di mare freddo di inizio giugno, ancora non sentiva rumori intorno, mentre il sole aspettava, poggiato da qualche parte, verso Grecia, poco prima d’inrosare il cielo.
Solo ritmicamente, scalfiva l’aria, appena oltre il molo della Capitaneria di Porto, diretto alla boa mezzana, il respiro bagnato dei remi incordati col sego agli scalmi, che, a prua e a poppa di una lancia di legname celeste, afferravano leggeri l’acqua, sotto le braccia dei pescatori che, coi piedi nudi artigliati al fasciame di fondo appena svuotato con la sessola, la ricamavano, arricciandola in un mulinello veloce che si scioglieva silenzioso nella scia divergente, sui fianchi della carena.
E lavorava veloce, sentendosi il sudore correre appena dietro la schiena e fermarsi, nella camicia bianca di cotone pulito, intrasparendola; sperando di sfuggire ai cani, lasciati senza corde, tra gli scogli e le opere murarie, in mezzo ai ciarpami e alle schegge di legno irrisolte, coi denti liberi e i fianchi seccati dalla fame e dalla sete già estiva.
E riusciva, infine, a strappar via un gran pezzo di pelle dal tronco segato, e si ritrovava in mano una bella stozza di corteccia grassa, e ne puliva le vene della curvatura interna, , strofinandola con le mani fino a sanguinarle, dagli insetti che c’avevano fatto tana e dalla polvere di trasporto e d’abbandono.
Allora, cercava d’indovinarne la consistenza. Se fosse ancora compatta e fresca, colorata come un mattone rosso di terra argillosa d’ulivi, o se fosse già diventata arida e grigia, pronta a spezzarsi vinta, alla minima pressione, come capitava coi gusci te li monacceddhi, quando s’era troppo avidi a raccoglierli scavando veloce con la zappetta puntuta, sotto le macere e i muretti di confine che ombreggiavano la terra arsa.
Bastava l’odore, in realtà, per capire, se fosse stata il guscio di legno fresco e pigne ancora resinose, o se invece sapesse già di pietra muta e sabbia spenta.
Col coltello tra i denti, ancora aperto e pronto per essere usato in difesa contro i cani, e la buccia d’albero in mano, scavalcava il muretto basso e tornava sull’asfalto della strada per correre, e correre ancora fin verso casa, senza girarsi indietro mai, convinto che in questo modo nessuno potesse riconoscerlo, fino ad arrivare dove la strada diventava campagna di rovi e fichi di latte bianco e appiccicoso, in direzione di Alezio… a li Picciotti.
Si sceglieva un sasso piatto dove sedere, e metteva la mano sinistra, con le dita tutte chiese e unite, sopra la parte esterna della corteccia e segnava col, coltello, la punta del dito medio più lungo, e il tratto in cui, dietro, la mano nasceva dal polso, con un taglio orizzontale dritto; quindi, rovesciava il sughero e cercava la linea immaginaria, in controluce, che spartiva in due, perfettamente e simmetricamente, la curvatura, perché diventasse il centro longitudinale della prossima barca, la chiglia ferrea, e iniziava a tagliar via l’eccesso che copriva le murate immaginate e la prua come una freccia. E toglieva, e toglieva spessore, per renderla leggera, e capace di prendere le onde come vanno prese: di tre quarti, e scarrocciare; mai di faccia, per non saltare in aria e magari finire dritti in acqua, tra i galletti di schiuma, senza poter nuotare più, ed emergere.
Ci voleva lavoro e attenzione ferma, per non spezzare mai quella scorza che diventava legno e, quando prendeva il respiro, dopo averlo lungamente trattenuto, per disegnare un profilo alto e veloce, raccoglieva dei sassi ruvidi da terra, e, leggermente, piano piano, li strofinava contro le superfici sbozzate per appianare asperità ostinate e levigare le fiancate e la poppa, tenuta appena più piena per permettere alla barca di governarsi più alta, di prua, e meglio prendere le correnti.
Lasciava una asse piatto nel mezzo delle fiancate, di traverso, che bucava poi in centro, per fissarci un rametto dritto e alto, dove infilava un brandello di fazzoletto – nascosto alla madre – tagliato per vela, pronto a gonfiarsi.
La sua barca avrebbe salito il mare di porto in porto, tra amici lontani e cammelli e metalli e gomene e donne generose; fin quando non fosse stata vinta dalla tentazione dell’orizzonte, lasciandosi a bando, al vento.